di Salvo La Porta

In tempo di Covid ci siamo abituati ad aguzzare di più l’ingegno; per cui, su suggerimento del Presidente del Circolo di Compagnia di Leonforte, dottor Paolo Mineo, abbiamo trasferito la gioviale conversazione dai bellissimi saloni liberty ad una fredda piattaforma telematica.
Non eravamo in molti. Dieci o forse quindici persone; e poi si sa che molti vengono pure e soltanto per onore di firma e, dopo essersi collegati, oscurano il video e continuano a dedicarsi alla proficuità dei loro personali affari.
Comunque, tra gli altri partecipavano il barone Gaetano Enrico Santangelo di Valentino, lucidissimo ultranoventenne e garante dell’ordinato dibattito, il barone Luigi Longo di San Giuseppe, il duca Silvestre Ingrassia di Tramontana, il professor Nino Valenti Porcello, il commendatore di Gran Croce Giuseppe Di Salvo del Liotru, don Primo dei conti Castiglione, il cavalier Luigi Vitale e, infine, io umile e modesto professore, mai dimentico delle popolari radici dei calzaiuoli e benevolmente accettato o tollerato dall’aristocrazia leonfortese.
Manco a dirlo, si trattava dell’attualità politica e giustamente ciascuno diceva la sua nel rispetto delle idee altrui e mantenendo un comportamento dignitoso e civile, proprio come si conviene a persone di censo, che hanno la fortuna di essere soci di un Circolo tanto importante, dove non si fa politica ma si parla di politica.
Tutti, ma proprio tutti, convenivamo sulla delicatezza, sulla criticità e sull’emergenza del momento.
Ciascuno diceva la sua ed, incredibele dictu, nessuno interrompeva altri, che avevano ricevuto il diritto alla parola dal barone Santangelo.
Procedeva tanto bene il dibattito che alcuni, notoriamente simpatizzanti di destra o di sinistra, non sentivano imbarazzo alcuno nello stigmatizzare il comportamento degli esponenti politici, per i quali erano soliti simpatizzare e in alcuni casi addirittura tifare.
Accadeva così che il nobile Castiglione, da sempre vicino alla Lega, esprimesse il suo dissenso sulla inopportuna vivacità di Salvini, confessando di preferirgli il più sobrio Giorgetti.
Accadeva pure che il duca Tramontana si dicesse infastidito dal presunto camaleontismo di Forza Italia, lasciandosi scappare che forse era giunta l’ora per Berlusconi di godersi la vecchiaia e adombrando apprezzamenti non proprio lusinghieri per le Signore di quel partito; e accadeva che il professor Nino Valenti Porcello condannasse apertamente il sacrilego connubio tra la sinistra erede di Berlinguer e il movimento pentastellato senza alcuna base culturale e frutto di un increscioso delirio popolare, affetto da un inguaribile qualunquismo.
Tutti, tuttavia, ascoltavamo senza battere ciglio e compiacendoci di quella conversazione tanto piacevole, obiettiva e franca.
Si era arrivati financo a convenire che Draghi è una persona seria, che stava dando la prova di essere un ottimo statista oltre che consumato economista, inviadiatoci da tutto il mondo.
Tutti concordavamo sul fatto che la sua nomina suonava come uno schiaffo agli schieramenti politici presenti in Parlamento e che le affermazioni di quella giornalista (mi pare si chiami Murgia) sulla paura di vedere conferita tanta fiducia ad un uomo in divisa come il generale Figliuolo non solo fossero fuori luogo, ma tradissero un malcelato razzismo nei confronti delle Forze Armate, quasi che gli uomini e le donne appartenenti ad esse fossero cittadini di serie B.
Scorreva tanto leggero il tempo, il clima era tanto disteso e cordiale che persino io, di solito molto attento a non dire nulla di sconveniente sulla destra italiana, mi lasciavo andare all’esternazione di alcuni pensieri che mi prudono dentro.
In particolare, confidai che per me la scelta di “Fratelli d’Italia” di rimanere fuori dal Governo Draghi fosse inopportuna e che, in fondo in fondo, malcelasse una incoffessata paura di governare in un periodo tanto emergenziale e, non ultimo, il terrore di dovere fare i conti con i numeri dei sondaggi, ai quali il matronato di quel partito guarda con immenso interesse.
Certamente, continuava la mia confidenza, avrei sempre votato per quel Partito, forse solo perchè nel suo logo si evidenzia la Fiamma Tricolore, alla quale sin dalla mia fanciullezza avevo dedicato i miei anni migliori.
Tutto, insomma, procedeva per il meglio, tanto dal decidermi a fare un’ultima confidenza.
Confessai che avevo guardato con simpatia al PD di Enrico Letta.
Proprio in quel momento avvenne l’impensabile, il cavalier Luigi Vitale, interrompendomi e contravvenendo ai richiami del barone Santangelo, cominciò ad apostrofarmi siccome la lunga amicizia e l’essere stati compagni di scuola gli consentiva.
“Ma nun capisci nenti. Ti innamuri di chiddi chiù scimuniti. Ma nu l’ha caputo ca è chiù lollu di l’autri?” Credo non ci sia bisogno di traduzione.
La veemenza con cui l’anatema fu pronunziato mi richiamò subito alla realtà; anche perchè il garante, pensando che le cose stessero per degenerare ci salutò e chiuse l’incontro, dopo avere ringraziato gli intervenuti.
Nelle ore che seguirono, pensai che magari il cavaliere aveva esagerato (caratterialmente è così), ma che non aveva tutti i torti.
E’ mai possibile che il leader di una sinistra seria si riduca per qualche punto in più ad ipotizzare tra le altre amenità quella del voto ai sedicenni e a mortificare l’intelligenza delle donne auspicando che a guidare il PD dopo di lui sia una donna?
Sarebbe stato più opportuno augurarsi il risveglio e la rinascita del partito sotto la guida di una persona di buon senso. Uomo o donna che sia.
Il resto è demagogia. Vuoi vedere che il cavaliere Vitale questa volta aveva ragione?