Quando, alla fine delle vacanze di Natale, ho salutato la mia nipotina, lei mi consolava dicendomi che i mesi sarebbero passati in fretta e che l’estate sarebbe arrivata prestissimo. In quel momento ero convinta che avesse ragione: luglio sarebbe arrivato e noi saremmo stati di nuovo tutti insieme. Siamo tornati a Roma e abbiamo ripreso la nostra quotidianità: il lavoro, gli impegni associativi, la scuola e l’oratorio per i ragazzi. Avevamo in programma di essere tutti a Leonforte a marzo. Poi, all’improvviso, è cambiato tutto. Fino a pochi minuti prima dell’annuncio delle agenzie di stampa avevo confortato i miei ragazzi in classe, certa che, in fondo, questo virus non avrebbe sconvolto le nostre vite più di tanto. Invece, nel giro di qualche ora, ci siamo ritrovati con le scuole chiuse, le strade semideserte, la paura negli occhi e nel cuore. A quel punto e solo allora è arrivata la consapevolezza che nulla sarebbe rimasto uguale a prima.
Come tanti altri, abbiamo scelto di restare a Roma per evitare di essere portatori di qualcosa che nella grande città è più facile da incontrare. Quando ti rendi conto della realtà, ciò che conta di più è il bene delle persone che ami, anche se ad ogni restrizione si fa sempre più strada la consapevolezza che i mesi saranno lunghi e che il ritorno si fa lontano. Il pensiero è perennemente rivolto ai miei genitori e ai miei cari che sono lontani e l’unico conforto è sapere che lì, comunque, possono contare sulla presenza di mio fratello e di mia cognata.  A distanza, però, le paure si amplificano e si ha sempre la sensazione che qualcosa ti sfugga.
Le giornate passano sperando e pregando che non accada nulla, nel rifugio della videochiamata quotidiana e nella ricerca quasi spasmodica di buone notizie. È motivo di orgoglio sapere che il tuo paese sta provando con tutte le sue forze a vincere questa guerra, così come crolla tutto quando quei numeri delle statistiche assumono nomi e volti che conosci bene. Sono quelli i momenti più duri, perché lì bisogna fare i conti anche con la propria fragilità. La mia fortuna, o la grazia che mi è stata concessa, è quella di aver trovato a Roma persone che sono diventate una famiglia: i miei colleghi, i miei alunni, gli amici del Forum, la mia scuola. Capita che, quando scende una lacrima per una brutta notizia ricevuta, arrivi il messaggio di quei ragazzi che ti dicono quanto ti vogliono bene e che per te ci saranno sempre. Quando sai di non essere sola, in fondo un po’ privilegiata ti senti e sai che è tuo dovere provare a capire cosa di buono si può tirare fuori anche dall’isolamento forzato. Il deserto, diceva don Tonino Bello, ti riporta all’essenziale. Allora, nonostante le fatiche, stiamo riscoprendo la bellezza dello stare insieme, i tempi lunghi, la nostalgia per le mura e i corridoi della scuola, gli affetti veri.
Grazie alla tecnologia, anche se ciascuno dalla propria cucina, ci ritroviamo a lavorare, ad incontrarci, a scherzare, a pregare insieme. E mi rendo conto che potrei rinunciare a tutto, ma non alla presenza delle persone che amo. È così cerco di convincermi di aver fatto la scelta giusta a non salire su un aereo quel sabato, provando con tutte le mie forze a credere che questo sia il nostro contributo per provare a ripartire. Poi cala la sera e si ricomincia con il balletto dei pensieri…

Pinella Crimì