di Josè Trovato

E’ un sabato d’inverno. Un amico presidente di un’associazione antiracket mi ha chiesto di raggiungerlo a casa sua. Deve chiedermi “un favore”. Dice che gli piacerebbe lo sostituissi in un importante convegno che si dovrà svolgere a Napoli tra due settimane. Io adoro Napoli. Ci andrei tutte le volte che posso. E poi mi fa piacere l’idea di dare una mano a una persona che stimo. Obiettivamente è una camurrìa, ma alla fine accetto.
Sarà un evento importante, con istituzioni di primissimo piano da tutta l’Italia.
Il mio aereo da Catania atterra a Napoli la sera prima. Una pizza nel locale suggerito dalla reception del mio hotel a tre stelle e poi a letto presto, perché l’indomani dovrò raggiungere il luogo del convegno.
Arrivo tra i primi. A un certo punto il moderatore chiede se qualcuno voglia intervenire. Alzo la mano. Spiego di essere lì a rappresentare indegnamente un’associazione antiracket a cui non sono neppure iscritto, ma che conosco da sempre. Aggiungo di aver scritto due libri sulla mafia della mia terra e di sentirmi molto vicino a chi sostiene le vittime. Poi, essendo tra i pochi siciliani in sala, ricordo a tutti quanto sia importante combattere Cosa Nostra – la più antica e pericolosa organizzazione criminale del pianeta, anche se nell’ultimo periodo se ne parla di meno perché ha scelto di non uccidere e dedicarsi agli affari – e farlo mobilitando la società civile. Specifico quanto mi dia fastidio l’idea che di mafia, dalle mie parti, si parli solo all’interno dei tribunali (se non per “fare filosofia”). E ricordo l’importanza del lavoro silenzioso delle forze dell’ordine e della magistratura, a cui per troppo tempo a Enna, vigliaccamente, abbiamo delegato il ruolo di unico baluardo contro la mafia.
Mentre sto parlando il moderatore mi interrompe. “Scusi un attimo. E’ arrivato il DOTTORE. Benvenuto”.
Entra questo elegante signore che non conosco. Sono tra i pochi a non conoscerlo. Lo salutano.
Riprendo il mio breve discorso improvvisato, non senza aver prima fatto un cenno di saluto pure io al DOTTORE. Parlo altri cinque minuti scarsi. Ricevo il mio applauso. Torno a sedere. Intanto il DOTTORE, che ha preso posto al tavolo della presidenza, si rivolge a me: “Alla fine non vada via, che le devo parlare”, mi dice, mentre altri iniziano a prendere la parola.
Passano le ore. Si fanno le 14 e devo andarmene.
Devo assolutamente comprare un giocattolo a mio figlio. E non potrei mai decollare da Napoli senza aver comprato delle sfogliatelle. Poi questo che cavolo vuole?
Così mi avvicino al tavolo.
– “Senta, DOTTORE, io devo andare. Eventualmente qui c’è il mio numero, mi chiami pure”.
– “Lei ha l’aereo delle 18,30 per Catania?”.
– “Si… come lo sa?”.
– “Ho parlato con il suo presidente. Non si preoccupi. Ci vediamo all’aeroporto. Prenderemo lo stesso aereo”.
Il mio presidente? Semmai il mio amico presidente. Ma decido di non contraddirlo.
Saluto quelle tre persone che avevo conosciuto – tra un caffè deludente (l’espresso di una macchinetta da due soldi a Napoli dovrebbe essere illegale!) e quattro chiacchiere spassionate – e vado via.
Arrivo all’aeroporto di Capodichino alle 16,30. Siedo ad attendere con due ore di anticipo davanti al mio “gate” e inizio a compiere l’attività più intellettuale che mi venga in mente, in quel momento: leggere la Gazzetta dello Sport. Il Milan ha perso come sempre. A un certo punto appare lui, il DOTTORE. Non so ancora se essere emozionato o infastidito. Si mette a parlare. Inizia a dirmi che devo prendere in mano questa associazione, che è tutto pronto.
Rispondo di trovarmi lì solo per fare un favore a un amico, che non ho nessuna intenzione di mettermi a fare il presidente di un’associazione antiracket. Fa un cenno… per la serie: “Lascia perdere, so che lo dici solo per salvare le apparenze”. E continua a parlare come se niente fosse, quasi che io fossi presidente in pectore, pronto a mettermi a lavorare con lui, desideroso di ascoltare le sue dritte.
Ci tiene a dirmi in particolare una frase che secondo lui (che evidentemente di me non sa niente!) eserciterà un particolare fascino: “Otterrà dei finanziamenti”. Nella poltroncina dell’aeroporto, in pochi minuti, descrive i dettagli di un’attività antimafia importante, fatta di iniziative di grande coinvolgimento sociale, qualificanti, di apertura verso i giovani, di impatto. Ma c’è sempre di mezzo quel particolare. Lo ripete più volte.
– “In questo modo, può chiedere anche 10 mila euro”. “Così almeno 7 o 8 mila”. “Mi raccomando: chiediamo il finanziamento”.
Io 7b, lui 7c. Il dialogo, che sarebbe più corretto definire il monologo, continua pure sull’aereo… non ne esco vivo.
Mi fa “due palle così” per tutto il volo con la descrizione minuziosa della sua attività, con quello che “dovrò fare” e i “buoni rapporti da tenere con le istituzioni”. Diventa fastidioso.
Gli ripeto: “Non è una cosa che mi interessa”. Lui non ci crede e continua a parlare.
Io intanto penso che questi discorsi non mi interessano. Non smetto di pensare che il suo modo di ragionare non mi piace. E non mi piace neppure questa storia dei “buoni rapporti con le istituzioni”. Io ho sempre avuto un rapporto molto franco con le istituzioni. Ho sempre conosciuto sindaci, prefetti, questori, procuratori, presidenti, avvocati, colonnelli, rispettando il loro ruolo e chiedendo di fare lo stesso. I buoni rapporti con le istituzioni non derivano dal panettone di Natale, ma dalle azioni che compiamo nel quotidiano. Io sono un giornalista e ho sempre chiesto rispetto per due ragioni: per il ruolo che ricopro e per i miei lettori. Se manca questo non ci sono “buoni rapporti” che tengano. Non sento il bisogno di impostarli, i rapporti con le istituzioni. L’empatia, la simpatia reciproca, l’amicizia, che spesso nasce con loro (perché sono persone normali!), è qualcosa di naturale. Se accade – e il più delle volte effettivamente si crea dell’amicizia – è positivo per entrambi, ma non succede di sicuro perché qualcuno, o un DOTTORE, sostiene che debba andare così.
L’aereo low cost atterra puntualmente, contro ogni pronostico.
Scendo e torno a casa.
Dopo qualche giorno vado a trovare il mio amico presidente. Gli fornisco un resoconto particolareggiato, sottolineando la convinzione di non avergli fatto fare brutta figura. Poi gli racconto del mio volo di ritorno. Aggiungo che non ho nessuna intenzione di fargli le scarpe, cosa che mostra di non temere, ricordandogli che, peraltro, alla sua associazione io non sono neppure iscritto. Lui spiega che effettivamente aveva pensato a me perché prendessi il suo posto un giorno, ma lo blocco subito. È un’idea impossibile. Impensabile. Impraticabile. Io mi occupo di altro. Mi fa capire che lui, del DOTTORE, ha sentito parlare molto bene, che ha parlato con lui un paio di volte per telefono ma che non lo conosce particolarmente. Così gli esterno le mie impressioni non certo buonissime. A quel punto il mio favore è finito. Non parlerò mai più con il DOTTORE.
Questa storia risale ad almeno sei anni fa.
Perché ve la racconto?
1/ Avete presente il DOTTORE?
Beh, lo hanno arrestato. Le mie impressioni forse non erano sbagliatissime, ma per carità: per lui vale la presunzione di non colpevolezza come per tutti. Certo, leggere simili intercettazioni fa male.
2/ Ci tengo a ribadire oggi – giorno in cui, forse, la mia fiducia in certi professionisti dell’antimafia ha raggiunto il minimo storico – che io credo nell’antimafia. Credo nei valori dell’antiracket e nelle associazioni, che combattono la mafia e accompagnano le vittime nelle caserme o nei commissariati di polizia, mettendosi a loro disposizione disinteressatamente e gratuitamente. Credo nel ruolo che la società civile deve avere contro la mafia, che non può prescindere dalle associazioni antiracket.
Ecco, è questo che voglio sottolineare: le associazioni antiracket, salvo qualche caso isolato che indubbiamente fa più notizia, sono davvero così. È gente perbene, che si ribella al malaffare.
Penso al mio amico presidente dell’associazione, un commerciante che ha pagato un tributo altissimo per dire no al racket e non ha mai avuto alcun interesse diverso che combattere la mafia, far condannare gli uomini del pizzo e insegnare ai più giovani quanto sia importante sporgere denuncia. Penso a un gruppo di ragazzi con cui sono cresciuto a Leonforte, che oggi fanno gli imprenditori, hanno denunciato il racket e sono costretti a vivere con la paura di subire ritorsioni o vendette trasversali. Penso all’attività svolta da pezzi delle istituzioni, da molti sindaci, prefetti, magistrati, costretti a vivere sotto scorta perché hanno colpito i mafiosi nei loro interessi. Penso alla gioia che provo nell’aver visto sorgere quattro associazioni antimafia nella mia provincia, tutte composte da persone perbene. Penso ai mafiosi che hanno mandato in galera. Penso al risveglio generalizzato che finalmente ha raggiunto pure quella provincia, Enna, dove ancora qualche idiota continua a sostenere che… “tanto la mafia qui non esiste”.
Per questo lo ripeto e non ho alcun problema a dirlo: io credo nell’antimafia. Credo nelle associazioni che si impegnano attivamente, nel lavoro di tanti uomini e donne in divisa e di tanti magistrati, che rischiano in prima persona per metterli dentro, i mafiosi. Conosco e stimo coloro che combattono la mafia nella mia terra. E loro non vanno a caccia di denaro. Sono loro i veri uomini d’onore. L’ho scritto nel mio ultimo libro e lo voglio ribadire, a costo di apparire autoreferenziale. Gli uomini d’onore non sono certo i mafiosi – la maggior parte dei boss, anzi, diciamocelo, sono dei mentecatti! – ma lo è chi fa il proprio dovere ogni giorno, chi combatte la mafia e cerca di affermare i propri valori.
Credo tuttavia che oggi più che mai il movimento antimafia debba trovare la forza di scavare al proprio interno, di fare pulizia e cacciare i mercanti da tempio. Che le istituzioni debbano vigilare di più. E soprattutto che entrambi, istituzioni e associazioni, non debbano smettere mai di aiutare le vittime, gratuitamente e disinteressatamente, rinnovando quotidianamente il proprio impegno. 
Questa è l’antimafia che mi piace. Questa è l’antimafia in cui credo. Un’antimafia da dilettanti, ma che forse è la sola possibile.