di Paolo Spertino

Dido galleggia nell’aria, inseguendo un linguaggio subconscio e planando negli strati bassi della biosfera, come per fuggire, svanire e andare sulla luna. Dido vuol andar a nascondersi sulla faccia buia della luna, niente luce, soltanto una timida lampadina che emette una potenza sufficiente per leggere la dicitura di un pacchetto di sigarette. Sulle sigarette sono apportate i numerini magici, il grado di asfalto presente nei tuoi polmoni. Dido vuol nascere un’altra volta, forse sotto le sembianze di un pesce, forse una falena che con spirito suicida va a schiantarsi contro un lampione rovente, con un solo mesto sfrigolio e mille pezzi in frantumi nella notte. Dido vuol giocare a dito ditolino, ma non ha l’età. Per ora si nasconde dietro a una masturbazione decisa, dietro a tende ricamate di un morboso rosa chiaro. Dido è perversa, satanica, trama nelle sua testa piani mentali mentre aspira profondamente boccate da una sigaretta che sempre le pende ad un angolo della bocca.
Un bivio verso il sonno mi induce a cambiar direzione, o a cambiar altitudine, come un aereo che si trovi in arie turbolenti. Ora sono ad un bivio, senza quasi accorgermi di quello che sto facendo, sognando ad occhi aperti, ho svoltato al bivio, verso sinistra, in cerca di scrittura creativa, o di un qualunque altro motivo che mi induca a creare qualcosa. Qualcosa che può essere uno stronzo duro che cadendo nel buco della tazza del cesso faccia ciafff oppure una orrenda poesiola in rima, scritta per dilettare bambini scemi nelle rare giornate di pioggia di un quartiere malfamato. Ora la strada oltre al bivio mi si insinua davanti. Neppur penso all’altra strada che avrei potuto prendere, la strada della maturità e della sanità mentale. Ho preferito questa, ho preferito illuminare le mie notti con il portatile che lampeggia e impedisce in qualche modo ai miei occhi di chiudersi. Ho preferito la scrittura, usandola come valvola di sfogo. Se non avessi fatto così probabilmente ora sarei già morto, stecchito in seguito a qualche forma di suicidio premeditato, meditato nelle notti insonni e algebriche dove ognuno di noi si fa piani in testa, costruisce castelli in aria e al mattino si ritrova con la bocca piena di soluzioni di parole crociate. Ho preferito delineare la mia realtà, circonscriverla, come per pisciare il mio territorio e sbirciare con occhio arcigno a quello che sta oltre, oltre alla barricata, dall’altra parte. Ho preferito stare chiuso nel mio mondo ovattato e sentire la musica che amo, nelle eterne notti dove uno pensa di poter deviare il corso delle cose con la sola forza del pensiero. Nelle notti propizie cerco sempre di tenermi vicino il portatile e battere frenetico sui tasti all’impazzata, fino a quando mi fumano le dita e soffio via il fumo, come dopo aver sparato con una pistola. Una nebbia di sonno si insinua nei miei scritti, si intrufola nell’intercapedine dell’orecchio che separa le cuffiette con cui ascolto musica. Sembra il termine della notte, anche se soltanto l’inizio. Sembra che la primavera sia arrivata ma il vento freddo mi fa fremere le ossa e scricchiolare l’osso del collo.
Mi sembra di essere vissuto in vacanza da sempre, sempre in procinto di chiedere altre ferie, altri permessi, altre settimane di noia da smaltire in bevute moderate e chiacchierate tra amici, seguite da una evacuazione alla tastiera netta, precisa, quasi indolore.
Immagino che la follia pura sia servire sardine in scatola chiusa, al posto dei soliti biscotti e dei soliti cioccolatini, e vedere le facce degli invitati dipingersi di una tinta di compatimento, come se per un’attimo avessero sognato. No, nessun sogno, il vostro anfitrione si è bevuto letteralmente il cervello. A questo punto il pazzo accetta la sua condizione e si lascia avvolgere di strati di seta, e in una notte senza stelle fa la dormita più sensazionale della sua vita. E il giorno dopo, il manicomio.