di Angelo La Barbera *

“Da dove sono venuto, dove mi hai preso? Chiese il piccolo a sua madre. E lei, fra il pianto e il riso, stringendo il bambino al petto, rispose: “ Amore mio, eri un desiderio nascosto nel mio cuore”.
È consueto che all’interno delle dinamiche familiari si vivono periodi di intesa e di dissapore,  lassi di tempo in cui si ci comprende e altri in cui non si ci comprende affatto. É grazie a questi momenti di intermittenza che la famiglia si  sviluppa, sperando che le circostanze positive primeggiano e supportano il bambino e i genitori a superare gli inconvenienti e la frustrazione delle circostanze negative.
Concentrandosi sulle comunicazioni del bambino e interpretandole fin dai primi giorni della sua vita, il caregiver (colui che presta cura e assistenza al bambino) lo aiuta a trovare un suo posto nel mondo. Il bambino sperimentando in modo continuo l’adattamento dei genitori alle sue esigenze sperimenta un senso di benessere. Senza questo fondamentale appoggio il bambino non sarebbe in grado di reggere la frustrazione e l’aspettativa.
Per comprendere meglio la relazione e il tipo di comunicazione fra bambino e caregiver sono state condotte varie ricerche, all’interno delle quali sono stati eseguiti degli esperimenti dove l’interazione fra la madre e il bambino viene interrotta. Gli studi effettuati hanno illustrato che l’interazione fra il caregiver e il bambino è distinta da brevi pause e attenzione, secondo uno schema che permette ai due protagonisti di intervenire a turno e di influenzare l’andatura della relazione. La risposta dell’uno influenza la risposta dell’altro. Alcune ricerche hanno studiato i “volti immobili”, dove la madre e il bambino vengono invitati ad entrare in una stanza e ripresi da una telecamera, all’inizio si chiede alla mamma di interagire con il proprio bambino come fa di solito ma senza prenderlo in braccio. In seguito si chiede alla donna di allontanarsi dalla stanza per un breve periodo, e quando deve rientrare si chiede di  rivolgersi al proprio bambino per circa quarantacinque secondi con un volto immobile privo di espressione. Le registrazioni e i risultati dimostrano che il volto immobile e inespressivo della madre creano angoscia e inibiscono il bambino. L’effetto è straordinario: il piccolo  scopre immediatamente il cambiamento e cerca di provocare una reazione nella madre. Prima si gira da un’altra parte e in seguito si rivolge nuovamente alla madre, spesso fa vari tentativi. Dopo svariati fallimenti si abbandona su se stesso e cerca di consolarsi da solo. Dalle videoregistrazioni si può riscontrare che la reazione del bambino crea delle alterazioni umorali alla madre, che a sua volta si altera e si chiude in se stessa.
Lynne Murray, ricercatrice, ha svolto altre ricerche sulle famiglie in cui la madre soffre di depressione post-parto, con le quali ha dimostrato che ciò che è di rilievo nella relazione caregiver e bambini sono le risposte specifiche che vengono date alle persone coinvolte nella interazione. Per crescere i bambini hanno l’esigenza di essere guardati e ascoltati, hanno bisogno di risposte. Ma la ricerca dimostra anche che i caregiver non siano tenuti ad “azzeccare sempre”.  Dunque il recupero dopo un istante di disarmonia promuove la crescita, in quanto probabilmente le esigenze del bimbo verranno soddisfatte in misura maggiore e non inferiore. Citando il pediatra e psicoanalista inglese, Winnicott, i neonati hanno bisogno di “una madre sufficientemente buona”. Quindi la capacità di dire NO deve essere supportata dalla sensibilità alle esigenze del bimbo. Uno dei sottili confini da tracciare riguarda il momento in cui è giusto comunicare a dire “NO”.
Asha Phillips, psicoterapeuta infantile, racconta nella sua esperienza professionale di aver osservato i primi anni di vita un bambino di nome Jim. La madre era molto attenta e premurosa, sembrava che sapesse sempre cosa voleva il piccolo Jim e spesso preveniva i suoi desideri.  A quei tempi la psicoterapeuta pensava che la donna fosse  la madre ideale. Quando Jim aveva undici mesi e non camminava ancora, gli piaceva tenere la mano della madre e, con il suo aiuto, “arrampicarsi” su e giù per le scale. La madre gli teneva le mani e Jim si slanciava in su, senza riguardo per la madre che si doveva curvare in avanti per sostenerlo. Il bimbo pretendeva di continuare a lungo questa attività, e la madre sembrava incapace di stabilire con fermezza quando doveva smettere. Alla fine la donna era esausta, e Jim diventava spietato e tirannico. Infine la psicoterapeuta dovette ricredersi e comprese che la madre ideale  non esisteva.
Sembra una situazione idilliaca, dove la madre risparmia al proprio figlio qualsiasi tipo di frustrazione e irritazione, ma in realtà non funziona. Con il passare del tempo la collega comprese che Jim aveva una bassissima tolleranza della frustrazione e che faceva molta fatica a gestire  le difficoltà. La madre con la sua accondiscendenza non lo aiutava a costruirsi una forza fisica, poiché il bimbo non usava i suoi muscoli per salire le scale, e nemmeno emotiva. Il bimbo inoltre sembrava convinto di fare tutto da solo. Questo atteggiamento della madre privava a Jim dell’esperienza di sviluppare le proprie capacità e di comprendere che aveva bisogno del supporto della madre. Di conseguenza,  il bambino era incapace di chiedere aiuto e invece strillava un’urgenza che veniva subito soddisfatta. Quindi non riconoscendo il ruolo della madre, era incapace di sviluppare un sentimento di gratitudine. La riluttanza da parte della madre a opporsi al bambino ne fece un piccolo adagiato. Questo tipo di atteggiamento finiva per caratterizzare tutto il loro rapporto, e il tempo passato insieme era spesso infelice: la madre si sentiva tiranneggiata e impotente, mentre Jim era irritabile e pieno di pretese.
Questa osservazione di Asha Phillips ha messo in luce il fatto che ciò che è appropriato a un’età può non esserlo a un’altra. I neonati e i bambini piccoli si muovono e apprendono a un ritmo molto rapido; gli adulti si devono adattare ai loro bisogni che cambiano. Nell’esempio appena presentato, Jim quando era molto piccolo trasse beneficio dalle risposte immediate della madre, che gli diedero fiducia e il senso di essere supportato e amato. Ma in seguito questo atteggiamento gli impedì di diventare indipendente e contribuì a sviluppare in lui un senso di onnipotenza. Sembrava per entrambi fosse impossibile tollerare la fase intermedia, quella in cui, non riuscendo a fare qualcosa da soli, si prova e pian piano si raggiungono dei risultati. Le due uniche alternative erano il successo e il fallimento: il necessario percorso di apprendimento non era previsto.
Per imparare si deve innanzitutto essere nella condizione di non sapere qualcosa. Se si pensa di sapere già tutto, non si può ascoltare niente di nuovo. Per diventare più forti bisogna riconoscere di non poter fare tutto immediatamente. Per acquisire qualcosa dagli altri bisogna pensare che si abbia qualcosa da offrire. Condizione indispensabile per poter chiedere aiuto, e farne poi buon uso, è quella di rendersi conto della propria dipendenza. Le basi di questo atteggiamento vengono poste durante l’infanzia. Molti bambini, e perfino adolescenti, vivono in uno stato di falsa indipendenza e di pseudomaturità e hanno grande difficoltà ad apprendere dagli insegnamenti e a trarre beneficio dalle attenzioni di chi si occupa di loro.
Bibliografia:

  • Questi studi sono desritti in Brazelton, T.B. e Cramer, B., Il primo legame, Frassinelli, Milano 1991.
  • Murray, L. e Cooper, P.J. (a cura di), Postpartum Depression and Child Development, The Guildford Press, New York e London 1997.

Winnicott, D.W., Oggetti transizionali e fenomeni transizionali, in Dalla pediatria alla psicoanalisi, scritti scelti, G. Martinelli, Firenze 1975, p.286.
*Psicologo Clinico