di Nino Di Maio e Pinella Crimì , membri del consiglio direttivo

Forum delle Associazioni Familiari

Sembra un principio semplice, quanto banale. Eppure, i recenti fatti di cronaca giudiziaria ci raccontano un Paese nel quale è difficile distinguere ciò che è lecito da ciò che non lo è, un Paese in cui nulla è ciò che sembra e in cui ogni gesto, ogni parola, perfino ogni pensiero, sembrano nascondere un insieme di simboli, di linguaggi codificati, di segnali riconoscibili solo da chi da quel retropensiero ci guadagna. Val d’Aosta, Sicilia, Calabria, Piemonte sono solo le ultime regioni, in ordine di tempo, ad essere colpite dal malaffare, dalla corruzione, dalla collusione tra mafia, massoneria e certa politica. E, intanto, l’Italia invecchia e muore. Gli ultimi dati hanno consegnato la fotografia di una terra dalla quale i giovani sono costretti a scappare, perché in Italia non vedono riconosciute le loro competenze e la loro preparazione e non è un caso che a soffrire maggiormente siano proprio quei territori in cui una certa pratica clientelare ha trasformato i diritti fondamentali di ogni cittadino in favori, anche con il contributo di organizzazioni di tipo mafioso.
Perché le mafie esistono eccome ed oggi le vittime sono quei paesi, soprattutto piccoli, che si svuotano anche per questo. A pagare il prezzo più alto, come sempre, sono le famiglie che vedono i figli partire perché qualcun altro immeritatamente occupa un posto che sarebbe loro di diritto o che sono costrette a coprire i buchi di un’evasione fiscale provocata anche da quanti costruiscono le loro ricchezze su traffici illeciti e, pertanto, non riconosciuti, o che vedono la propria terra morire giorno dopo giorno. A pagare sono sempre quei cittadini che si barcamenano tra le esigenze di ogni giorno e le utenze da saldare. A pagare sono quanti avrebbero diritto ad una fiscalità equa, ma sono costretti a coprire i buchi provocati da un sistema che non riesce ad immunizzarsi e a difendersi. A pagare sono quanti cadono nella rete dell’uso di stupefacenti, della dipendenza da gioco d’azzardo o dell’usura, fonti primarie di sopravvivenza per il malaffare.
Il cancro di questo Paese si chiama corruzione. La cura è stata tracciata da chi questi fenomeni li studiava già negli anni Ottanta del secolo scorso: tracciabilità dei flussi finanziari, certezza della provenienza del denaro, lotta alla criminalità e all’evasione vera. Non è un caso che il desiderio di riscatto sia partito proprio da quelle stesse regioni che, più di tutte, stanno pagando il prezzo della presenza ammorbante e soffocante di mafia, ‘ndrangheta, camorra. E non è un caso che proprio da quei territori stiano arrivando importanti segnali di buona politica, che consentono alle famiglie di tornare nei luoghi d’origine o ai giovani di produrre ricchezza nei territori in cui sono nati. Occorre, anche in questo caso, una rivoluzione culturale, che parte dal chiamare le cose con il loro nome.