di Salvo La Porta

“Si possono non condividere i modi di Carola, ma sta facendo la cosa giusta. Quello che sta facendo esprime pienamente il suo carattere, Carola fa sempre quello che ritiene giusto”. Così afferma sul Corriere il padre della signora, che comunemente viene ormai da tutti appellata con il titolo di capitana.
Tralasciamo qualsiasi considerazione sul fatto che “lei con i suoi imbarchi guadagna abbastanza da potersi poi permettere dei periodi di volontariato”.
Sarebbe troppo facile fare demagogia, ma rischieremmo di fare arrabbiare quanti nel mondo della sinistra hanno dimostrato di essere maestri di quella che la filosofia antica definisce come l’arte di trascinare il popolo.
Una domanda, però, dobbiamo farcela: quello che è giusto per me è giusto per tutti? Certamente, Hitler non dubitò mai che le sue teorie fossero giuste. Tanto giuste da non tollerare ostacoli di alcun genere alla loro realizzazione.
E’ il difettuccio tipico di molti teutonici, ai quali è stato fatto credere che purchè si combatta per una ragione ritenuta giusta, tutto si possa e si debba fare.
Se, poi, a combattere per questo tipo di giustizia sarà la rampolla annoiata di una ricca famiglia borghese tedesca, la battaglia acquista un carattere di crociata.
“Ho salvato donne incinte e bambini”, dice Carola, ma dimentica di dire che con il suo sbruffo ha messo a repentaglio la vita di altre persone, colpevoli soltanto di fare rispettare le leggi della Repubblica Italiana.
La civilissima Olanda, la cui bandiera sventola sulla Sea Watch, dovrebbe avere il pudore di chiedersi sino a qual punto il comportamento della comandante di una sua nave sia stato corretto e rispettoso delle norme di legge e chiedere scusa all’Italia.
Il comportamento di tanti paesi “civili” è, purtroppo, simile a quel cittadino benpensante, che deposita il corpo di un malcapitato sull’uscio di casa di un altro, imponendogli di prendersene cura e proseguendo per la sua strada.
Qualsiasi considerazione è ormai, se non inutile, accademica. Il fatto è che la capitana dovrà fare i conti con la giustizia.
Ho chiesto lumi ad un amico, docente di diritto della navigazione, il quale mi ha rimandato a due articoli di legge. Uno, il 1099, recita: “Il comandante della nave, che nei casi previsti nell’articolo 200 non obbedisce all’ordine di una nave da guerra nazionale, è punito con la reclusione fino a due anni”. L’altro, il 1100, dice:  “Il comandante o l’ufficiale della nave, che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. La pena per coloro che sono concorsi nel reato è ridotta da un terzo alla metà”. Ci sarebbe, poi, una possibilità seppure remota che alla disinvolta signora possano  essere applicate le norme del codice militare.
Una cosa è certa, le porte del carcere si apriranno per Carola. Lì, avrà modo di godere le soddisfazioni di avere combattuto per una “giusta causa” e di imparare l’italiano, che a quanto pare non conosce molto bene. Ed è anche fortunata, perchè insieme all’italiano potrà bene imparare altre lingue, parlate da tante gentildonne, delle quali le nostre carceri pullulano.