di Salvo La Porta
La semi-rovinosa caduta di fine giugno non mi ha impedito come ogni anno di recarmi al mare a Letojanni, prendendo alloggio a Palazzo Durante, come si chiama ora quella bellissima realtà, gestita sino a poco tempo fa dalle suore, proprio a due passi dalla riva.
Mia moglie Pina ed io abbiamo goduto del trattamento riservato a quei parenti, il cui arrivo si attende per un anno intero e che si accolgono con quella venatura di tristezza, che ti intristisce un po’ al pensiero che quel soggiorno dovrà finire.
In verità, tutti gli ospiti hanno ricevuto il medesimo trattamento; sia all’arrivo che nel corso della vacanza.
Ma noi abbiamo voluto (e vogliamo) illuderci che per noi ci sia stato una specie di occhio di riguardo, forse in virtù della vecchia amicizia, forse in grazia al mio andare insicuro e claudicante.
Per cui, il saluto di benvenuto, che ci ha rivolto il giovane William, mi è sembrato identico a quello che mia nonna Maria rivolgeva a zio Turi e a zia Bianca, quando arrivavano a Catania dal Friuli.
“Finalmenti arrivastivu! quannu vinni jti ora?”.
Non è che la nonna volesse sbarazzarsi presto degli ospiti, (figuriamoci, suo figlio Turiddu la luce dei suoi occhi era!) solo che non riusciva ad assaporare del tutto quella felicità, perché sapeva che presto il suo cuore avrebbe dovuto abituarsi alla malinconica tristezza del distacco.
Per cui, preferiva prepararsi poco per volta a quel momento; poco per volta, come si fa quando si sorseggia un buon vino, mesciuto da una bottiglia semivuota, sapendo che lo si deve dividere con altri.
Ma questi sono gli uomini, non riescono mai ad assaporare per intero i rari attimi di felicità, che il Cielo ci regala.
Non c’è nulla da fare, non lo togliamo questo stramaledetto vizio; ci manca sempre un quid… e dire che in tanti (non ultimo Orazio con il suo carpe diem) più saggi di noi ci esortano a cogliere l’attimo che, ahimè, fugge inesorabilmente.
Giunti in camera e poggiati i nostri bagagli (provate ad indovinare di chi fossero i più numerosi), sine ulla interposita mora abbiamo spalancato le imposte, che si affacciano una sulla piazzetta, l’altra (un’ampia finestra) proprio sul mare, tanto vicino da poterlo quasi toccare.
Una cartolina! In effetti, se non fosse stato per le sollecite cure della mia amatissima consorte e la squisita cortesia del personale, avrei rischiato di vederlo in cartolina il mare.
Finita la colazione, Pina portava l’inseparabile pincer Biagio a fare la passeggiatina e, quindi, scappava per la spiaggia.
A me non restava che salire in camera, affacciarmi alla finestra, procedere alla cura della persona e scendere giù.
La barba, non si scappa, ogni mattina la devo fare; se non me la faccio, mi sento ‘ngrasciatu.
Bello sbarbato, mi sedevo su una delle poltroncine dell’ingresso e.…osservavo.
Speravo sempre che ci fosse qualcuno per attaccare bottone; ma ognuno i fatti suoi si faceva. A me pensava la gente!
Tra l’ingresso, l’ascensore, la sala pranzo e la cucina era un andirivieni di gente ed un ordinato brulichìo di formichine; tutte con estrema precisione dedite al proprio lavoro.
C’era, di sicuro, chi distribuiva i compiti. Ma non si riusciva a capire se vi fosse un capo. Se c’era, era una specie di primus inter pares, sempre pronto a mettersi all’opera, senza mai senza giusto motivo demandare agli altri o aspettare che altri si sporcasse le mani al posto suo.
Non c’erano capi e neppure dipendenti. Tutti collaboratori al servizio di un unico padrone, l’azienda, alla quale devotamente veniva dedicato tutto il tempo lavorativo.
Fu durante queste ore, mai noiose, che il pensiero corse alla Rerum Novarum di papa Leone XIII ed alla socializzazione delle aziende di deprecata memoria.
Tralasciando ogni riferimento alla socializzazione, per non farmi rimproverare di essere il solito nostalgico fascista (anche se per dirla tutta non me ne frega proprio nulla), mi piacerebbe che insieme ai pochissimi interessati amici e parenti, che mi leggono, ci soffermassimo un po’, ovviamente per cenni, sull’enciclica leonina del maggio 1891.
Con essa, la Chiesa Cattolica prende posizione sulle più importanti questioni, che dilaniano la società del tempo e getta le basi per la moderna dottrina sociale.
Ad essa molte delle attuali gerarchie ecclesiastiche, subornate da confuse e demagogiche teorie cattocomuniste, dovrebbero guardare con maggiore attenzione, quando si parla di lavoro e di rispetto della dignità dell’Uomo.
Su cose di questo tipo riflettevo e la mattinata scorreva sino all’ora di pranzo, quando insieme a Pina e a Biagio prendevo posto al mio tavolo, dove mi attendevano i mizzigghi di Antonella, del personale di cucina e di quello di sala.
Quasi ogni pomeriggio, poi, c’era qualcuno che mi offriva il braccio per scendere verso la riva e mi posizionava sulla seggiola del bagnino, proprio a ridosso dell’onda.
Accadde, un pomeriggio di martedì, che lì seduto cominciassi a chiacchierare con Agostino (mi capita spesso) sino a sentire l’impulso di recitare il Rosario.
Non avevo la corona con me; per cui, stesi la mano e raccolsi dieci sassolini, che potessero servirmi alla bisogna.
La contemplazione del primo mistero doloroso scorse leggera; quella del secondo, la flagellazione, mi rimandò al dolore in grazia di un casuale avvenimento.
Un gruppetto di garruli fanciulli, capeggiato da una dolcissima bambina, festosamente vociante si avvicinò alla mia sedia, mentre la piccolina faceva graziosamente roteare una paletta di plastica dura che, manco a dirlo, andò a scontrarsi con la mia guancia sinistra. Non vi dico il piacere che ci provai.
Nessuno se ne accorse, se non mia moglie. La bimba, impaurita, corse a riparare tra le braccia della mamma stesa al sole, che seraficamente le chiese: “ti sei fatta male, tesoro?”.
A me non rimase che tornare a casa e raccogliere le attenzioni dei miei amici.