di Giovanni Vitale

“Perché, perché fin dall’inizio abbiamo sempre taciuto? Nei primi tempi non ci furono litigi tra noi, solo il silenzio”. Così F. Dostoevskij inizia a descrivere il “gioco di potere” fra il protagonista e la moglie nel suo bel racconto ‘La mite’.
Infatti lo esplicita: “Io la consideravo come “mia”, non dubitando del mio potere su di lei”.
Ma è un potere che non si esprime con le parole e la cui azione viene prevalentemente esercitata dal silenzio, con i ‘non detti’, i sottintesi: “Parlavo quasi solo con il mio silenzio”.
Nella postfazione alla traduzione italiana di B. Del Re del racconto, M. Mizzau spiega le dinamiche comunicative di un tale rapporto e lo fa con gli strumenti della ‘Teoria degli atti linguistici’ (Speech Act Theory). Ma pur privilegiando gli aspetti psicologici, com’è nel suo stile e sulla scorta di Eco, assume che il “reale immaginario” della letteratura consenta di analizzare efficacemente l’interazione comunicativa, approfonditamente e specificamente, anche dalla prospettiva semiotica. Privilegiando cioè una psicologia “qualitativa” a quella “quantitativa” solitamente preferita dai clinici, ovvero fatta dalla trascrizione di casi e statistiche reali, che però non colgono le sfumature sottili o addirittura omesse, i ‘non detti’ e i silenzi appunto, che un testo narrativo consente invece di osservare ed analizzare minuziosamente.
Nel racconto di Dostoevskij, infatti, appare chiaramente come la comunicazione più incisiva, più ‘performante’ della relazione, sia proprio quella NON esplicitata dalle parole o dai gesti, che quando questa, nell’evoluzione della vicenda narrata, cambia e diventa discussa e agita, i “fatti” ormai sono praticamente compiuti. Il potere fra i due protagonisti s’è definitivamente “cristallizzato” e dunque, per dirlo secondo la ‘Pragmatica’ di P. Watzlawick, per interrompere la ‘punteggiatura degli eventi’ e dare una svolta diversa alla relazione, per stabilirne una che sia di ‘simmetrica parità’, non resta che compiere un “salto di livello comunicativo”, una “meta-comunicazione” che azzeri la ‘punteggiatura’ fin lì seguita e consenta un livellamento nuovo, con un diverso assetto nella conflittualità del potere relazionale. Fermo restando che, afferma la Mizzau, la costruzione e il mantenimento delle relazioni umane, sono fondamentalmente e inevitabilmente relazioni di potere.
È così avviene: la “mite” moglie del protagonista del racconto, prima “era così vinta, così umiliata, così annientata che a volte sentivo un’angosciosa pietà nei suoi confronti, anche se d’altro canto il pensiero della sua umiliazione mi compiaceva. L’idea della nostra disuguaglianza mi affascinava”, allorquando il marito, pentito, decide di cambiare atteggiamento nei suoi confronti e, non riuscendo più a tacere: “non potevo non parlare affatto! Le dissi ad un tratto che la conversazione con lei mi procurava un grande piacere, e che la consideravo incomparabilmente, incomparabilmente più colta e più evoluta di me”, lei frastornata e incapace di accettare quella diversa condizione compie il gesto di rottura e, per sottrarsene, si suicida, lasciando il marito nella frustrazione più profonda e togliendogli, con l’insano gesto, definitivamente quel potere!