Con l’avvento di numerose personalità di spicco che dalla carriera di magistrato si proiettano in quella politica, emerge ormai molto chiaramente come non sia più procrastinabile un intervento legislativo, volto a garantire parità di regole e garanzie per le funzioni esercitate, sia quelle politiche che quelle giurisdizionali.
Nel corso degli anni abbiamo assistito a diversi casi di ingresso in politica di tanti magistrati, particolarmente P.M. e, non a caso, poiché il ruolo attivo e direttivo nella fase delle indagini preliminari, che a torto o a ragione è comunque quello che più interessa l’opinione pubblica, espone indubbiamente un Procuratore della Repubblica o un Sostituto all’interesse mediatico e, quindi ne dipinge, spesso inconsapevolmente, un ritratto da difensore del diritto nei confronti di chi si assume lo abbia violato (l’indagato): la positività sta tutta dalla sua parte, la negatività nell’avversario, financo verso l’avvocato che, costituzionalmente garantito, esercita il diritto di difesa nelle prime e delicate fasi di un procedimento penale.
Pertanto, agli occhi del popolo il P.M., vendicatore dei torti subiti dalla persona offesa, sia essa una donna martoriata da atti di violenza o omicidi, sia la collettività truffata da un politico infedele, acquisisce di fatto un ruolo politico, amplificato dal circuito mediatico odierno, spesso ormai condizionato anche dai flussi nei social.
Impossibile sovvertire tale situazione, innegabile non vedere in essa un’azione politica, imprescindibile doversi ormai confrontare con tale tema laddove un magistrato, del P.M., dopo alcune indagini particolarmente esposte, specie in tema di pubblica amministrazione, corruzione, mafia, compia il salto e passi dall’altra parte della barricata, entrando in politica, spesso dalla porta principale.
Superfluo qui ricordare i casi più famosi, da Antonio Di Pietro e Antonio Ingroia, che hanno fondato dei movimenti politici, a Luigi De Magistris, Sindaco di Napoli tra l’altro rieletto, Michele Emiliano, Sindaco di Bari, Presidente della Regione Puglia ed oggi persino sfidante per la segreteria nazionale del PD.
Orbene, se i primi tre nominati hanno avuto la sensibilità, perché obbligo non vi era, di dimettersi dalla magistratura, rischiando in proprio ed in età non pensionabile, nell’ultimo caso abbiamo invece un soggetto in aspettativa che, domani, cessate le cariche pubbliche o politiche, potrebbe ritornare al suo mestiere, che attiene peraltro all’esercizio della giurisdizione, funzione facente parte dello schema di tripartizione dei poteri su cui si fonda la civiltà illuministica e liberale e che viene ripreso dalla nostra stessa carta fondamentale.
Che ne é nel caso in cui il Dott. Emiliano dovesse chiudere la sua esperienza politica e rientrare in servizio?
In che modo potrebbe seriamente ritenersi la sua imparzialità non irrimediabilmente compromessa dall’avere non solo espresso pubblicamente la propria opinione politica, ma addirittura averla pratica in qualità di amministratore e poi di aspirante segretario di partito?
Andrebbe persino valutato il caso dei tanti magistrati semplici parlamentari, o addetti ai vari gabinetti ministeriali o agli uffici legislativi dei dicasteri.
In questi casi non sarebbe serio ed opportuno intraprendere una scelta definitiva di fuoriuscita dalla magistratura, che se anche non potrebbe evitare le ombre sul percorso professionale compiuto fino a quel momento, probabilmente finalizzato alla intrapresa politica, almeno eviterebbe che il soggetto nel futuro possa trovarsi nell’imbarazzo grave di dover persino giustificare ogni sua decisione alla luce dei trascorsi politici.
Chi gioca a calcio può benissimo diventare arbitro, ma poi non può nuovamente ritornare a giocare, perché altrimenti si mina la credibilità di tutto il sistema.
Pensate che esiste una categoria di magistrati, gli onorari, cui ho appartenuto in passato, che se dovessero fare tale scelta dovrebbero dimettersi irrevocabilmente, sul presupposto che la loro nomina e mantenimento in servizio richiede quale requisito essenziale non solo quello di non ricoprire alcuna carica elettiva ma anche di non ricoprire o aver ricoperto, nei tre anni precedenti alla domanda, incarichi direttivi o esecutivi nei partiti politici o nelle associazioni sindacali maggiormente rappresentative ovvero la carica di difensore civico: non stiamo parlando di un magistrato di carriera, con la certezza del contratto a tempo indeterminato e sino alla pensione, con le progressioni in carriera automatiche a semplice conseguimento dell’anzianità prescritta, ma di soggetti che esercitano negli scantinati dei Tribunali, tuttavia occupandosi di affari di una certa rilevanza, senza alcuna garanzia pensionistica e meno che mai emolumenti dignitosi, come dimostrano attuali e passate proteste degli stessi ed interventi legislativi non ancora definiti, nonostante le violazioni dei principi europei in tema di abuso del precariato.
Ora, come si può in uno Stato di diritto ritenere ancora che queste condizioni di conflitto tra politica e magistratura non debbano necessariamente trovare una regolamentazione uguale per tutti?
In queste ore pare essere ripreso l’esame di una proposta di legge alla Camera, che però non affronta il nodo cruciale: carriera politica e professione di magistrato possono essere porte girevoli oppure per coerenza e rispetto di entrambe le istituzioni dovrebbero essere gestite con scelte irreversibili?

Gianpiero Cortese