di Alessandra D’Anna

Un anno fa per i maturandi mancavano 100 giorni all’esame, così ho pensato ai maturandi di quest’anno che hanno interrotto il loro conto alla rovescia e a un possibile maturando del 2120. Io me le ricordo bene le ore sui libri di storia, le analisi, le interpretazioni, i grafici, le fonti. E così ho immaginato uno studente del futuro che approfondisce questo periodo in onore del centenario, supponendo che esista ancora l’esame di maturità tra cento anni. Decide di evitare internet. Prende un libro – uno dei pochi rimasti forse – per sentire le sensazioni del XXI secolo. Lo maneggia con la cura e la curiosità con cui oggi sfioriamo una macchina da scrivere e infine lo apre. Il ragazzo comincia a cogliere il peso del libro di Storia, che poggiato sul tavolo di legno ne acquisisce la compattezza materica e la vitalità.
In rosso:“CODV-19. 2020 tra rischio e psicosi”. Il capitolo gli sembra interessante, ma avrebbe potuto approfondire altri argomenti. Uno a caso: il surriscaldamento climatico, dandogli l’importanza che nel XXI abbiamo dimenticato, collegando lo scioglimento dei ghiacciai e la situazione attuale e finendo in fretta la sua ricerca. Invece no, sceglie proprio di approfondire il Coronavirus. Evento emblematico dell’anno breve. Guarda le immagini, le fonti. Legge le varie interpretazioni, le vere osservazioni. Lui per fortuna potrà risparmiarsi le riflessioni e le intuizioni dei miei contemporanei (e coetanei) virologi. Lo immagino a ripassare con la matita la linea rossa del grafico che rappresenta la crescita esponenziale dei contagi, senza soffermarsi ad analizzarlo, perché si sa che gli studenti non li leggono mai. Eppure il numero scritto in cifre e in grassetto gli rimane impresso o è necessario che gli rimanga impresso per inserirlo nella ricerca. Memorizza il numero dei morti, sono tanti. Poi legge di X che accusa chi pensa sia una normale influenza, di Y che sostiene che non lo sia, di Z che, nonostante non crede che sia una normale influenza, invita all’estrema attenzione…
Povero ragazzo, così tante fonti, così poca chiarezza e validità. Ricalca con la matita il grafico, adesso pare una linea di confine invalicabile. Analizza la distanza insormontabile che vi era fino al pomeriggio del 9 marzo 2020 tra nord e sud, poi definitivamente – si spera – superata. Si immedesima negli italiani del tempo. Con un certo sollievo pensa che si stia meglio nel 2120 e che non potrebbe immaginare la sua vita un secolo prima, però certo, si dice, era tutto più vero, più puro, più buono, prima.
Lui non li ha vissuti quegli anni, ma immagina quanto sia stata dura 15 giorni in casa, lui che quella mattina ci sarebbe rimasto volentieri a casa per due settimane. Sorride, ma le mascherine in foto gli incutono timore, soprattutto quelle confuse a Venezia con il carnevale. Uno scenario grottesco. Vede le piazze vuote, le stesse rumorose piazze con l’incessante brulichio di gente, in foto sono deserte, immobili. Quelle stesse piazze che duecento anni prima videro tornare alcuni soldati dalla guerra. Così pensa al 1920, quando all’indomani della prima guerra mondiale, la Società delle Nazioni fu definito un “organismo debole”. Cento anni dopo quest’espressione non riguarda più organizzazione intergovernativa, ma le persone, i veri organismi deboli di quegli anni ’20. Le foto angoscianti, i dati deprimenti, le conseguenze politiche, economiche e sociali, la chiusura di teatri, cinema, musei, ma le guarigioni sempre più frequenti. Il ragazzo chiude il libro.
In questi giorni di continui e irreversibili cambiamenti, immaginare il futuro penso sia la cosa più semplice e umana che esista, un’esigenza oltre che uno stimolo alla scrittura. Evitando un eccessivo e inutile pessimismo e senza la pretesa di pensare un futuro migliore. Anche se non c’è niente di più ottimista che immaginare un futuro.