di Salvo La Porta

Sin dalla nascita, si era teneramente preso cura del piccolo Tommaso e dopo il battesimo, essendo stato investito del delicato ruolo di padrino, le sue cure si erano decuplicate e si erano allargate alle sorelle Rappè; a casa di queste, Silvestre si recava almeno una volta al giorno, specie al mattino dopo la Messa, premurandosi di passare prima dalla Pescheria e di colmare di ogni bene di Dio una capiente sporta di stoffa con i manici rinforzati.
Consegnata la sporta a Teresina che, lesta a svuotarla, ne controllava diligentente il contenuto, che deponeva sull’ampio tavolo della cucina, il buon frate predicatore aspettava che gli scolassero una calda tazza di caffè; quindi, se u picciriddu era sveglio, lo prendeva sulle sue ginocchia e compiaciuto cercava di farlo parlare e ridere.
Non è che di parole e di risate Tommasino fosse molto prodigo; bisogna, però, riconoscere che il padrino era molto bravo nel riuscire a fargli sciogliere lo scilinquagnolo e a strappargli qualche risata.
La vecchia domestica Vicinzina stendeva una coperta sul pavimento e insieme, padrino e figlioccio, trascorrevano una buona mezz’ora a giocare.
Il gioco che più amava il piccolo era riprodurre il verso degli animali, che Silvestre gli proponeva e che lui ridendo rifaceva.
“ Come fa l’ asinello? Ih, oh, ih, oh” faceva il frate; “ ih, oh, ih, oh”, imitava il bambino.
Il cane? “bau, bau”; il gatto? A questo punto, Tommaso cercava con lo sguardo il pasciuto gatto di casa accoccolato su una seggiola e per primo faceva “ miao, miao, miao”, con una vocina, che faceva andare in sollucchero Silvestre, Agatina, Teresina e la vecchia domestica.
Giù a ridere, ridere di cuore, tutti insieme e in attesa che la risata di Masino scoppiasse fragorosamente, quando il padrino si esibiva nel verso del maialino.
Come fa il maialino?” e già il bambino cominciava a ridere. “ Oink, oink”, grugniva Silvetre; “Oink, oink”, lo imitava il bambino e… tutti e due a ridere…a ridere “a scaccaniarisi”.
Davvero, bravo era il frate a fare il maialino…davvero!
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Nelle giornate di sole, le due sorelle e l’immancabile Vicinzina portavano Tommaso alla villa Bellini; lì, avrebbe trovato altri bambini e con loro avrebbe potuto giocare e sgambettare.
Si sarebbe potuti andare nella più vicina villa Pacini, suggeriva Vicinzina; ma loro ribattevano di no, che quella era una villa di vecchi e di “varagghi”, che si sentivano gli odori della vicina Pescheria e che, non ultimo, avevano bisogno di vestirsi un po’ più “elegantucce” e  fare una bella passeggiata.
Uscivano da casa, percorrevano il piccolo tratto di via Garibaldi, guardando distrattamente le vetrine dei negozi e facevano la prima sosta davanti la fontana dell’ Acqua a lenzuolo, da cui si domina la Pescheria e dalla quale Masino non riusciva a staccarsi, estasiato dalla bellezza del gruppo marmoreo e dallo scroscìo dell’ acqua, che riusciva a rendere melodiose persino le grida sguaiate dei pescivendoli.
Altra tappa obbligata era la Cattedrale; prima di entrare le tre donne indossavano la velette, tutte e tre portavano l’indice della mano destra a chiudere le labbra e rivolte a Masino facevano il suono del silenzio “sssss”. Ma Masino era silenzioso di suo!
Teresina prendeva l’acqua benedetta, si segnava e la porgeva alle altre due che, a loro volta, si segnavano. Tutte e tre, infine, segnavano il bambino e si dirigevano presso l’altare di San Giorgio Cavaliere, il primo alla sinistra di chi entra; un saluto frettoloso al Santissimo ed una sosta prolungata davanti al sacello di Sant’ Aituzza bedda, dinanzi al quale recitavano le preghiere ed accendevano cinque candele bianche, una per ciascuna delle donne, una (la più grande) per Tommaso ed un’altra per il di lui padrino.
A passeggio, quindi, per la via Etnea, a guardare le vetrine dei negozi e la gente che passeggiava elegantemente vestita, sino a fermarsi a guardare i cartelloni del cinema Sala Roma, proprio a due passi dalla villa, di fronte alla pasticceria Caviezel.
Non avevano ancora varcato il cancello che già Masino faceva per dirigersi alla vasca delle papere. Nessuno sapeva di certo se fossero cigni o papere; ma erano bianche e simpaticissime e tutti, specie i bambini, non resistevano alla tentazione di gettare in acqua le molliche di pane.
Si fermavano una buona mezz’ora e, quando capivano che Masino si era divertito abbastanza, cominciavano a prendere la salita, che li avrebbe condotti al cancello più in alto della villa.
Attraversavano la strada e dopo pochi passi si ritrovavano alle porte del convento dei Domenicani, dove sembrava che Silvestre li aspettasse.
Riposatasi un po’, la lieta brigata si metteva in cammino (questa volta in compagnia del frate) per la via Santa Maddalena, sino a fermarsi all’ angolo di via Disangiluinano al Bar Pasticceria La Rosa, per gustare i coni della rinomata gelateria .
Non c’era una volta che Masino non si imbrattasse il bel pagliaccetto e non c’era una volta che le tre donne non esprimessero in un catanese stretto il loro disappunto che, immancabilmente, veniva messo a tacere da Silvestre, lassatulu jri ‘u picciriddu, si sta arricriannu, nun lu viditi cuomu ci piaci liccari….
Finita la consumazione, ognuno per la sua strada; Silvestre al convento, le donne e il bambino per via Gisira.
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Catania, alla fine, un paisazzu è; tutti sapevano tutto di tutti e non poteva passare inosservato il fatto che, puntualmente, ogni mattina fra Silvestro compisse il medesimo rito. Come, d’altronde, non poteva passare inosservato che ogni lunedì, proveniente da Milocca, si fermasse dinanzi al portone di casa Rappè la macchina di Tano Lavitola che, prima di rifocillarsi presso il suo abituale ritrovo di via Coppola 6, si recava a fare visita alle donne.
Una suonatina di clacson, quindi, con gli occhi rivolti ai balconi, cominciava “ Vicinzina, o Vicinzina”.
Come se stesse lì ad aspettare, questa si affacciava e, “vegnu, vegnu, staju vinennu..un minutu, m’ nficcu i scarpi e scinnu”.
In men che non si dica, Vicinzina appariva dinanzi al portone; seminascosta, dietro l’anta del portone chiuso “a vanidduzza”, si intravedeva Teresina, subito accorsa a dare una mano alla domestica, per salire tutta l’abbondanza dei prodotti che arrivavano da Milocca.
Scaricato l’ultimo panaru, Tano si accomiatava dalla vecchia donna, dandole una spolveratina al davanzale, e rivolgeva un saluto tra l’ossequioso e il complice all’ attempata signorina.
La trovava ancora piacente Teresina; ma per lui tutte le femmine erano degne di attenzione, piacenti e rispondenti alla bisogna; persino la moglie Maricchia, che non era il massimo della bellezza e della femminilità. “ Ogni acqua leva siti!”
Bastava che respirassero, avessero i capelli lunghi e indossassero una gonna; una caviglia, soltanto una caviglia gli bastava, per accenderlo….
Per spegnere quel fuoco, profittando del suo mestiere, due volte la settimana alle cinque del mattino si partiva dal paese e, onorate le incompenze lavorative, si ritirava in quello che considerava il suo buon ritiro, la pensione del cavalier Giuseppe Larvata di via Coppola, numero sei.
Una targa si sarebbe dovuto meritare alla sua morte, “ qui, in operosa, indefessa, attività amorosa, visse e profuse la ricchezza delle sue doti, Gaetano Lavitola”.
La casa accoglieva nel suo grembo anche molti rampolli delle famiglie leonfortesi che, avendo le stesse medesime inclinazioni “artistiche” di Gaetano, vi si soffermavano con una certa frequenza.
Lì, in compagnia di alcune signorine, che non erano state educate dalle Orsoline, potevano riposare,discutere. chiacchierare.
 
Accadde, quindi, che la chiacchiera si posasse sempre più spesso sulle buone sorelle Rappè, sul pio religioso e sulle particolari premure che questi profondeva per il figlioccio Tommaso, del quale nessuno sapeva chi fosse il padre.
Fuori da quelle mura, cominciava a serpeggiare un bisbiglìo, che via via diventava sussurro, pettegolezzo, che non tardò in ultimo a sfociare in una peccaminosa maldicenza che, inevitabilmente, investì la sorelle e i frati predicatori.
Proprio ad un tavolo del bar La Rosa stavano seduti alcuni sfaccendati, uno dei quali si lasciò andare a irriverenti allusioni nei confronti di fra Silvestre.
“ Fra Sirbestru,” urlava con una risata sguaiata “ tutti u chiamanu patri; tranni so figghiu, ca u chiama patrozzu”.
Quando si dice; proprio in quel momento passava da via Santa Maddalena a braccetto del marito Arturo Palermo la professoressa Carmelina Trillei, terziaria domenicana, che non potè fare a meno di sentire quelle infamie, che le trafissero il petto come la punta di una spada.
Le labbra le diventarono cianotiche, la faccia bianca come un lenzuolo, le gambe le si rammollirono; tanto che, prima che perdesse completamente i sensi il marito la fece sedere ad un tavolo, le spruzzò sotto le narici qualche goccia di profumo Notte di Venezia, che Carmelina teneva nella borsetta e le fece bere una gazzosa; era pallida come una morta. Morta pareva, morta!
Fortunatamente, però, poco per volta andava riprendendosi, sino a riuscire ad ansimare. “Bisogna fare qualcosa………………………………….. bisogna”.
Qualcosa fece….
 
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Carmelina Trillei apparteneva ad una delle famiglie più in vista del paese ed in gioventù era stata molto disinvolta, intrattenendo con la compiacenza della mamma simpatici scambi d’opinione con i ragazzi suoi coetanei. Ma non solo.
Con un bel fisico, sempre ordinata e imbellettata, trascorreva gran parte della giornata al balcone della casa sopra il Banco di Sicilia, dal quale non lesinava a nessuno la ricchezza del suo sguardo, tanto da meritare l’appellativo di “ siccia ‘nfarinata” e di essere immortalata in una poesia dello zio Angelino Buscemi.
I suoi soggiorni a Milocca erano molto frequenti. Andava sempre con la mamma (piena di gioia per la disinvoltura della figlia) ed insieme a lei si fermava per qualche giorno; per un’intera settimana, a volte.
Lì, godeva (è il caso dirlo) delle attenzioni di quel bellimbusto di Nino, fratello maggiore di Silvestre, che la conduceva sotto il carrubbo, per permetterle di carezzare da dentro la gabietta l’uccello più raro della sua collezione di volatili.
Che stesse attenta a non farlo scappare…e lei attenta stava!
Ma bisogna dire che non vi era giovanotto che venisse a Milocca e non si prodigasse per renderle il soggiorno più piacevole.
Turiddu Chiaroponte, per esempio, insisteva per recitarle le sue poesie e ognuno aveva qualcosa da sottoporre alla sua attenzione. A tutti Carmelina riservava un sorriso, una parola, una cortesia;
solo uno sopportava a malapena, Arturo.
Col passare degli anni, la sua bellezza cominciava a sfiorire e la sua spigliatezza fu scambiata sempre più per leggerezza; per cui, insieme alla mamma decise di trasferirsi a Catania, dove cominciò a frequentare i domenicani ed a scoprire la gioia di una vita cristianamente virtuosa.
Anche Arturo si era trasferito a Catania e anche lui frequentava la chiesa e il convento di San Domenico, proprio come molti leonfortesi.
Durante la celebrazione di una Messa, gli sguardi dei due si incrociarono e Carmelina….
Per lei, non era stato valido il detto che i paesani avevano coniato per le ragazze spigliate, “Faciti, faciti, ca a vintura nun la pirditi!”
Il matrimonio tra i due fu celebrato proprio da fra’ Silvestre. “ Ma cosa fece Carmelina?” potreste chiedere. Abbiate pazienza..