EnnaOra continua a fare approfondimento. Oggi lo facciamo con Emiliano Abramo, presidente della Comunità di Sant’Egidio di Catania e la Commissione MAM (Mobilità, Accoglienza e Migrazione) dell’Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia (ANPIA). I membri della commissione, in qualità di antropologi hanno posto al presidente Abramo domande mirate, noi abbiamo favorito questa connessione con l’obiettivo garantire un servizio di informazione puntuale.

Valentina Rizzo
(Direttore Responsabile)

 
Da quanto è presidente della Comunità?
Ho conosciuto la Comunità di Sant’Egidio quando avevo 15 anni. Sono Presidente della Comunità da due anni e mezzo.
In che modo è cambiato il lavoro negli ultimi 2 anni?
 Negli ultimi due anni sono cambiate le domande dei poveri, della gente in generale e direi che è cambiato il mondo.
Penso alla forte presenza di migranti in Sicilia come si è evoluta in questi ultimi anni. Per esempio oggi siamo concentrati ad accogliere in modo più attento i bambini e particolarmente i bambini malati. Negli ultimi mesi vediamo molte situazioni di questo tipo.
Poi penso agli anziani, sempre più poveri e sempre più soli. Nei nostri servizi con chi vive in strada è aumentato sensibilmente il numero degli anziani siciliani che hanno una casa ma non hanno cibo, non hanno la possibilità di cucinare perché non hanno luce e gas a casa. E ancora penso ai neet, a coloro che non studiano, non lavorano e hanno perso speranza nel futuro. La Sicilia ha la più alta concentrazione di neet in Italia. Tutto questo si incrocia con il mondo di chi vuole impegnarsi nel volontariato. Sempre più persone non solo giovani, ma anche adulti, vedono nella Comunità di Sant’Egidio una via per cambiare il mondo, dove preghiera, gratuità e solidarietà liberano dall’irrilevanza ciascuno di noi.
La comunità di Sant’Egidio svolge delle attività anche all’interno del CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo)?
Sant’Egidio svolge regolarmente attività dentro il CARA di Mineo, autorizzati dal Ministero dell’Interno.
Quali attività svolgete?
Le nostre attività nascono da rapporti personali dal rapporto personale costruito con tanti migranti. Noi proponiamo a loro come via di integrazione l’amore per le città dove hanno scelto di vivere, ovvero l’amore per i poveri. Così a gruppi di 5-10 persone vengono regolarmente a Catania per fare servizio con le persone che vivono in strada, vanno a fare il doposcuola ai bambini dei quartieri storici, vanno a trovare gli anziani che vivono in istituto o in condizione di solitudine. Tutto questo lo fanno con loro coetanei italiani, creando amicizie che favoriscono l’integrazione e che costruiscono in Sicilia la società del convivere.
Poi la vita dentro il CARA è articolata dall’attenzione che i giovani richiedenti asilo hanno oramai per i nuovi entrati: parlano della Comunità di Sant’Egidio, fanno attenzione ai migranti che sembrano essere troppo isolati, propongono di partecipare alla loro preghiera settimanale, che ha luogo tutti i lunedì e vede oramai da un paio di anni la partecipazione di centinaia di partecipanti.
L’area in cui sorge il CARA di Mineo è abbastanza lontana dai centri abitati e dalla città di Catania, in che modo la comunità di Sant’ Egidio lavora affinché le distanze tra il campo e i centri urbani si accorcino?
In realtà il lavoro non è solo il nostro, ma troviamo la complicità di tutti gli attori che si spendono per l’integrazione. Penso alla Prefettura che ha sempre messo a dispozione i mezzi per far viaggiare i ragazzi, penso alla disponibilità della direzione del CARA che non ha mai respinto una nostra richiesta di collaborazione e penso soprattutto ai giovani ospiti del campo, i quali spesso pagano con i loro soldi il viaggio per venire a Catania. Chiaramente anche noi facciamo la nostra parte.
In definitiva credo che lavorare per la pace, per i più deboli delle città sia un tavolo a cui tutti, ma propri otutti siamo invitati e che raggiungiamo in tanti modi anzi, in tutti i modi possibili.
In che modo lavora per ridurre l’isolamento degli abitanti del CARA di Mineo?
Oltre ai modi sopra descritti ne segnalo altri due: il primo è ricambiare la visita, ovvero ogni settimana ci sono persone della Comunità che vanno al CARA per partecipare alla preghiera e per fare delle visite agli ospiti del campo; il secondo è la cultura, quindi rendere sempre più partecipi i nostri amici del CARA di fatti che riguardano la Sicilia, l’Italia e l’Europa. Insomma aiutiamo loro a scoprire quel mondo in cui hanno scelto di vivere. Facebook, WhatsApp e strumenti simili sono canali per veicolari messaggi amicali e di affetto come la buonanotte ma anche per raccontare e ascoltare, per scoprire questo mondo che cambia in modo rapido ma che ci appassiona perché ancora umano.
Quali sono le condizioni di vita delle donne ospiti del centro?
Solo nell’ultimo anno siamo riusciti a coinvolgere anche le donne nel nostro circuito. Tendenzialmente sono meno disponibili all’incontro, ma dopo il coinvolgimento delle prime donne ora abbiamo una bella realtà di donne che siamo contenti di coinvolgere nella vita della Comunità. In definitiva credo che la maggiore difficoltà sia quella del loro essere troppo isolate e di vivere in uan condizione di eccessivo affollamento che rende difficile l’accesso ad ogni servizio. Questo scoraggia una vita integrata e favorisce l’isolazionismo con il rischio di essere intercettata da giri malavitosi.
Che rapporti ci sono tra il campo e la città di Catania?  Alla vostra manifestazione del 4 aprile erano presentin alcuni rappresentanti delle istituzioni civili, militari e religiose, tra cui il Presidente della Regione Siciliana Rosario Crocetta, il Sindaco di Catania Enzo Bianco, il Sottosegretario Giuseppe Castiglione, il Presidente della comunità islamica di Sicilia, Kheit Abdelhafid.
Non sono in grado di dare una risposta valida per tutti gli ospiti del campo. Posso dire che per quel che riguarda i richiedenti asilo con i quali siamo in contatto il rapporto con la città di Catania è ottimo. Non solo iniziative di solidarietà, ma anche c’è una loro partecipazione alla liturgia della domenica, c’è un’amicizia con tanti loro coetanei catanesi che coltivano durante l’anno, c’è insomma un processo di integrazione che sono felice di sostenere sia a titolo personale che con i tanti amici della Comunità di Sant’Egidio.
 Come venite in contatto con le storie di vita dei migranti?
 Sarebbe grave il contrario. La vocazione della Comunità di Sant’Egidio è quella di stare sempre nei luoghi in cui i poveri chiedono un incontro, quindi è naturale la nostra presenza al porto, nei centri di primissima accoglienza, negli ospedali e in luoghi in cui spesso la gente soffre e chiede un conforto. I migranti li abbiamo incontrati la prima volta a catania, il 10 agosto 2013, quando una barca con circa 100 egiziani si incagliò sul litorale playa di Catania a pochi metri dalla riva e dove morirono 6 giovani. Abbiamo fatto incidere una stele per commemorare l’inizio della storia di amicizia tra Catania e i “nuovi europei” ovvero coloro che cercano una vita di pace in Europa, perché crediamo che sia un momento storico che rivelerà a tutti quale generazione di siciliani e di europei siamo. In definitiva oggi direi che siamo una bella generazione!
Da quel 10 agosto abbiamo incontrato i migranti in tanti modi, ma oramai la via principale è l’amicizia con tanti migranti che conoscono e frequentano la Comunità di Sant’Egidio
Crede che chi ha condotto ricerche e lavorato nei paesi di provenienza di queste persone sia utile per mediare culturalmente (non solo linguisticamente) gli incontri?
Assolutamente si e per tanti motivi. In primo luogo perché nell’incontrare la domanda di accoglienza ci troviamo in un mondo non di lingue e città diverse, ma di dialetti e di piccoli centri; Non di grandi dinamiche di culture e politiche differenti, ma di superstizioni e dinamiche claniche. Insomma, chi ha conoscenze storiche, antropologiche, linguistiche e culturali specifiche farà un grosso servizio all’accoglienza e all’integrazione e renderà meno pesante il passo di noi europei che spesso con presunzione diamo una risposta semplificata a tutto, senza tener conto del vissuto dell’altro. Questo significa concretamente rispetto del prossimo e, con categorie umane, significa voler bene alla gente che incontriamo, ed è vero per vecchi e nuovi europei. 
Ci sono dei progetti portarti avanti dalla comunità relativamente ai fenomeni di sfruttamento della prostituzione?
No, anche se proviamo ad individuare le donne incontrate a rischio e quindi a vigilare sulla loro esposizione al rischio di essere intercettare dai tanti male intenzionati.
Come funzionano i corridoi umanitari?
E’ la via che la Comunità di Sant’Egidio ha consegnato, insieme ai Valdesi e alle chiese Evangeliche, all’Europa per dire che non esiste solo la via del barcone per entrare in Europa. Abbiamo cominciato in Libano dove i profughi siriani stanziavano da tempo e abbiamo chiuso un accordo con il Governo Italiano per favorire l’ingresso di 1000 siriani in aereo. Chiaramente, considerando la gravità della situaizone in Siria, sono tutti aventi diritto di protezione internazionale e il nostro progetto non si ferma all’ingresso in Italia ma anche a tutto il percorso di integrazione nella società, usando la rete di amici, religiosi e uomini di buona volontà. Abbiamo accolto anche in Sicilia diversi siriani nelle città, come Catania e Palermo, ma anche nei piccoli centri come Polizzi Siculo.
Il modello è facilmente replicabile come dimostrano i corridoi che abbiamo promosso con la Caritas e con Il governo Francese.
In base a quali criteri e principi si stabilisce il grado di vulnerabilità di una persona o di una famiglia, tale per cui a questo/questi è garantito il diritto a viaggiare in sicurezza?
I criteri sono quelli sanciti dalla Convenzione di Ginevra e, nel caso italiano, quelli previsti dalle Commissioni Territoriali che valutano la domanda di protezione internazionale. Purtroppo spesso dobbiamo fare delle scelte nel stabilire l’equipaggio di ogni singolo volo per l’Italia e si preferisce dare sempre la precedenza ai malati e ai bambini.
Chi decide e seleziona i paesi da cui far partire i corridoi umanitari?
Il criterio è quello della stabilità del Paese di appartenenza. Spesso i luoghi di partenza di chi migra sono talmente instabili da rendere impensabile impiantare un punto di partenza dei corridoi o non hanno degli aereoporti ed infrastrutture annesse. La stabilità dei governi e le condizioni di sicurezza minima sono tra i requisiti principali.
Cosa, secondo lei, impedisce che i corridoi umanitari diventino la normalità? 
La poca disponibilità dell’Europa all’accoglienza che si incrocia con le elezioni in tanti Stati membri. I populismi, il risveglio di sentimenti xenofobi rendono spesso legittimo ciò che è incomprensibile, come l’ingresso in sicurezza di persone che hanno diritto alla protezione internazionale.

 

Le foto dell’Anniversario

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