Il TAR ha emesso due sentenze che annullano le nomine di 5 direttori stranieri chiamati dal Ministro Franceschini a dirigere alcuni tra i più importanti musei italiani.

Le sentenze hanno rilevato alcune irregolarità tecniche e amministrative nell’espletamento del concorso che sembrano inficiare la validità di uno dei provvedimenti più rappresentativi della gestione Franceschini. Pur non potendo entrare nel merito della valutazione delle procedure adottate, certo è che se si decide di bandire un concorso pubblico è necessario rispettare le leggi e le regole che garantiscono trasparenza ed imparzialità nella selezione dei candidati. Svolgere gli orali a porte aperte sarebbe stato già un buon inizio. Risibile la motivazione riguardante l’origine geografica dei candidati. In un mondo sempre più vasto, il TAR sembra voler farci tornare ad un’italica mediocrità che ci sta sempre più stretta.

Il Ministro Franceschini forse avrebbe fatto meglio a nominare direttamente d’ufficio le persone che riteneva più adeguate a ricoprire quei ruoli, forse avrebbe risparmiato qualche imbarazzo per sé e per il Dicastero che rappresenta. Delle nomine ad personam forse avrebbero dato anche un’incidenza maggiore al suo progetto di rivoluzione dei musei italiani.
Già prima della pubblicazione dei bandi per le direzioni dal Collegio Romano si invocava la partecipazione di professionisti stranieri, strumento di innovazione e internazionalizzazione dei musei.
Il messaggio era piuttosto chiaro: “direttore straniero” uguale “direttore migliore”.
Da cui deriva l’equazione: “direttore italiano” uguale “direttore peggiore”.

Una banalizzazione, certo, ma forse rappresentativa di una politica che negli ultimi anni da un lato ha avuto difficoltà ad analizzare l’operato e le potenzialità del personale tecnico-scientifico del Ministero, dall’altro si è fatta porre troppi limiti da cavilli e lacci burocratici.
Il tutto a scapito dell’unico criterio che dovrebbe essere alla base di una selezione per dirigere un Museo: la meritocrazia, che nel 2017 dovrebbe significare competenze scientifiche, rigore, esperienza manageriale, capacità comunicativa, creatività nell’offerta culturale, conoscenza di lingue e pratiche almeno europee…

Al di là del cavillo burocratico, nella selezioni di quei direttori i maggiori dubbi sono stati sollevati proprio dal reale merito delle figure scelte. In alcuni casi è sembrato che l’essere straniero rappresentasse un valore aggiunto e quasi compensasse un curriculum debole a livello sia scientifico sia manageriale. Al punto che molte tra le persone nominate non avevano mai ricoperto ruoli di tale prestigio e responsabilità né nei loro paesi d’origine né in nessun altro. 
E qui sta il vero vulnus della vicenda.
Quando si parla di istituzioni culturali, non vogliamo neanche leggere l’aggettivo italiano o straniero al fianco del sostantivo Direttore. Come studiosi di storia antica, il concetto di “italiano” non ci appartiene, siamo abituati ad avere una visione del mondo e delle dinamiche culturali che lo animano ben più ampia e complessa di quella rappresentata su una carta geografica da striminziti confini nazionali. Leggiamo e scriviamo libri e articoli in diverse lingue straniere, frequentiamo biblioteche e lavoriamo per istituzioni culturali francesi, inglesi, tedesche, americane…, facciamo parte di equipe non ci verrebbe mai in mente di criticare la nomina di un competente direttore di museo, solo perché non italiano doc!

Come cittadini italiani vorremmo solo che la più importante istituzione culturale del Paese, il MiBACT, fosse in grado di individuare le professionalità più competenti e di costruire un sistema nel quale essere nati e aver studiato e lavorato in Italia non fosse un elemento di demerito.

Il ministro Fraceschini ha sempre ribadito la necessità di svecchiare e migliorare l’offerta culturale dei musei italiani, attraverso una loro maggiore apertura verso gli altri paesi e a tale fine è riuscito ad ottenere l’inserimento di tanti nuovi funzionari tecnici nelle file del Ministero.

Un progetto che va apprezzato e sostenuto perché i servizi culturali pubblici devono sempre essere messi in discussione e innovati in modo da saper rispondere alle esigenze di una società che si evolve costantemente. L’Italia può vantare un sistema di gestione dei luoghi della cultura che rappresenta un modello, ha saputo offrire i più ampi orari di apertura di tutta l’Unione Europea e una presenza capillare in tutto il paese che rappresenta una risorsa culturale, economica e turistica per interi comprensori territoriali. Ma neanche questo può bastare.
C’è ancora molto da fare sulla qualità dei servizi offerti, sulla capacità di coinvolgere la cittadinanza, sulla comunicazione dei messaggi culturali e dei valori che l’arte e la storia trasmettono, sull’agibilità di tanti luoghi della cultura.

Lasciando da parte burocrazia e passaporti, forse sarebbe necessario recuperare un dialogo tra mondo della cultura e istituzioni, fondato sul rispetto delle competenze, sulla fiducia e sulla legittimazione reciproche, al fine di costruire un saldo e dinamico strumento di collaborazione e contaminazione per disegnare insieme la nostra idea di futuro del passato.

Valentina Di Stefano
Archeologa