“Oggi le vittime trovano attorno a sé un sistema di associazioni che svolgono un ruolo egregio. E trova attorno a sé uno Stato che sa rispondere meglio, affiancando la vittima”. Secondo il Prefetto Santi Giuffrè – già Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura – le vittime di mafia, oggi, hanno un motivo in più per stare tranquille: lo Stato è al loro fianco. Intervistato telefonicamente, il dottore Giuffrè, che dal 1 marzo 2014 è cittadino onorario di Enna e che, come primo incarico in Polizia, nel 1975, fu dirigente della Squadra Mobile di Enna, ricorda le importanti iniziative messe in atto dall’ufficio del commissario. Il Prefetto, è bene ricordarlo, è stato il primo investigatore ad applicare l’articolo 416 bis del codice penale (contestando l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso), per assicurare alla giustizia un gruppo di delinquenti che taglieggiava i commercianti a Piazza Armerina.
Negli ultimi anni il concetto di antimafia ha avuto un’evoluzione positiva, perché c’è un risveglio delle vittime. Finalmente arrivano delle denunce, e finalmente le persone cercano di affrancarsi da un sistema che negli anni era diventato oppressivo; se non lo è stato sempre. È d’accordo?
“E’ chiaro che un sistema positivo come quello repressivo delle forze di polizia e della magistratura incoraggia la vittima a denunciare. Ed è chiaro che sempre più si è scoperto nel tempo che denunciare, oltre a consentire alla vittima di fare pace con la propria coscienza, è anche conveniente per chi lo fa. Ed ecco, quindi, che il numero delle denunce, certamente, aumenta. Ma non ci si deve fermare a questo: si deve capire che la criminalità cambia, si evolve e anche il legislatore deve trovare sicuramente stimoli nuovi e normative nuove”.
Su questo tema l’ufficio del Commissario da lei diretto ha svolto un ruolo propulsivo in questi anni.
“Noi abbiamo consegnato un pacchetto di proposte al legislatore, che comportano piccole correzioni che consentirebbero di premere sull’acceleratore. Avevamo previsto di allargare i termini per presentare la denuncia, perché in realtà chi è veramente vittima di estorsione molte volte impiega del tempo a riprendersi dallo shock che subisce, con un attentato. E poi, soprattutto, abbiamo chiesto una liquidazione integrale e non soltanto parziale: cioè tutti quelli che hanno dato un contributo già in primo grado di giudizio e stanno denunciando organizzazioni criminose di ampio respiro, non possono aspettare, solo con una parte dell’indennizzo, per ottenere il resto al termine di processi lunghi ed estenuanti. Quando già hanno dato contributi provati in giudizio è giusto che venga liquidato il tutto. Queste e altre piccole modifiche sono importanti per le vittime, perché testimoniano l’impegno dello Stato anche in chiave sempre più moderna e avanzate; da apportare a una legislazione che già è meravigliosa ed è all’avanguardia, tant’è che altri Paesi del mondo ce la copiano”.
Dal suo osservatorio privilegiato, in questi anni, che cosa ci vuole dire di quanti sono stati scoperti ad approfittare di questo sistema, da falsi paladini dell’antimafia?
“Il movimento antimafia indubbiamente si è ingrossato e come tutte le famiglie grandi può annoverare dei problemi. E’ chiaro che chi gestisce beni di un certo tipo, risorse economiche pubbliche, ha l’obbligo – per fortuna e purtroppo – di erogare denaro, di autorizzare mutui, erogare contributi soltanto e in presenza di certezze di collaborazioni reali e vittime vere. Tutto questo talvolta porta a dei rallentamenti e spesso colpisce la vittima perbene. Ma bisogna scremare, bisogna evitare dubbi e perplessità perché gestendo denaro pubblico non si può sbagliare”.
Si è aperto da qualche tempo un dibattito che affonda le proprie radici nella cosiddetta “profezia di Sciascia” in relazione a quelli che definì i “professionisti dell’antimafia”. Negli ultimi anni sono emersi casi inquietanti.
“Si, è quello che le dicevo poc’anzi: quando le file s’ingrossano è chiaro che non diventa tutto oro colato, bisogna capire e saper discernere. Ma tutto ciò non può determinare una critica a tutte le associazioni antiracket e antimafia. Non è che perché scopriamo il prete che ha sbagliato rinneghiamo il clero, non è che troviamo il poliziotto o il magistrato che ha sbagliato e non abbiamo più fiducia nelle forze di polizia o nella magistratura. E’ chiaro che le grandi strutture devono avere degli anticorpi dentro di sé che riescano a espellere tutto ciò che non è adeguato, tutto ciò che è fasullo”.
E secondo lei il movimento antiracket li ha questi anticorpi?
“Guardi, mi vanto di avere lavorato e di avere ottenuto un decreto che ha rivisto i criteri delle associazioni iscritte all’albo dei prefetti: mentre prima bisognava assistere le vittime e/o promuovere iniziative di legalità antiracket, abbiamo rescisso le due cose e detto che l’essere promotori di iniziative e convegni è un “di più”. Le associazioni devono dimostrare di avere accompagnato le vittime alla denuncia e in tribunale. Era troppo comodo fare un convegno all’anno e diventare associazioni antimafia. Ora i prefetti hanno gli strumenti normativi, il decreto proposto da noi, a disposizione per potere respingere ed espellere dall’albo prefettizio le associazioni che nel tempo non hanno portato a denunciare”.
Avete confermato soprattutto qual è il requisito fondamentale per essere associazione antiracket: la denuncia e il supporto delle vittime.
“Abbiamo avuto modo di dire no a quelle associazioni che esistono solo nelle aule di giustizia, dove gli avvocati si costituiscono. Le associazioni devono portare le vittime a denunciare. Quello è il passaggio fondamentale, amico mio: l’associazione ha un ruolo di accompagnamento e di fiducia. Deve evitare che il tizio che ha denunciato si ritrovi solo, in gigantesche aule di giustizia, con gli imputati e con le loro enormi famiglie. Deve evitare che la vittima rimanga sola. Deve svolgere un ruolo complementare di affiancamento della vittima costituendosi al suo fianco”.