Prendo in prestito il titolo di un vecchio film con Julia Roberts, vittima di un compagno inizialmente affettuoso ma poi rivelatosi un vero psicopatico, perché gli ultimi avvenimenti che coinvolgono donne, ferite gravemente o più spesso uccise dai rispettivi compagni, si stanno ormai inseguendo, almeno nelle cronache, in una escalation forse non più controllabile.
Ieri a Caltagirone una donna è stata uccisa a coltellate nel sonno, nello stesso letto in cui dormiva, appunto, con il nemico.
Ora, non esiste graduatoria di merito, meglio di demerito, fra tutti questi innumerevoli episodi ma, certo, arrivare a colpire una donna nel letto ed in condizioni di nessuna autodifesa, con la presenza a casa dei propri figli, forse è il gesto più grave mai visto, specie se il tizio, senza pentimento, a quanto dicono le cronache, si è regolarmente costituito, confessando e non provando alcun sentimento apprezzabile.
Ci stiamo facendo l’abitudine, ne abbiamo almeno una a settimana o più di queste notizie terribili, ma ciò non deve farci dimenticare che è un male che si replica ed al quale non ci si può, né deve, mai assuefarsi.
Nella mia modesta esperienza professionale incontro spesso il diavolo vestito da marito o compagno ferito; badate che non lo hanno scritto in faccia “io sarò un femminicida”: sono persone normali, spesso incapaci di compiere altro genere di gesti contro legge, forse neanche un divieto di sosta, magari affettuosi con i figli, a volte persino professionisti, eppure…
Quando parlano, però, della loro donna, ex o attuale, molto spesso ex e, di conseguenza, avversaria in innumerevoli questioni riguardanti reddito, alimenti, collocazioni e visite dei figli minori, si accendo lampi nei loro occhi e si capisce che, all’occasione, potrebbe venir fuori il diavolo e consigliare il male possibile.
Il tizio di Caltagirone avrebbe detto in caserma che gli è venuto un “raptus” e l’ha uccisa perché non riusciva a liberarsene, perché voleva lasciarla e lei non voleva.
Ovviamente prendiamo col beneficio d’inventario i racconti giornalistici come li riceviamo ma, se fosse vero, che vuol dire “ho avuto un raptus”? Cos’è, la scusa buona per giustificarsi? Qualcuno mi spieghi il “raptus”, perché mi sembra solo un comodo rifugio di chi vorrebbe scrollarsi di dosso le proprie responsabilità.
So bene che nessun assassino, forse solo i sicari di professione, riesce a riconoscersi dopo il delitto nella stessa persona che lo ha commesso e, come dice la psicologia eccessivamente giustificazionista, “rimuove” dalla memoria il fatto, sostenendo sinceramente di non averlo fatto, ma a me pare qualcosa di fortemente distante dalla realtà.
In verità, l’omicida è colui il quale uccide un altro essere umano, punto e basta; per troppo tempo abbiamo avuto la tendenza a separare i crimini a seconda dei moventi; ricordo da giovanissimo lunghe polemiche sui brigatisti rossi, anche neri, prima linea e lotta continua: si diceva sono giovani, culturalmente elevati, se il pur delirante motivo che li spinge a negare la vita altrui è la teorizzazione della lotta armata, vanno trattati come assassini politici, quasi con motivazioni in fondo più nobili di un volgare rapinatore o di un marito geloso o di un fratello accecato dall’ira per l’eredità contesa.
Oggi dovremmo sforzarci, anche in senso penalistico ed in vista magari di una semplificazione del nostro sistema, a partire da un principio fermo e serio: chi uccide è un omicida, colui il quale ha negato l’esistenza ad un altro essere della sua stessa specie, gesto di cui non aveva il diritto, né alcun nobile scopo.
Poi, si proceda pure con aggravanti ed attenuanti, allo scopo di graduare la pena, in dipendenza del movente, che può essere il più bieco (magari il pestaggio del giovane eseguito per futili, forse inesistenti, motivi, all’uscita del disco pub, oppure il mafioso che scioglie nell’acido un bambino di 12 anni, o ancora il marito violento, il parricida per scopo di denaro, etc., la cronaca ci offre purtroppo una carrellata sempre più terrificante dei gradini del male che sa percorrere l’essere umano) oppure il più “nobile”, se così si può dire (ricordo che, se non mi sbaglio, il c.d. “delitto d’onore” era un’esimente sino al 1967…), ma non vi è dubbio che un assassino è sempre tale e non ci può essere giustificazione che tenda.
Le categorie (femminicida, terrorista, rapinatore, mafioso) sono comodità di enucleazione socio patologiche, buone per chi, in assoluta buona fede, ne intende studiare comportamenti e relazioni coi vari moventi, ma non dovrebbero mai rientrare in vere e proprie definizioni giuridiche, perché il diritto penale dovrebbe occuparsi del fatto e circostanziarlo, al fine di adeguare, aggravandola o attenuandola, la pena al caso concreto (per i delitti nei confronti delle donne io, però, stabilirei solo aggravanti, ma è un pensiero personale), senza entrare in argomentazioni che si appartengono ad altre scienze, collegate ed al servizio del codice penale ma mai da mescolarsi ad esso ed alle definizioni di legge.
Che poi, a pensarci bene, chi uccide il prossimo non è mai da giustificare, perché il movente non può mai nobilitare un gesto di chi sottrae il bene supremo e lascia la sua famiglia ed i suoi cari nel più profondo abbandono, che magari solo una vendetta potrebbe placare.
Lo Stato di diritto però l’autogiustizia non può permettersela, ma deve esercitare il diritto dovere di amministrarla nel migliore dei modi possibili.

Avv. Gianpiero Cortese