L’autrice.
Maria Laura De Luca

di Maria Laura De Luca

“Hai fatto un incidente?” chiese con un tono pacato.
“No, Cristo mi ha voluto così” ribatté continuando a frugare nella borsa appoggiata sulle sue gambe, senza neppure alzare lo sguardo.
“Ah mi dispiace. Già da bambina quindi…” continuò cercando di non far cadere subito la conversazione.
Eccone un altro! L’ennesima intervista dettagliata e piena di cordoglio e solidarietà da parte del perfetto sconosciuto. Dio mio che palle! Pensò, lasciando trasparire un’espressione esausta e disgustata.
“Evidentemente” rispose secca cercando di lacerare anche la minima possibilità di proseguire la conversazione.
“Una malattia genetica?” indagò guardandola da capo a piedi.
“Ti viene in mente altro?” rilanciò con sottile sarcasmo.
Il premio Nobel dell’intuizione ragazzi, qui davanti a me! Che onore!
“Quanti anni hai?” continuò l’uomo. Era seduto con il gomito ad angolo retto perfettamente aderente al bracciolo, jeans celesti impeccabilmente stirati e l’orlo che accarezzava appena le scarpe da ginnastica ordinate come tutto il resto in una simmetria sconvolgente.  La guardava con un’aria curiosa e interessata.
Abbastanza per aver imparato a farmi i cazzi miei, pensò tra sé.
“Ventisette” disse e se avesse potuto l’avrebbe detto in cifre per tagliare ancora prima l’ennesimo discorso di cui conosceva già perfettamente ogni parola.
Ora, visto che io taglio corto inizierà a parlare di sé come se me ne importasse qualcosa.
“Sei giovane” esclamò accennando un sorriso “io ne ho quarantatré ma me li porto bene no?” si vantò passando una mano sul mento.
Eccolo qui, puntuale come la merda. Adesso sorrido e annuisco.
“Anche tu in viaggio quindi… dove vai di bello?” proseguì guardando fuori dal finestrino.
“È un diretto, ferma solo a Milano” sussurrò soddisfatta di poter sottolineare la sua distrazione.
“Che scemo…” esclamò nascondendo il viso tra le mani. Aveva mani robuste e molto grandi, un cerchio dorato imprigionava l’anulare.
“Scusami se te lo chiedo, ma come fai tu a salire sul treno?”  chiese ancora pizzicando la sua barbetta tra l’indice e il pollice senza staccare il gomito dal bracciolo.
Questo non ha mai visto un handicappato sul treno? In che paese vive? Voglio andarci anche io!
“In che senso scusami?” le piaceva far ripetere due volte le domande imbarazzanti, gratificava il senso di rivalsa e di riscatto che nutriva nei confronti dei curiosi affamati di notizie come lui.
“Con la sedia a rotelle, come fai per entrare?” ribadì, mal celando una vena di sottile imbarazzo.
“C’è un servizio predisposto dalle ferrovie, basta prenotare con un po’ di anticipo” lo informò con poche parole sperando che questo potesse soddisfarlo e rallentare il ritmo dell’interrogatorio almeno per un po’.
Si sentiva infastidita non perché provasse vergogna per la sua malattia, non perché fosse particolarmente riservata, semplicemente era stufa di dover affrontare sempre lo stesso argomento con la maggior parte degli sconosciuti, stufa di dover spiegare la novità con la quale lei in realtà conviveva da sempre.
Mai uno che ti parlasse, che ne so, di cucina? Di moda? Di motori? Di droga? Tutti ipnotizzati dalle ruote che mi girano sotto al culo, come se fossero l’unico argomento della mia vita.
“Beh almeno questo è un buon servizio, perché per il resto è veramente un problema. Non è un paese molto accessibile il nostro…” iniziò con il ritmo monotono dei vecchietti del bar quando parlano delle tasse.
Le barriere architettoniche no! Ti prego, non iniziare quel discorso lì… parlami di quando hai messo le corna a tua moglie piuttosto o dell’ultima partita di calcio che sei andato a vedere allo stadio ma ti prego non attaccare con la filastrocca degli scalini…
“Già” lo fermò “Purtroppo” aggiunse, giocando sul magnifico potere risolutivo degli avverbi.
“Tu come sei organizzata? Come funziona la tua vita? Studi? Lavori?” incalzava domande con un ritmo fastidioso e snervante come punture di uno sciame di zanzare. Fissava la carrozzina quando lei rivolgeva lo sguardo altrove, ma Marta riusciva comunque a percepire il peso di quello sguardo indiscreto. Era esperta ormai degli intervistatori seriali, sapeva che se il discorso non riusciva a cadere entro le prime poche battute, sarebbe stato meglio rispondere in modo soddisfacente senza tirarla troppo per le lunghe. Nessuna risposta acida e respingente sarebbe stata in grado di scamparle il languido, lagnoso e interminabile flusso di scuse che inevitabilmente ne sarebbe scaturito. L’unica soddisfazione ricavabile consisteva ormai nel fornire risposte così minuziose, dettagliate e descrittive dei più intimi particolari da suscitare un sottile disgusto, funzionale, in alcuni casi, nel placare l’ondata di famelica curiosità.
“Sono Laureata in ingegneria, lavoro a Roma per un’importante azienda con sede principale a Milano. Mi occupo della progettazione di pezzi su misura per elettrodomestici industriali. Decisamente poco femminile, ma a me piace. Poi che mi hai chiesto? Ah, come funziona la mia vita. Allora mi sveglio la mattina alle cinque e mezza faccio uno squillo sul cellulare della mia assistente che dorme nella stanza accanto, lei viene, mi scopre e mi spoglia, poi infila tra me e il materasso l’imbracatura plastificata del sollevatore: è ghiacciata di mattina. Mi solleva premendo il pulsante e poi spinge fino al water, mi siede lì e io faccio la pipì. Poi mi tira su di nuovo e mi mette sotto la doccia, seduta su una sedia di plastica, mi insapona tutta dalla testa ai piedi mentre io devo stare attenta che non dimentichi nessuna parte ed essere così cortese da dirle in un modo gentile se qualcosa è sfuggito, poi mi asciuga alla meglio e mi rimette le cinte, preme il pulsante e spinge il sollevatore fino al letto. Girandomi un po’ di volte mi asciuga, mi veste e mi pettina, posso scegliere poco della mia pettinatura, non c’è tutto questo tempo. Mi assesta sulla sedia a rotelle che puoi ammirare sotto di me e mi prepara la colazione, poi un pulmino per disabili mi viene a prendere, preme un pulsante mi fa salire, mi lega e mi porta a lavoro. Lì i colleghi mi aiutano a togliere la giacca, mi raccolgono i fogli che potrebbero cadere e l’assistente torna per farmi fare una pipì intorno alle undici. Per il resto lavoro, come gli altri, serve solo un pc e un telefono quindi riesco a svolgere le mie mansioni. Poi il pulmino mi riporta indietro e a casa c’è l’assistente che mi aiuta a fare la cacca, ecco si, questo è veramente imbarazzante, nessuno vorrebbe che uno sconosciuto entrasse in bagno appena hai fatto la cacca, no?” Aveva detto un milione di parole tirandole fuori dalla bocca come anelli di una lunghissima catena con il preciso intento di essere macabra e spudorata, con il risentimento di chi si sente costretto a parlare di quello di cui non vorrebbe.
Volevi informazioni? Allora sai che c’è? Ti dico tutto, troppo, di più. Una sorta di sciopero bianco e ho molto ancora da dire, azzecca la risposta o ti racconto tutto il resto.  Non riesco veramente a capacitarmi dell’infinita esigenza che avete di fare domande e avere risposte sulla vita degli altri.
La curiosità sul viso dell’uomo si era trasformata in vero interesse. Aveva seguito quel torrente di parole senza perderne una, registrando tutto con un’attenzione sorprendente, come se si scrivessero da sole in fondo ai suoi occhi.
“E sei fidanzata? Lui sta bene con te, voglio dire, sotto ogni punto di vista?” chiese ancora, privo di ogni pudore.
Adesso gli sputo in un occhio, ma come si permette questo?
Era pronta per esplodere, gonfia di una pazienza marcita e fermentata come spumante d’annata, già livida in volto con un turbine di parole ferme nella gola e pronte a partire.
Il treno rallentò fino a fermarsi. “Me lo dirai la prossima volta, tanto anch’io ormai faccio spesso su e giù tra Roma e Milano” disse con un sorriso. Poi staccò il gomito dal bracciolo e infilò entrambe le mani sotto il ginocchio sollevandolo a fatica, era pesante e flaccido, privo di qualsiasi cenno vitale. Fece lo stesso con l’altra gamba, poi alzò il mento e chiamò “Cristina!” la donna, seduta pochi sedili più dietro arrivò spingendo una sedia a rotelle chiusa che a stento passava tra i sedili.
“Io invece ho fatto un incidente, due mesi fa. Grazie di tutto, a presto” disse, salutandola con un cenno del capo mentre con le mani afferrava le ruote per spingersi in un gesto per Marta anche troppo familiare.
Rimase ferma a fissare quell’uomo con il cuore vuoto come una noce senza gheriglio.