Alte le aspettative per Le Troiane, esordio siciliano del regista veneto Matteo Tarasco, che dopo la prima della scorsa settimana al Teatro Garibaldi di Enna ha concluso ieri il proprio tour al Teatro Regina Margherita di Caltanissetta. Il mito dalla prospettiva femminile, ispirato a Euripide, Seneca e Sartre. Attuale nell’assenza di logica e di eroi, in un ciclo storico intriso di conflitti, in cui di archetipi eroici se ne avvertirebbe il bisogno.
Insomma, sulla carta, l’intera drammaturgia firmata dallo stesso Tarasco – primo e unico regista italiano a essere nominato membro del Lincoln Center Theatre Directors Lab di New York City e insignito, una decina di anni fa, dal presidente della Repubblica italiana del premio Personalità europea per il teatro come migliore regista emergente – promette bene. Per quanti hanno varcato la soglia del teatro portando con sé la passione per la cultura classica, con rivisitazioni annesse, Le Troiane si è rivelato come un imponente edificio rifinito male. Si alza il sipario e da subito non convince la scenografia. Tutto è nero, suggestivo. Un non-luogo soffocante che scandisce il tempo dell’attesa e del dolore. Quello di Cassandra (Aurora Cimino), Andromaca (Giuliana Di Stefano), Demostea (Clara Ingargiola), Polissena (Grazia Lo Brutto) ed Ecuba (Rita Fuoco Salonia). Nero. Nero come la guerra, come la morte. Nero come la sordida tortura di cui le protagoniste sono in attesa. E’ lento ogni gesto, lento e disperato. Della disperazione bisogna avere rispetto, per quell’aura di solennità che porta con sé. I passi scalzi delle protagoniste, sibilanti su quella plastica tesa in pieghe e piegoline, quasi rompono il silenzio che una potenziale lirica merita. Nero, sì, ma che possa diversificare quella visione traslucida, vicina a scenari post industriali. Non importa, la fioca luce di una candela accompagna l’ingresso in scena di Cassandra. Si riaccendono le aspettative. La bella sacerdotessa di Apollo, colei che predice ma non è creduta, si appropria della scena. Cassandra, la troiana. Cassandra la pazza. La follia potrebbe essere la chiave di lettura. Il primo elemento di immedesimazione e catarsi. Ci si aspetterebbe, dunque, un personaggio a tinte forti. Ma dov’è la follia? Dove la vis irrazionale che ha reso celebri e immortali Cassandra, Medea e tutte le donne di Euripide? Colei che doveva essere il trait d’union, il principio primo e ultimo dell’intera vicenda, si perde nei meandri della debolezza. Manca a Cassandra quel quid in più che le consenta di far vivere la disperazione, piuttosto che riferirla.
Tutto sembra essere molto didascalico, quasi una lectio magistralis sull’insensatezza della guerra. Sarebbe stato preferibile mettere l’accento sull’assenza di eroi in guerra. Inizio a chiedermi perché? Perché tanti spunti utili sono passati sotto tono? Perché demonizzare la guerra estrapolando elementi di una cultura che della guerra stessa ne ha fatto il proprio strumento di equilibrio? Perché non è stato esaltato quell’attimo di apparente eresia della ieratica Cassandra, che squarcia la solennità del sacrificio additandolo per quello che è, un massacro? E perché, ancora, non è stato debitamente esaltato il femmineo greco che nello struggimento del dolore intimo, serba tuttavia la consapevolezza della dignità? Quei monologhi giustapposti senza un accurato intreccio, a tratti melliflui, regalano tuttavia contorni suggestivi. Sono quelli di Polissena, che si offre in sacrificio con l’austera solennità che le si conviene, di Demostea che nel dolore della tortura si risveglia alla vita. Nelle mani di Ecuba, stanche e sconvolte, che si trascinano verso il sangue versato dalla figlia e si uniscono a lei, un’ultima volta, in uno struggente bagno. Andromaca, che sul corpo inerme del piccolo Astianatte eleva la propria disperazione. Su tutti, emergono i contorni della Guardia (Doriana La Fauci). Spiccano per la completezza, le movenze in sincrono con l’austerità interpretativa, la subalternità del sottoposto che l’insensatezza di simili eventi nefasti la vive e la racconta con accurata precisione. Il mito, del resto, ha bisogno anche di questo.

Alessandra Maria