di Tania Barcellona

Un ricordo ha squarciato i miei pensieri, dapprima labile, effimero, un soffio di zefiro leggero in questa calura estiva che illanguidisce le membra e ammorbidisce i pensieri, poi, via via più nitido, prepotente, a tratti doloroso, una morsa che attanaglia il cuore e strozza la gola e  punge gli occhi e imperla le ciglia. Un ricordo legato alla mia infanzia, a quando la mia vita era rosa confetto e i miei sogni zucchero filato, a quando le feste erano attesa, desiderio, speranza, gioia e la natura, madre benigna.
Erano gli anni in cui la mia infanzia scoloriva nell’adolescenza, il tempo in  cui le estati avevano il sapore dell’anguria, dei ghiaccioli al limone, dei concerti in piazza, delle processioni, degli emigrati che tornavano come rondini, annunciando il loro arrivo con lo strombazzare delle Mercedes, fittati per mostrare un benessere che probabilmente aveva il sapore del freddo e dell’emarginazione, della fatica e del disagio.
Le estati avevano, nella mia percezione di ragazzina, la magia della spensieratezza, delle corse in bici, dei primi amori, delle canzoni ascoltate a juke-box, delle lunghe passeggiate nel corso principale in attesa che il paese si vestisse a colore di luminarie per celebrare la Madonna del Carmelo e l’arrivo dei suoi figli emigrati nelle terre del Nord. E come ogni famiglia leonfortese, anche noi aspettavamo quella colonia di parenti,  che avevano oltrepassato le Alpi e,  ora, si apprestavano a rientrare per godersi la famiglia,  il buon cibo, il sole, il blu del cielo, l’odore della terra bruciata e amara. Il loro arrivo era un lungo travaglio di attesa, anticipato da una lettera che annunciava che presto la famiglia si sarebbe allargata: la zia Pippina col marito che, da quando era in Germana, aveva tradito il buon vino siciliano con la birra, i figli e le figlie che, nel frattempo per adeguarsi alla moda,  si erano ossigenati e imboccolati i neri capelli, i nipoti che parlavano una lingua dura e gutturale.
In ogni casa del paese si viveva il fermento per l’arrivo dei forestieri, si preparavano nuovi giacigli e si riempivano le dispense per onorare gli ospiti: pomodori essiccati, olive in salamoia, salami e pancette, minnuli agghiacciati, noci e mericanella, pani friscu e qualche “pezza” di pecorino. E poi i lupini, quei lupini che furono la sventura dei Malavoglia, e che erano invece delizie del palato per chi doveva attendere un anno per girarseli in bocca, assaggiarne il sapore leggermente amarognolo dopo che il sale aveva investito le papille gustative.
Ci si trovava a tavola, in lunghi e disordinati pranzi, tra il vocìo dei bambini e la risate grasse degli adulti, che in un alternarsi di birra e vino avevano gli occhi lucidi e la battuta ammiccante, mentre noi ragazzi, abbandonata la tavola, ci sdraiavamo sui gradini davanti agli usci di casa, cercando di intrecciare un discorso con i tedeschi che, per ovvie barriere linguistiche, si risolveva in improperi a vicenda.
L’apoteosi dell’estate era mezzaustu.
Già alle prime luci dell’alba le donne erano affaccendate in cucina a preparare le vivande per un  pranzo pantagruelico: sughi, ragù, conigli, pollo e costate, melanzane ‘mbuttunati, caponate e pipi fruiti. Il mio risveglio era accompagnato sempre da un moto di stizza e di nausea perché le mie narici erano state investite dall’odore dell’aglio che finiva sempre per bruciarsi  dato che le donne di casa impegnate a ciangottare tra loro.
Ricordo ancora le lunghe tavolate, il clangore delle posate sui piatti,  un ingorgo di voci:  basse, rauche, stentoree, sottili, stridule.
Rivedo le stoviglie che lievitavano nell’acquaio durante il pasto che si protraeva fino al tardo pomeriggio, quando il taglio dell’anguria, messa  già dal mattino sotto l’acqua corrente a refrigerare, ne decretava la fine.
E le donne,  come colombelle pronte a spiccare il volo,  si affannavano  a sparecchiare e rigovernare la cucina non potendo  mancare all’appuntamento serale: la passeggiata lungo il corso a braccetto dei propri uomini per sfoggiare il vestito buono confezionato per l’occasione.
Era dunque una passerella: uomini in giacca e cravatta, coi capelli impomatati di brillantina per renderli lucidi e i baffi allisciati anch’essi e  donne, fasciate da abiti floreali e adornate dei gioielli ricevuti in dono dai suoceri per il fidanzamento, sfilavano  con davanti uno stuolo di bambini tenuti buoni tra la calca con la promessa di un cono al pistacchio con una spruzzata di panna.
Il corso si animava di luci, colori, odori e suoni: c’era il tizio della calia e della miricanella impacchettati per poche lire dentro un cuppu di carta e il paninaro che lesto lesto imbottiva panini  con  salsiccia arrostita sulla brace  e friggeva cipolle,  saturando l’aria di miasmi vari per servirli  ai suoi numerosi avventori che nell’attesa  trangugiavano ancora una birra.
Spesso le lunghe passeggiate erano interrotte dall’incontro di conoscenti, che spinti dalla curiosità tempestavano di domande i forestieri. A me arrivavano mozziconi di dialogo e parole dialettali che il tempo e l’altra lingua avevano snaturato o cristallizzato nella sua forma più arcaica: la bruccetta, lu tumazzu, la squizzera  accompagnate soventemente da uno ja, ja.
La serata si concludeva al bar Italia che per l’occasione aveva assoldato quattro imberbi ragazzini per servire ai tavoli, mentre da un angolo della piazza Carella, il camion del signor Zinna lanciava un disco dopo l’altro di tarantelle, mazurche e stornellate e c’era chi, seduto al bar, accompagnava la musica con il suo canto stonato, sgranocchiando miricanella, calia e fastuchi, ammonticchiando sotto il tavolo i gusci. Le donne intanto si posizionavano in modo da avere davanti a sé la visuale libera per poter guardare sottecchi le altre femmine del paese nei loro vestiti nuovi e le comari spesso si lanciavano sguardi d’intesa e qualche battuta cattiva, rigurgitata dall’invidia per l’elegante signora che quell’anno aveva acquistato la mise nella boutique più rinomata del paese.
Noi ragazzi, fatto fuori il gelato,  scorrazzavamo, accompagnati dai più grandicelli, tra le bancarelle della fiera: erano gli anni in cui io vedevo per la prima volta gli extracomunitari  che avevano trasformato le carrozzine in improvvisati banconi per esporre il loro carico di cinture, portafogli e braccialetti in cuoio o si andava al luna park allocato nei pressi della vecchia stazione ferroviaria. Noi ci arrivavamo dalla scalinata di via Filippo Liardo  e già da lontano giungeva alle nostre orecchie  la musica di Umberto Tozzi con il suo” Ti amo, ti..amo”; un caleidoscopio di luci rendeva quel luogo magico agli occhi ingenui di noi adolescenti. Si passava dall’autoscontro alla ballerina,  al tagadà, al tiro al segno ma nessun maschietto si sottraeva alla prova del punch ball, un pugno sferrato a un piccolo sacco ne misurava la potenza e la virilità spesso sminuita da una voce metallica che si prendeva gioco di loro confinandoli al rango di poppanti, e noi ragazze accompagnavamo quell’epiteto con larghe risate mentre i loro visi si incendiavano.
Poi controvoglia, si ritornava a casa esausti e satolli, sperando di poter dormire per via del caldo e delle zanzare che mi sono state da sempre le compagne notturne più fedeli ma con in cuore la speranza che l’indomani sarebbe stata ancora festa.
Il mattino era spesso sacrificato al sonno, ma già nel primo pomeriggio nonostante il caldo si andava in qualche bar con la scusa del ghiacciolo per incontrare i nuovi amici o presentare i nostri giovani parenti.
E non di rado accadeva che lungo il corso sfilassero i forestieri a bordo delle loro auto di grossa cilindrata, con gli interni leopardati, il copristerzo borchiato, il cofano serigrafato con immagini di donne flessuose e la musica oltre ogni decibel;  i finestrini aperti scompigliavano i capelli dei passeggeri che, tronfi dei nostri sguardi ammamaluccuti , si atteggiavano a divi di Hollywood.
Intanto la banda musicale cominciava a sfilare nel corso annunciando l’approssimarsi della processione; si ritornava in casa per prepararsi alla lunga serata che si ripeteva pressappoco come la precedente.
Nei giorni successivi, piano pianino tutto ritornava alla normalità: le luminarie venivano spente, il luna park lasciava spazio a un’area squallida di terra battuta, il corso era stato liberato dalle bancarelle e ripulito, resistevano i tavoli vicino ai bar impilati uno sull’altro e legati dai catenacci pronti ad essere sistemati per la serata.
L’aria e il cielo, subito dopo il mezzaustu, cambiava ai miei occhi di ragazzina, di colore e di consistenza. Sapeva già di fine estate, di scuola, di malinconia.
I forestieri, nel cuore della notte, legavano le loro valigie con il loro carico di provviste paesane, di olio,  di salsa di pomodoro sul bagagliaio, e adagiavano i bambini mezzi addormentati su sedile posteriore pronti a sfidare il lungo viaggio per ritornare nella loro terra adottiva. Abbracci, sguardi lucidi, menti tremolanti e il silenzio ad accompagnare la separazione  da chi si vuole bene. Poi un urlo soffocato  nella notte, il pianto della nostra vicina che, come la mamma di un soldato che va in guerra,  accompagnava quel distacco con la sua nenia di dolore.
Erano gli anni ottanta.
Oggi, di quel mezzaustu è rimasto poco.
Non più la massa brulicante delle persone lungo il corso, non più le macchine con gli interni leopardati, non più il lunapark con il tagadá.  Adesso gli anziani se ne stanno in crocchio nella desolata piazza IV Novembre che era il cuore pulsante del mio paese, mentre capannelli di giovani sono piantati davanti ai pub, con una birra in una mano e il cellulare nell’altra.
Però sono rimasti gli emigrati rimpolpati dai nostri figli che virano altrove in cerca di un benessere e di una dignità che la Sicilia nega loro.
Sono rimaste le loro famiglie che si preparano ad accoglierli:  cambiano le lenzuola,  scongelano i finocchietti per la pasta a milanisa,  i mazzareddi per la frittatina,  il pane di San Giusè che hanno custodito gelosamente in freezer; è rimasta l’emozione dell’attesa, il piacere del ritorno.
Sono rimaste anche  le madri con il loro sguardo lucido, gli abbracci e i menti tremolanti e il pianto sconsolato di chi è consapevole che quel figlio non tornerà più nella terra natale.
E come, allora, cento, mille anni fa accompagnano il distacco dai figli con la loro nenia di dolore: duratura, eterna e universale.
N.B.: La foto, che non è pertinente al cento per cento per dirla con un eufemismo, è un’immagine di repertorio in bianco e nero del vecchio cinema Roma di piazza Carella a Leonforte, risalente agli anni ’80. (j. t.)