di Angelo La Barbera *
La felicità in questi ultimi anni ha costituito argomento di interesse nell’ambito delle scienze sociali e analizzati attraverso numerosi lavori di ricerca. Sociologi ed economisti si sono interrogati su quanto la felicità delle persone fosse determinata da alcune condizioni sociali e istituzionali, tra cui: il reddito procapite, lo sviluppo dei diritti umani, la stabilità politica, la libertà economica, i livelli di fiducia, il capitale sociale, l’eguaglianza e la stabilità democratica. Anche la psicologia si è interessata alla comprensione delle modalità con cui le istituzioni, i contesti sociali e culturali e i comportamenti influiscono sul benessere delle persone. Diener (2010) in uno studio recente riconosce l’interesse crescente a studiare le influenze universali sulla felicità, partendo dall’assunto che alcuni contesti sociali produrrebbero una maggiore qualità di vita poiché soddisfano dei bisogni considerati universali, ovvero rilevanti per tutti i soggetti e tutte le culture. I dati dimostrano che la soddisfazione dei bisogni, individuati secondo la tassonomia prevista da Abraham Maslow (1954) (ovvero: cibo e riparo; supporto sociale e amore; sentimento di rispetto e orgoglio nelle azioni; padronanza; autonomia e autorealizzazione), è associata al benessere soggettivo per tutte le regioni del globo terrestre considerate. Si dimostra quindi che il benessere, conseguente al soddisfacimento dei bisogni, è un concetto che si può applicare a paesi connotati da culture profondamente differenti poiché non esprime un valore esclusivo delle culture individualistiche occidentali.
Un miglior livello di vita per tutti i cittadini è in grado di produrre effetti positivi che vanno oltre la soddisfazione dei bisogni dei singoli; ad esempio, i paesi più ricchi possono fornire infrastrutture e cure mediche migliori e garantire quindi una più soddisfacente qualità di vita per la maggior parte degli individui, indipendentemente dal reddito dei singoli. I dati dimostrano inoltre che il reddito, seppure rilevante, incide sul benessere meno della soddisfazione dei bisogni: il reddito costituisce uno strumento che può facilitare la soddisfazione dei bisogni, compresi quelli di base, ma in sé non è sempre fonte di benessere. Nell’ambito della ricerca psicologica il tema del benessere costituisce un costrutto eterogeneo. È infatti necessario distinguere il benessere psicologico, quello soggettivo e quello sociale. Quando il tema del benessere è riferito alla salute, un’ampia letteratura utilizza il costrutto di qualità della vita, mentre la felicità, intesa in senso stretto, viene considerata sostanzialmente come un’emozione o un sentimento positivo.
Cos’è la felicità? È una dimensione individuale o sociale? È possibile individuare alcuni fattori che possono favorirla? Il noto neuroscienziato Richard Davidson (2012) ha osservato che il concetto di felicità viene utilizzato in riferimento a un’ampia gamma di stati emozionali positivi denunciando, inoltre che , tra tutte le emozioni, la felicità è quella che gli scienziati capiscono meno. Il tema della felicità, così come è trattato da coloro che sviluppano studi, ricerche e metodi per pervenire a una misurazione, è considerato nella sua accezione edonica ed eudaimonica. L’approccio edonico considera il benessere in termini di ottenimento del piacere personale legato a sensazioni ed emozioni positive (definizione del benessere soggettivo di Kahneman, Diener, Schwarz, 1999); l’approccio eudaimonico si riferisce alla realizzazione delle potenzialità dell’essere umano (Ryan, Deci, 2001), intesa come ciò che è utile all’individuo, nel senso che ne arricchisce la personalità. Galimberti nel 2009 considera la felicità come una dimensione che riguarda l’individuo, e ricorda:
                        la felicità resta comunque una condizione esistenziale a cui tutti ambiscono e, incapaci di raggiungerla, attribuiscono il fallimento agli altri o alle circostanze del mondo esterno, quali l’amore, la salute, il denaro, l’aspetto fisico, le condizioni di lavoro, l’età, e in generale a tutta una serie di fattori su cui non esercitiamo praticamente alcun potere di controllo. Ciò induce molti di noi a esonerarci dal compito di essere non dico felici, ma almeno propensi alla felicità, perché nulla possiamo fare di fronte alle circostanze che non dipendono da noi. Eppure la propensione alla felicità, è accessibile a qualsiasi essere umano, a prescindere dalla sua ricchezza, dalla sua condizione sociale, dalle sue capacità intellettuali, dalle sue condizioni di salute. Perché la felicità non dipende tanto dal piacere, dall’amore, dalla considerazione o dall’ammirazione altrui, quanto dalla piena accettazione di sé, che Nietzsche ha sintetizzato nell’aforisma: “Diventa ciò che sei”.
Sulla scorta di quanto afferma Galimberti, la felicità è uno stato d’animo intimamente connesso con la realizzazione di sé che, a sua volta, si basa sulla capacità di fruire di ciò che è ottenibile, e non di desiderare ciò che è irraggiungibile. Come ricorda De Piccoli (2014) ogni popolo e ogni essere umano sono in grado di riferire il proprio livello di felicità, ma è il significato attribuito alla felicità in sé che può differire (cos’è la felicità per un giapponese, un italiano, uno statunitense?), così come differenti possono essere i fattori che la determinano (cosa determina la felicità per un giapponese, un italiano, uno statunitense?). si tratta infatti di considerare che ciò che concorre alla felicità non è disgiunto dai significati sociali e culturali sottostanti le azioni, i comportamenti, gli stili di vita, intesi a livello sia individuale sia sociale, e che la stessa componente emotiva è mediata culturalmente (ad esempio per i giapponesi ostentare le emozioni, siano essere positive o negative, è indice di maleducazione).
Ad esempio secondo indici comparati di felicità, il Buthan risulta il paese più felice. Cos’è la felicità per i suoi abitanti?
Ho citato non a caso il Buthan, poiché costituisce un caso che ha stimolato l’interesse di diversi studiosi. Si tratta di un paese povero, con meno di 700.000 abitanti, abbarbicato sull’Himalaya, eppure è tra i primi venti al mondo per livello di felicità (Castells, 2010). Il Buthan da molti viene ricordato anche perché è stato il primo paese al mondo ad aver sostituito la valutazione del PIL (prodotto interno lordo) con l’indice di felicità nazionale (felicità interna lorda, FIL), ritenendo che per una vita quotidiana armonica siano necessari: uno sviluppo economico equo e sostenibile, in cui la crescita si traduca in benefici sociali per i cittadini; la conservazione dell’ambiente naturale; la difesa e la promozione dell’identità culturale; un buon governo che garantisca la stabilità istituzionale e sociale. Le premesse a questa valutazione sulla felicità risalgono al codice del 1729, che sancisce l’unificazione del Buthan, in cui dichiara: <<se il governo non può creare felicità per la sua gente, non ci sono ragioni che il governo esista>>. Nel 1972, il re Jigme Singye Wangchuk del Buthan ha dichiarato che il FIL più importante del PIL e, da allora, le sue politiche nazionali e i suoi piani di sviluppo vengono orientati in quella direzione. L’articolo 9 della Costituzione di questo paese dichiara che lo Stato <<promuove quelle condizioni che permettono di perseguire la felicità interna lorda>>. Cosa si intende, più estesamente, per FIL? Non esistono definizioni ufficiali, ma quella più comunemente utilizzata è la seguente: Il FIL misura la qualità di un paese in modo più olistico (del PIL) e ritiene che lo sviluppo benefico della società umana abbia luogo quando lo sviluppo materiale e spirituale procedono fianco a fianco completandosi e rinforzandosi l’un l’altro.
In linea con quanto affermato nasce la domanda “I soldi fanno la felicità?” Le critiche mosse al PIL intercettano diverse questioni; le principali riguardano da un lato il rapporto tra benessere e reddito e dall’altro il tema dell’equità. Il PIL è considerato una misura incompleta se si vuole indagare il benessere di un paese, poiché il valore complessivo dei beni e dei servizi prodotti, espresso come mero valore economico, non è sufficiente a descrivere il benessere dei cittadini. Il tema dell’equità richiama quello delle uguaglianze sociali. Sulla base dell’osservazione secondo cui i paesi più ricchi non sono necessariamente quelli più felici. Quindi dal confronto tra paesi è emerso che i paesi ricchi non necessariamente sono più felici di quelli più poveri. Infatti, i paesi più felici sono tendenzialmente quelli che hanno sì un reddito elevato, ma che esprimono anche un alto tasso di eguaglianza sociale, di fiducia e di qualità della governance. Negli ultimi anni, tra i paesi con il tasso di felicità più elevato troviamo la Danimarca, mentre per gli Stati Uniti non si osserva un aumento nella soddisfazione per la vita da circa cinquant’anni, ovvero un periodo in cui l’ineguaglianza sociale ha continuato a persistere, se non aumentate, la fiducia sociale è diminuita e i cittadini hanno perso fiducia nel loro governo (Sachs, 2012).
Bibliografia:

  • Castells M. (2010), Viva l’economia della felicità, in “Internazionale”, 863.
  • Davidson R.J., Begley S. (2012), The Emotional Life of your Brain, Hudson Street Press, New York.
  • De Piccoli N. (2014), Salute e qualità della vita nella società del benessere, Carocci Editore, Roma.
  • Diener E. (2010), Wealth and Happiness across the World: Material Prosperity Predicts Life Evaluation, whereas Psychosocial Prosperity Predicts Positive Feeling, in “Journal of Personality and Social Psychology”, 99, I,pp.52-61.
  • Galimberti U. (2009), I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano.
  • Kahneman D., Diener E., Shwarz N. (eds) (1999), Well-Being: The Foundations of Hedonic Psychology, Russel Sage Foundation, New York.
  • Maslow A. (1954), Motivation and Personality, Harper, New York.
  • Ryan R.M., Deci E.L. (2001), On Happiness and Human Potentials: A Review of Research on Hedonic and Eudaimonic Well-Being, in “Annual Review of Psychology, 52,pp 141-66.
  • Sachs J. (2012), Introduction, in Helliwell, Layard, Sachs (2012), pp.2-7.

* Psicologo Clinico