di Maria Laura De Luca

“Non riesce a ricordare altro?” chiese mordicchiando il legno della pipa.
“Ricordo poco, avrò avuto dieci anni. Ricordo il tono con cui mi impediva di aprire il frigorifero, il giorno in cui l’ho trovato ricoperto di scotch, ricordo i suoi occhi spaventati come quelli di un pesce appena pescato” continuai, cercando di ricucire una memoria strappata.
“Come si sentiva in quel momento?” indagò appoggiando il mento sulla mano aperta.
“Confuso, impaurito e arrabbiato” risposi di getto, senza avere il tempo di ascoltare i pensieri.
“So che è doloroso ma è un lavoro che serve, dobbiamo avvicinare lo sguardo e poi tirarci indietro per dare la giusta dimensione all’evento: vedere da lontano aiuta” disse con un tono di conforto, in quel momento lo sentivo delicato e fraterno.
“Ricordo dei discorsi che faceva con mio padre, litigavano molto in quel periodo, ogni sera, ma non riuscivo a capire il motivo. Lui la accusava di aver rubato qualcosa durante il loro viaggio di pochi giorni prima. Lei si giustificava dicendo di averlo fatto perché aveva capito che non era il momento adatto e quello era l’unico modo per non buttare tutti i soldi che avevano speso. Non avevo idea di cosa significassero le loro parole. Ricordo che lei lo incolpava, dicendo di averlo sentito quando aveva confessato che non gli importava poi molto di come sarebbe andata a finire.” Faticavo a cercare informazioni e sensazioni nei ritagli di infanzia che avevo nascosto dentro di me, come chi mette insieme i pezzi di una lettera. Doverne parlare con un uomo più piccolo di almeno dieci anni rendeva tutto ancora più difficile.
“Avvicini un po’ lo sguardo, cerchi di fare uno zoom, mi descriva più da vicino il suo punto di vista di bambino, è indispensabile avvicinarsi per poi allontanare l’inquadratura, fino a trovare quella giusta per la sua età, per tutto il tempo che è passato da quel momento, vedere da lontano aiuta” ribadì, spingendo ciuffi di tabacco profumato nel fornello della pipa. Aveva le ultime due dita della mano sinistra unite da un sottile strato di pelle, avevo già visto la stessa stranezza in mio padre, solo grazie a questo riuscivo a rilassarmi, a non sentire il peso del suo sguardo che di momento in momento si faceva più pungente.
“Il mio unico pensiero era il frigorifero. Non capivo perché di punto in bianco mi avessero impedito di aprirlo. Lo osservavo e mi sembrava ancora il frigorifero di prima. Cosa c’era dentro? Un mostro? Una sorpresa? Una pistola? Ho pensato di tutto. Sognavo ogni notte di aprirlo e trovare lì dentro creature spaventose o torte giganti” Ho confessato sentendo di nuovo l’emozione mista di euforia e paura che provai quella notte di trentanove anni prima.
“Nessuno le aveva dato spiegazioni a riguardo? Lei non aveva fatto domande?” mi chiese cercando la profondità del mio sguardo.
“Avevo fatto domande ma non avevo mai ricevuto risposte convincenti. Non so se lei ricorda, ma da bambini si capisce quando la risposta è reale o è una risposta data solo per smettere di ricevere domande” commentai sorridendo nella ricerca di una complicità.
“No, non ricordo” rispose seccamente, negandomi anche il suo sguardo.
“Non ero soddisfatto delle loro spiegazioni, ero incuriosito e preoccupato. Una notte mi sono svegliato e sono passato davanti alla camera dei miei, non si sentiva alcun rumore, così, silenzioso come una goccia d’acqua che corre sul vetro, ho raggiunto il frigorifero. Avevo portato con me un paio di forbici, ho iniziato a tagliare lo scotch dovunque fosse possibile. Guardavo di continuo la porta per paura di essere scoperto. Il cuore mi sembrava tre volte più grande del solito, lo sentivo partire da sotto il mento e riempirmi fino all’ombelico. Mi martellava con colpi regolari e ravvicinati. Ho aperto la porta del frigorifero solo per pochi centimetri, sufficienti per far accendere la luce: dentro c’era un limone marrone e una carota nera e grigia. Ho scrutato ogni minimo angolo, ho aperto di più, non c’era nulla. Ricordo di aver stropicciato gli occhi, di aver chiuso e riaperto la porta più volte, non c’era proprio nulla. Poi ho alzato lo sguardo e ho visto lo sportello ancora chiuso del congelatore. Ho avvicinato lo sgabello e ho tagliato di nuovo lo scotch, ce n’era di più. Ho aperto ma il vano freezer non aveva la luce. Ho richiuso spaventato dal buio e dal freddo. Mi sono guardato intorno: nessuno mi aveva scoperto. Ho respirato gonfiando i polmoni fino a sentirli urtare contro le costole, ho chiuso gli occhi e ho infilato in quel ghiaccio tutte le braccia. Ho frugato con estrema velocità poi ho sentito un piccolo rimbalzo sui piedi e un rumore di vetri infranti sul pavimento. Il mio sangue si è fermato, il freddo ha invaso ogni cellula del corpo partendo da dentro. La luce si è accesa: ricordo la figura dei miei genitori in piedi sulla porta con i capelli arruffati. Poi ricordo solo le urla di mia madre e lei in ginocchio accanto ai vetri, sul pavimento. Era una fialetta con i loro cognomi, dentro c’era solo un po’ d’acqua.” Mi fermai con il fiato consumato nella gola.
“Un po’ d’acqua” commentò tra sé accarezzandosi il mento. “Un po’ d’acqua” ripeté scuotendo il capo.
“A me sembrava acqua, era acqua! Poi mio padre mi ha spiegato che avevo appena ucciso mio fratello, prima che nascesse, forse avevo abortito. Quella stessa notte mia madre mi ha detto che non ero veramente suo figlio e ha ucciso anche me.” Confessai, gravato e contemporaneamente sollevato da un insostenibile senso di colpa.
“Ecco perché ti trovo qui, mi stupisco di come non ci siamo incontrati prima. Adesso finalmente possiamo andare, vieni che ci aspettano” disse, porgendomi la mano sinistra. “Vedere da lontano aiuta, te l’avevo detto” continuò, tirandomi con sé verso la porta.
Mi alzai piuttosto confuso, mi condusse all’uscita della stanza dove una schiera di donne e uomini dalle bianchissime ali piumate ci aspettavano per accompagnarci oltre.

L’autrice.
Maria Laura De Luca