Scrivo questa riflessione dopo il giorno della memoria, appositamente.
Il 27 eravamo intenti, io per prima, nei giri istituzionali, nell’obbligo di commemorare la memoria del commemorare, nient’altro.
Scrivo oggi il 29, perché dagli eventi il distacco temporale è d’obbligo.

Abu Ghraib


Ho una memoria fotografica, così sentendo il caso tragico di Pateh, in mezzo al Canal Grande nella Venezia da fotografare, mi vengono in mente gli orrori della guerra, gli americani che si fotografano in crani dei giapponesi durante dopo Pearl Harbor, mi vengono in mente le foto dei bracconieri con le loro prede e gli orrori del carcere di di Abu Ghraib.
Si faceva, si fa per mostrare il completo distacco, ostentare l’altro come un oggetto completamente sottomesso; completamente disumanizzato, ridotto a sagoma, si fotografa, si registra per poterlo riguardare e per farlo vedere a chi non assisteva in diretta. La guerra è animalità. Vi risulta?

Soldato americano con Cranio Giapponese


Qualche giorno prima l’Italia era indignata contro la satira di Charilie Hebdo sull’evento drammatico dell’Hotel Rigopiano, la vignetta aveva suscitato un certo orrore e ognuno aveva un’opinione su come non si scherza o meglio sul divieto della rappresentazione dell’orrore, tranne che per cronaca. Ragionevole, opinabile… Eppure a Venezia, appoggiata sul mare, calma e lagunare, rappresentare un uomo che affoga riprendendolo con il cellulare si può fare! Questo ha indignato molto meno.
No. Non fa differenza se uno si butta o se uno rimane vittima accidentale, perché è evidente che qui non è il modus, è la pelle la discriminante.
Un’immagine, un video si vede attraverso il telefonino, si commenta come una banale partita di calcio, in cui viene fuori l’irrazionalità volgare e violenta dei razzistelli, che urlano contro un uomo, che ha la pelle scura. Non merita di essere salvato perché è nero. Che sia nel Canal Grande, in un Hotel tra macerie e neve che cambia? Nel quadro lui verrà sempre nero.
Siamo in guerra, allora. Quei video che ritraggono la sua morte rappresentano sostanzialmente la povertà culturale, la miserabile umanità, certamente una totale assenza di compassione. Diventeranno forse documenti come quelli dell’Istituto Luce, orrori fascisti da leggi razziali, perché nessuno ha aiutato Pateh a rimanere vivo.
Il nostro Paese civile, perché le responsabilità sono sociali, ha condannato un uomo scappato dal Gambia a morire alla luce del giorno a Venezia.
Peteh ha ventidue anni. Pateh aveva ventidue anni. Pateh era un giovane uomo. Temo che per lui non ci sarà memoria, ma solo una aberrante registrazione.
 

di Valentina Rizzo