di Salvo La Porta
All’età di dodici anni, il piccolo Silvestre Lo Sicco riuscì a strappare ai suoi genitori il permesso di entrare nel seminario dei Padri Predicatori Domenicani di Catania.
Non erano contrari papà e mamma che il figlio abbracciasse la carriera ecclesiastica, anzi ( cu avi un figghiu parrinu, avi un jardinu)!
Ma proprio a Catania? Era ancora un bambino, non sarebbe stato meglio, almeno per qualche anno, frequentare il Convento dei Cappuccini del paese?
Ma a nulla valsero le obiezioni dei genitori; Silvestre aveva deciso, sarebbe diventato domenicano.
A catturare ed incanalare il suo entusiasmo infantile, fu determinante negli anni la presenza di un frate di quell’ordine, che frequentava assiduamente la casa di famiglia, specie all’ora dei pasti, a Milocca.
Padre Maria Angelico era figlio dello zio Luigi Lagati che, essendo grande appassionato di cani, era riuscito a raccoglierne una quantità tale, da consigliargli di abbandonare il paese per insediarsi al Castellaccio, assumendone il titolo di Signore e persino una specie di stemma nobiliare, raffigurante un cavaliere che agita un cappio verso un cane.
La figura di Maria Angelico era la copia conforme di Don Blasco dei Vicerè di De Roberto, mirabilmente resa nella transposizione cinematografica dell’opera dall’interpretazione scenica del personaggio.
Quasi tarchiato, certamente non alto, robusto anzichenò, pingue, se non grasso. Irruento e con un vocione gutturale da superare tutte le altre voci in una conversazione e da fare tremare i bicchieri di cristallo sul tavolo. Una grassa , coinvolgente risata!
Tutto l’opposto contrario di Silvestre, magrolino, discreto, timido, educato, con un tono di voce delicato e, seppure ottimo osservatore, caustico conversatore e poeta, sempre silenzioso e discreto.
Ma, come si sa, gli opposti si attraggono e l’esile fanciullo fu terribilmente attratto dai modi e dai detti del frate, che magnificavano la vita claustrale e la figura di San Domenico.
Nel convento vicino alla villa Bellini, a Catania, riuscì subito a conquistarsi la simpatia, l’affetto, la confidenza degli altri seminaristi e la stima del mestro dei novizi e dei superiori ed, in particolare, del padre Priore, che su di lui cominciava a riporre molte aspettative.
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Prese i voti di povertà, obbedienza e castità (che, in vero specie quest’ultimo, gli stavano un po’ stretti) e nei tempi più brevi fu ordinato prete.
Un arcangelo sembrava con quell’abito….e come tale era accolto dalle famiglie amiche del convento, che frequentemente visitava.
La cura delle anime era quanto gli stava più a cuore; ma maggiore attenzione rivolgeva alle persone sole.
Tra queste, due sorelle che non avevano ancora superato l’età sinodale e la cui bellezza non era del tutto sfiorita, Agatina e Teresina Rappè, che abitavano una grande casa in via Gisira, proprio nei pressi della Pescheria, in alcune stanze della quale ospitavano spesso compaesani di buona reputazione, che si recavano a Catania per affari.
Recarsi in quella casa, per il buon frate era come fare un tuffo nella vita di paese, perchè trovava sempre qualche amico dei suoi genitori che, oltre a portargli notizie fresche sulla salute e sugli affari dei suoi familiari, gliene forniva abbondantemente sugli affari degli altri, con dovizie di particolari, specie di quelli scabrosi.
Teresina e Agatina, inoltre, si prodigavano in ogni modo, perchè gli ospiti si sentissero a casa loro; caffè, qualche picciddatu di ficu, che piacevono tanto a Silvestre e che loro amorevomente preparavano anche nel mese di Agosto, e mille altre premure, che solo alcune signorine sanno avere, per fare sentire gli ospiti a casa loro.
Proprio nel mese di Agosto, mentre sparavano le bombe per la festa di sant’Agata d’estate, un’altra bomba stava per scoppiare in casa Rappè.
Agatina, forse per il forte caldo o per avere mangiato qualcosa di pesante la sera prima, cominciò ad avere una fortissima nausea…un maldigesto, che gli provocava a tratti uno stato vertiginoso davvero preoccupante.
Teresina entrò nel panico; erano tutti in cattedrale. Che fare? Pensò di preparare subito un decotto di addauru, puddrisinu e lumiuni e lo fece bere alla sorella, che sembrò alquanto rinfrancarsi.
Intanto, era stato mandato a chiamare padre Silvestre che, in un battibaleno arrivò, dopo essere passato dal medico che, subito dopo, arrivò anche lui.
Agatina aveva ripreso a sentirsi male, quando il medico cominciò a misurarle la pressione e la povera Teresina non sapeva più a quale santo votarsi.
“Ma chi fu? Chi potti essiri? Chi si mangiau? Vo’ vidiri ca ci fici mali l’acieddu cu’ l’uovu?”
Glielo aveva detto di non lo mangiare, da troppo tempo era rimasto nella credenza, con questo caldo, poi, era diventato anche duro.
Ma lei, testarda, se lo era abbagnato nel latte e lo aveva mangiato; e aveva mangiato anche l’uovo! Sicuramente questo le aveva fatto male. Sicuramente.
L’uccello con l’uovo sodo è un dolce pasquale tipico del nostro paese, che vuole raffigurare l’uccello della pace, che si posa su un uovo sodo.
Mentre il dottore sottoponeva Agatina ad un’accurata visita in camera da letto i due, Silvestre e Teresina, rimasero costernati a congetturare su quale sarebbe potuta essere la causa di quel malore.
Ma si, ma si…. convennero alla fine che il maldigesto non poteva che essere stato procurato da quel maledettissimo dolce.
Il dottore rientrò in salotto con un’aria che voleva essere seria, ma che in realtà era seriosa; Teresina, appena lo vide, balzò dalla sedia e gli chiese, l’accieddu veru?
“Si”, riprese il professionista, rivolgendosi sottovoce a Silvestre con tono falsamente grave, “fu l’acieddu, ma no chiddu cu’ l’uovu….” Agatina era al terzo mese.
Questa volta, a svenire fu Teresina e ad Agatina, che nel frattempo era rientrata, provando quasi quasi una strana senzazione di sollievo, non rimase che prepararle una tazza di acqua cotta, che le venne di scatto rovesciata addosso dalla sorella.
“Parra, disgraziata, parra… cu fu? Parra, disanurata, ca macari a mia ca sugnu pura cuomu un angilu, disanurasti. Parra?”
Quindi rivolta a Sivestre, che era diventato più bianco del solito, gli schiaffò in faccia un sonoro “ e vossia, vossia nenti ci dici? Vossa ci lu dici ca è in piccatu mortali, ca finisci a lu ‘nfiernu; vossa ci lu dici, vossa ci lu dici!!!”
Con la voce più flebile del solito e con lo sguardo che non sapeva dove posarsi, padre Lo Sicco cercò di riportare se non la serenità, un po’ di pace.
Il Signore è misericordioso, azzardò, e i suoi disegni non sono i nostri. Noi non li possiamo neppure intuire. Si vede che era previsto che questo bambino nascesse.
Era inutile cercare di nascondere la gravidanza, proseguì, queste cose non si possono nascondere; bisogna che la notizia la diamo noi, confidando nella solidarietà di parenti e amici…con prudenza…con prudenza.
Che stessero serene, dunque, aspettassero e accogliesssero questo bimbo come un dono del Cielo.
Lui gli avrebbe fatto da padre. Da padre.
Il bimbo nacque. Un bel maschietto moro, che fu posto tra le braccia di Silvestre, che consigliò si chiamasse Tommaso, promettendo che sarebbe stato il padrino di battesimo, che nella chiesa del convento il Priore avrebbe solennemente amministrato.