di Salvo La Porta

   Non appena Carmelina riprese le forze,  con il cipiglio proprio dei vecchi docenti si rivolse al povero Arturo, e  “ ‘a pagasti a azzusa?” e quello con la solita timida rassegnazione, “ si, ‘a pagaiu”, rispose.
“ Amuninni, allura. Non c’è tempo di perdiri” fece, scattando in piedi come una molla dalla seggiola.
Arturo, un palmo più basso di lei e con una gamba di legno, era già in piedi; si aggrappò al braccio della moglie e tutti e due si incamminarono a passo spedito verso il convento di san Domenico.
Se la fretta  nel camminare fa perdere ogni compostezza al viandante, immaginiamoci quanto dovesse essere scomposta quella coppia così male assortita; tanto che i negozianti, fermi a discutere con clienti e amici dinanzi l’uscio della bottega, interrompevano ogni discorso, per osservarne il poco elegante incedere e, dandosi di gomito, lasciarsi andare sottovoce a non lusinghieri commenti. Un passante, addirittura, per guardarli, non si accorse di una mattonella rialzata, vi inciampò e cadde, rimanendo a terra senza che nessuno gli desse aiuto.
Andavano di fretta. Di fretta, come se avessero dimenticato “l’uovu ‘nto luci”. Insieme a loro un drappello di angeli dell’ Esercito della Salvezza si era mosso…
  La donna spedita, altera e fiera dell’opera buona che si accingeva a compiere; Arturo, a rimorchio, sudato e con la bava alla bocca e con quella maledetta gamba, che gli aveva guadagnato i nomignoli di “punto e virgola” e “ranca”.
   Arturo era figlio di uno dei “mitatera” dei Lo Sicco a Milocca; i padroni gli volevano bene e, mossi a pietà del suo difetto fisico,  a loro spese gli fecero prendere un diplomino, che gli assicurasse una vita dignitosa.
Di questa benevolenza non fu mai grato, assunse anzi nei confronti di tutti, compresi i suoi benefattori, un atteggiamento di sussiego, di alterigia, che sfiorava il disprezzo. “ Cu di asini fa cavaddi, u’ primu cauciu è u’ so”.
Quello che gli stava più a cuore era fare dimenticare le sue umili origini; per cui, cercava di vestire in maniera ricercata e di essere ricercato anche nel parlare.
Fumava Serraglio parlava con il risucchio, come per rinfacciare all’interlocutore la raffinatezza del suo eloquio.
Un semplice  buongiorno diventava “ti auguro un buogiorno; buongiorno.” Un risucchio e ancora “ Buongiorno. Per davvero; Per davvero, te lo dico” e qui un altro risucchio.
La gente, però, lo conosceva e gli voleva pure bene; in fondo un buon uomo era. Ma quella che lo conosceva di più era Carmelina  ( con la quale, quando erano soli si prendevano  la confidenza di parlare in dialetto), che non perdeva occasione per ricordargli che sposandolo gli aveva fatto salire almeno tre scalini nella società.
Finalmente, arrivarono al portone del convento, bussarono e furono fatti entrare nel chiostro dal vecchio fratello portinaio, che bene li conosceva.
“ Sono proprio stanco, proprio stanco sono. Davvero, per davvero sono stanco. Sono” , risucchiò Arturo abbandonandosi sulla panchina di pietra; mentre Carmelina, rimasta in piedi, impettita e con il naso affilato dalla collera, chiese se il Priore fosse nel suo ufficio.
“ E’ in sagrestìa”, rispose il frate, “ vado a dirgli che siete qui”.
Non si era ancora mosso il portinanio, che apparve il Priore, un settantenne avvolto in tutta l’ingombrante bellezza dell’ abito domenicano, che faceva risaltare la rubiconda giocondità del volto, incorniaciato da una chierica illuminata da due occhietti vispi.
Si avvide subito della presenza dei due,  rallentò il passo per come la gravità del suo ruolo gli suggeriva, studiò un sorriso e.., “Professoressa, don Arturo, che piacere vedervi” disse, rimanendo in piedi sussiegoso e manieroso ad un tempo.
“ Non credo che sarà un piacere la nostra visita…” ribattè acida Carmelina e d’ un fiato vomitò le maldicenze, che coinvolgevano fra Silvestre e di conseguenza investivano senza ritegno la comunità domenicana, compreso il Terz’ordine femminile, del quale era presidentessa. Uno scandalo; un vero e proprio scandalo, a cui si doveva porre rimedio.
Il povero Priore ascoltò in silenzio, assicurando che avrebbe attenzionato i fatti riportati e, all’occorrenza, avrebbe provveduto.
I saluti di commiato furono di circostanza, freddi, quasi gelidi…
Amu a vidiri” sibilò la donna, deponendo inconsapevolmente l’ aplomb della professoressa, “ amu a vidiri”.
 
°°°°°
 
   Non sappiamo se e come abbia provveduto il Priore; sappiamo però che a distanza di tempo non era cambiato nulla e le maldicenze continuavano ad imperversare.
U vidisti u piddieri?” faceva sarcasticamente Carmelina ad Arturo, “ né oggi e mancu aieri”, seguitava questi, completando un adagio leonfortese, stante a significare che una notizia attesa con trepidazione non arrivava mai.
All’improvviso, però, “u piddieri” si manifestò da solo, assumendo le sembianze del molto reverendo Padre Provinciale, che da Palermo era venuto in sacra visita al convento domenicano di Catania.
Tutta la comunità fu in festa; rosario, vespri, canto di compieta e Messe registrarono una partecipazione massiccia e gli incontri pubblici si susseguirono, arricchiti anche “dalla gioiosa presenza delle realtà ecclesiali cittadine”.
   I fedeli furono, inoltre, informati che il Padre Provinciale sarebbe stato ben lieto di ricevere in privato anche singoli o gruppi di laici.
L’occasione era troppo ghiotta, perchè Carmelina se la lasciasse scappare e insieme ad Arturo si diedero subito da fare.
Coinvolsero alre due pie donne ed un povero diavolo e, per il tramite del Priore, chiesero udienza al Molto Reverendo Padre.
L’udienza fu accordata ed il manipolo si mosse, per “ristabilire l’ordine morale in quella comunità tanto scandalizzata”.
I cinque furono fatti accomodare dal Priore (che non potè fare a meno di pensare, “ ca’ simu, poviru fra Sirbestru!”) ed invitati dal Superiore ad esplicitare le ragioni della loro richiesta.
Carmelina, allora, nel silenzio-assenso degli altri non perse neppure un minuto per sputare tutte le maldicenze, che circolavano sul conto del frate e per chiedere che finalmente si provvedesse a presevare l’onore e il decoro dei frati e del convento.
Il Provinciale ascoltò con attenzione e gravità quelle filippiche, si disse addolorato che la cattiveria della gente avesse potuto investire la reputazione di un frate di buona vita come Silvestre.
Disse anche che, alla fine “tutto può succedere”, anche se lui avrebbe messo la mano sul fuoco….; ma si sa “oportet ut scandala eveniant”, sospirò rivolto alla compiaciuta professoresa.
Ad ogni buon conto, assicurò che avrebbe indagato, pregato, valutato e, insieme al Priore, con l’aiuto di Dio deciso.
Si alzò, quindi, come per dire che l’udienza era finita, ringraziò la soddisfatta comitiva, per la devozione dimostrata alla comunità domenicana e gentilmente la congedò.
Rimasto solo con il Priore, gli fece solo un fuggevole cenno di rimprovero, per essere stato tenuto all’oscuro di quei fatti e con accenti appropriati gli confidò la decisione che, mentre Carmelina rigurgitava, aveva già preso.
Era evidente che a Catania era nata un’insanabile incompatilità ambientale tra Silvestre e la comunità; per cui, non rimaneva che chiedergli di fare la scelta tra due opzioni, entrambe dolorose, trasferirsi nel convento di Santa Maria dell’ Arco, alle porte di Napoli, ovvero deporre l’abito domenicano e chiedere di esssere incardinato nella Diocesi di appartenenza.
 
°°°°°
 
Silvestre, come era logico, decise di optare per la seconda delle due; avrebbe dismesso l’abito domenicano ed avrebbe chiesto al Vescovo di Nicosia di essere incardinato nella sua diocesi.
Molti impegni lo trattenevano in Sicilia, bisognava vigilare sulla salute e sull’educazione del piccolo Tommaso, presevare dalla cattiveria della gente l’onore e la rispettabilità delle sorelle Rappè e, non ultimo, prendersi cura degli anziani genitori e di Milocca, dove i mezzadri avevano cominciato a farla da padroni.
Si fece, quindi, confezionare due talari nere dalle Paoline di via Vittorio Emanuele e consegnato senza molte cerimonie l’abito nelle mani del Priore, fece le valigie per trasferirsi senza indugio nella casa del clero di via Crociferi.
A casa delle Rappè ci sarebbe stato posto…ma la gente era malvagia, infame e maldicente; meglio non aumentarle le cattiverie e le maldicenze.
Mentre aspettava la carrozza davanti l’uscio del convento, la sua mente corse a “quel Pasquino” di Arturo e a Carmelina, alla quale riservò accenti per nulla appropriati ad un uomo di Dio.
Ma il pensiero va, corre per i fatti suoi (e anche quando ti illudi di averlo fermato o di averne modificato il viaggio), si insinua negli spiragli più impensati, per farsi spazio e trovare la sua realizzazione; proprio come l’acqua e il fuoco.
“ Tutta curpa di dda grandissima….” pensava, “ cu ci la purtava a pigghiarisi i corna di ‘nterra e a mittirisilli in testa?”
   Che cosa avrebbe potuto fare lui se suo fratello Nino l’aveva “schifiata” e poi “l’aveva chiantata cuomu ‘na rasta di vasilicò?”
Che colpa ne aveva lui, povero frate?  Perchè vendicarsi su di lui?
Tanto si perse nei suoi pensieri, che cominciò a pensare a voce alta e non si accorse dell’arrivo della carrozza e del cocchiere, al saluto del quale fece, “ o la buttana, la gran buttana…la buttanazza…e Diu sa’ si dicu minzogna!”
   “ Chi dici, Patri?” fece quello dalla cassetta prima di scendere a caricare le valigie, “Nenti, nenti…” rispose lui “ Parru tra me e         me…parru con persona…. con persona intima!”
    Domani, in tarda mattinata, sarebbe venuto Gaetano Lavitola, sarebbero andati a prendere le sorelle Rappè e Tommasino, quindi destinazione Milocca…
 
°°°°°
 
Sin dalle prime ore del mattino, nella casa di via Gisira fervevano i preparativi per la partenza; la povera Vicinzina non sapeva come dividersi, Tommaso era irrequieto e Agatina non sapeva come calmarlo, Teresina girava per la casa come un fantasma, chiedendosi e chiedendo se mai si fossero dimenticati qualcosa da mettere in valigia.
Finalmente, quando tutte le valigie erano chiuse, si accorsero di avere diemticato la foto-ritratto di Arnaldo Rappè.
Chi era costui? Era un lontano cugino delle sorelle, morto senza eredi in terra straniera e ritratto all’età di circa quarantanni con una divisa bianca, che non si capiva bene se da militare, ammiraglio o musicante.
Le sorelle avevano deciso che Arnaldo sarebbe stato il padre di Tommaso e quel ritratto non potevano certo lasciarlo a casa; anche perchè, ogni sera prima di andare a letto il piccolo era abituato a recitargli le devozioni.
Sistemato, dunque, il ritratto in una delle valigie, furono pronte per partire.
In tarda mattinata, Gaetano suonò al portone di via Crociferi. Silvestre (ormai don) non lo fece attendere; scese di corsa le scale, caricò le due valigette nel portabagagli e si accomodò sul sedile davanti, sul quale l’autista aveva abbandonato un libro intitolato   “ La donna a Troia”.
  Bravu, Tanu”, si congratulò, “vedo con piacere che ti sei dato alla lettura…”, “ si u voli, su po’ pigghiari, a mia non mi interessa”.
   Lo aveva comprato, solo perchè aveva presuntuosamente ritenuto che la proposizione “a” nel titolo fosse stata di troppo…
In via Gisira, erano in trepidante attesa e, quando la macchina arrivò, in men che non si dica, si sistemarono le valigie sul portabagagli e tutti si accomodarono dietro.
 
Si fecero il segno della croce e partenza per Milocca, dove si prevedeva di arrivare dopo circa tre ore.
Nelle salite tra Regalbuto e Agira, le tre donne a turno chiesero che la macchina si fermasse, perchè il tramazzamento del viaggio provocava nelle poverette attacchi di vomito, che non riuscivano a trattenere; anche le budella vomitavano.
Intanto, Tommaso era passato nel sedile davanti, accanto al padrino, che viaggiava fresco come una rosa, reclinò la testolina sulla spalla di questi e beatamente si addormentò.
Finalmente, arrivarono; Milocca!
Al suono del clacson, due garzoni si affrettarono a scendere i bagagli e mentre i viaggiatori si stiravano le braccia e si sgranchivano le gambe, Tanina si fece avanti a dare il benvenuto e ad invitarli a mettersi a proprio agio.
I vecchi Lo Sicco  aspettavano sotto il pergolato insieme all’anziano padre Finardi, parroco di san Giuseppe; don Silvestre, tenendo per mano Masino, andò a baciare la mano di tutti e tre e a salutarli con il rituale “sabbenidica”,
   “ Sabbenidica”, fece con una tenera vocina anche il bambino e anche lui baciò la mano dei tre, che a stento trattennero la commozione.
Silvestre raggiunse, quindi, l’autista per liquidarlo con la doverosa mercede e tra il vocìo generale tipico dell’eccitazione per l’arrivo di persone care, andò ad appartarsi con padre Finardi, senza neppure accorgersi di quello che stava succedendo nell’ampio spazio antistante la casa.
Padre Finardi era un uomo tra i sessanta e i settanta ( più verso i settanta), molto popolare tra i giovani, con i quali in confessione aveva concordato una specie di “ patto penitenziale”, in virtù del quale veniva concesso per una volta la settimana di abbandonarsi alla pratica onanistica, a riparazione della quale doveva seguire la recita di tre pater, ave e gloria. Una sola volta a settimana, però, e solo una volta nello stesso giorno!
Possiamo immaginare il contenuto del colloquio, che fu interrotto dall’arrivo del pane appena sfornato e condito, biscotti, caraffe di acqua e vino fresco.
Per tutto il pomeriggio, si continuò a spizziculiari e a chiacchierare serenamente; a sera, dopo la recita del Rosario, cenarono e andarono tutti a letto. Era stata una giornata stancante. Molto stancante.
Furono svegliati tutti un po’ bruscamente dal ripetuto suono del clacson  della macchina del dottor Alfonso Valenti, veterinario capo del consorzio di bonifica, che era venuto insieme al nipote Umberto ed al figlio Nino, per procedere alla “ decornificazione dei cornuti” della masseria.
Era un omone di circa due metri, presidente diocesano dell’ Azione Cattolica, aveva un aspetto burbero e un cuore da bambino.
Il dottore Porcello, come tutti lo chiamavano, era di casa dai Lo Sicco e, nonostante andasse sempre di fretta, amava soffermarsi a discustere con i padroni di casa, durante e dopo le sue prestazioni professionali.
Quella mattina, purtroppo però,  non aveva tempo, perchè doveva recarsi in altre masserie, tra cui quella dei vicini Pitralisi.
   Dopo i rituali convenevoli, quindi, si accomodò ad un tavolo al limitare del piano antistante la casa, sul muro della quale c’era una presa di corrente ed ordinò a Nino di portare il decornificatore elettrico.
    Lui ed Umberto rimasero seduti; l’uno a sorbire una tazzina di caffè, l’altro a compilare camurriusi carte di ufficio, rassegnato di berlo freddo il suo caffè.
Un garzone, intanto, conduceva gli animali e iniziava sotto lo sguardo incantato di Nino l’operazione.
Per ogni animale, che si apprestava a decornificare, come in una litania, puntualmente chiedeva al veterinario sino a che altezza dovesse procedere e quello puntualmente e distrattamente rispondeva, “ sinu a quannu ci pungino”.
   Umberto era solitamente silenzioso, ma con la battuta pronta e mordace; quando finì di compilare quelle strameledette carte le passò allo zio che, prima di controllarle minuziosamente come sua abitudine, si lasciò andare a qualche riflessione tra il religioso e il filosofico.
Caru Umbertu” sospirò “ iu dicu ca un uomu avissi a nasciri almenu du voti…ma chi dicu du voti?… tri voti avissi a nasciri, pi nun fari certi errori. Tu chi dici Umbertu?”
      “ Iu dicu ca certuni nun avissivu a nasciri propriu”, sibilò quello, guardandolo di sottécchi e finendo di bere il suo caffè.
Non appena Carmelina riprese le forze,  con il cipiglio proprio dei vecchi docenti si rivolse al povero Arturo, e  “ ‘a pagasti a azzusa?” e quello con la solita timida rassegnazione, “ si, ‘a pagaiu”, rispose.
“ Amuninni, allura. Non c’è tempo di perdiri” fece, scattando in piedi come una molla dalla seggiola.
Arturo, un palmo più basso di lei e con una gamba di legno, era già in piedi; si aggrappò al braccio della moglie e tutti e due si incamminarono a passo spedito verso il convento di san Domenico.
Se la fretta  nel camminare fa perdere ogni compostezza al viandante, immaginiamoci quanto dovesse essere scomposta quella coppia così male assortita; tanto che i negozianti, fermi a discutere con clienti e amici dinanzi l’uscio della bottega, interrompevano ogni discorso, per osservarne il poco elegante incedere e, dandosi di gomito, lasciarsi andare sottovoce a non lusinghieri commenti. Un passante, addirittura, per guardarli, non si accorse di una mattonella rialzata, vi inciampò e cadde, rimanendo a terra senza che nessuno gli desse aiuto.
Andavano di fretta. Di fretta, come se avessero dimenticato “l’uovu ‘nto luci”. Insieme a loro un drappello di angeli dell’ Esercito della Salvezza si era mosso…
  La donna spedita, altera e fiera dell’opera buona che si accingeva a compiere; Arturo, a rimorchio, sudato e con la bava alla bocca e con quella maledetta gamba, che gli aveva guadagnato i nomignoli di “punto e virgola” e “ranca”.
   Arturo era figlio di uno dei “mitatera” dei Lo Sicco a Milocca; i padroni gli volevano bene e, mossi a pietà del suo difetto fisico,  a loro spese gli fecero prendere un diplomino, che gli assicurasse una vita dignitosa.
Di questa benevolenza non fu mai grato, assunse anzi nei confronti di tutti, compresi i suoi benefattori, un atteggiamento di sussiego, di alterigia, che sfiorava il disprezzo. “ Cu di asini fa cavaddi, u’ primu cauciu è u’ so”.
Quello che gli stava più a cuore era fare dimenticare le sue umili origini; per cui, cercava di vestire in maniera ricercata e di essere ricercato anche nel parlare.
Fumava Serraglio parlava con il risucchio, come per rinfacciare all’interlocutore la raffinatezza del suo eloquio.
Un semplice  buongiorno diventava “ti auguro un buogiorno; buongiorno.” Un risucchio e ancora “ Buongiorno. Per davvero; Per davvero, te lo dico” e qui un altro risucchio.
La gente, però, lo conosceva e gli voleva pure bene; in fondo un buon uomo era. Ma quella che lo conosceva di più era Carmelina  ( con la quale, quando erano soli si prendevano  la confidenza di parlare in dialetto), che non perdeva occasione per ricordargli che sposandolo gli aveva fatto salire almeno tre scalini nella società.
Finalmente, arrivarono al portone del convento, bussarono e furono fatti entrare nel chiostro dal vecchio fratello portinaio, che bene li conosceva.
“ Sono proprio stanco, proprio stanco sono. Davvero, per davvero sono stanco. Sono” , risucchiò Arturo abbandonandosi sulla panchina di pietra; mentre Carmelina, rimasta in piedi, impettita e con il naso affilato dalla collera, chiese se il Priore fosse nel suo ufficio.
“ E’ in sagrestìa”, rispose il frate, “ vado a dirgli che siete qui”.
Non si era ancora mosso il portinanio, che apparve il Priore, un settantenne avvolto in tutta l’ingombrante bellezza dell’ abito domenicano, che faceva risaltare la rubiconda giocondità del volto, incorniaciato da una chierica illuminata da due occhietti vispi.
Si avvide subito della presenza dei due,  rallentò il passo per come la gravità del suo ruolo gli suggeriva, studiò un sorriso e.., “Professoressa, don Arturo, che piacere vedervi” disse, rimanendo in piedi sussiegoso e manieroso ad un tempo.
“ Non credo che sarà un piacere la nostra visita…” ribattè acida Carmelina e d’ un fiato vomitò le maldicenze, che coinvolgevano fra Silvestre e di conseguenza investivano senza ritegno la comunità domenicana, compreso il Terz’ordine femminile, del quale era presidentessa. Uno scandalo; un vero e proprio scandalo, a cui si doveva porre rimedio.
Il povero Priore ascoltò in silenzio, assicurando che avrebbe attenzionato i fatti riportati e, all’occorrenza, avrebbe provveduto.
I saluti di commiato furono di circostanza, freddi, quasi gelidi…
Amu a vidiri” sibilò la donna, deponendo inconsapevolmente l’ aplomb della professoressa, “ amu a vidiri”.
 
°°°°°
 
   Non sappiamo se e come abbia provveduto il Priore; sappiamo però che a distanza di tempo non era cambiato nulla e le maldicenze continuavano ad imperversare.
U vidisti u piddieri?” faceva sarcasticamente Carmelina ad Arturo, “ né oggi e mancu aieri”, seguitava questi, completando un adagio leonfortese, stante a significare che una notizia attesa con trepidazione non arrivava mai.
All’improvviso, però, “u piddieri” si manifestò da solo, assumendo le sembianze del molto reverendo Padre Provinciale, che da Palermo era venuto in sacra visita al convento domenicano di Catania.
Tutta la comunità fu in festa; rosario, vespri, canto di compieta e Messe registrarono una partecipazione massiccia e gli incontri pubblici si susseguirono, arricchiti anche “dalla gioiosa presenza delle realtà ecclesiali cittadine”.
   I fedeli furono, inoltre, informati che il Padre Provinciale sarebbe stato ben lieto di ricevere in privato anche singoli o gruppi di laici.
L’occasione era troppo ghiotta, perchè Carmelina se la lasciasse scappare e insieme ad Arturo si diedero subito da fare.
Coinvolsero alre due pie donne ed un povero diavolo e, per il tramite del Priore, chiesero udienza al Molto Reverendo Padre.
L’udienza fu accordata ed il manipolo si mosse, per “ristabilire l’ordine morale in quella comunità tanto scandalizzata”.
I cinque furono fatti accomodare dal Priore (che non potè fare a meno di pensare, “ ca’ simu, poviru fra Sirbestru!”) ed invitati dal Superiore ad esplicitare le ragioni della loro richiesta.
Carmelina, allora, nel silenzio-assenso degli altri non perse neppure un minuto per sputare tutte le maldicenze, che circolavano sul conto del frate e per chiedere che finalmente si provvedesse a presevare l’onore e il decoro dei frati e del convento.
Il Provinciale ascoltò con attenzione e gravità quelle filippiche, si disse addolorato che la cattiveria della gente avesse potuto investire la reputazione di un frate di buona vita come Silvestre.
Disse anche che, alla fine “tutto può succedere”, anche se lui avrebbe messo la mano sul fuoco….; ma si sa “oportet ut scandala eveniant”, sospirò rivolto alla compiaciuta professoresa.
Ad ogni buon conto, assicurò che avrebbe indagato, pregato, valutato e, insieme al Priore, con l’aiuto di Dio deciso.
Si alzò, quindi, come per dire che l’udienza era finita, ringraziò la soddisfatta comitiva, per la devozione dimostrata alla comunità domenicana e gentilmente la congedò.
Rimasto solo con il Priore, gli fece solo un fuggevole cenno di rimprovero, per essere stato tenuto all’oscuro di quei fatti e con accenti appropriati gli confidò la decisione che, mentre Carmelina rigurgitava, aveva già preso.
Era evidente che a Catania era nata un’insanabile incompatilità ambientale tra Silvestre e la comunità; per cui, non rimaneva che chiedergli di fare la scelta tra due opzioni, entrambe dolorose, trasferirsi nel convento di Santa Maria dell’ Arco, alle porte di Napoli, ovvero deporre l’abito domenicano e chiedere di esssere incardinato nella Diocesi di appartenenza.
 
°°°°°
 
Silvestre, come era logico, decise di optare per la seconda delle due; avrebbe dismesso l’abito domenicano ed avrebbe chiesto al Vescovo di Nicosia di essere incardinato nella sua diocesi.
Molti impegni lo trattenevano in Sicilia, bisognava vigilare sulla salute e sull’educazione del piccolo Tommaso, presevare dalla cattiveria della gente l’onore e la rispettabilità delle sorelle Rappè e, non ultimo, prendersi cura degli anziani genitori e di Milocca, dove i mezzadri avevano cominciato a farla da padroni.
Si fece, quindi, confezionare due talari nere dalle Paoline di via Vittorio Emanuele e consegnato senza molte cerimonie l’abito nelle mani del Priore, fece le valigie per trasferirsi senza indugio nella casa del clero di via Crociferi.
A casa delle Rappè ci sarebbe stato posto…ma la gente era malvagia, infame e maldicente; meglio non aumentarle le cattiverie e le maldicenze.
Mentre aspettava la carrozza davanti l’uscio del convento, la sua mente corse a “quel Pasquino” di Arturo e a Carmelina, alla quale riservò accenti per nulla appropriati ad un uomo di Dio.
Ma il pensiero va, corre per i fatti suoi (e anche quando ti illudi di averlo fermato o di averne modificato il viaggio), si insinua negli spiragli più impensati, per farsi spazio e trovare la sua realizzazione; proprio come l’acqua e il fuoco.
“ Tutta curpa di dda grandissima….” pensava, “ cu ci la purtava a pigghiarisi i corna di ‘nterra e a mittirisilli in testa?”
   Che cosa avrebbe potuto fare lui se suo fratello Nino l’aveva “schifiata” e poi “l’aveva chiantata cuomu ‘na rasta di vasilicò?”
Che colpa ne aveva lui, povero frate?  Perchè vendicarsi su di lui?
Tanto si perse nei suoi pensieri, che cominciò a pensare a voce alta e non si accorse dell’arrivo della carrozza e del cocchiere, al saluto del quale fece, “ o la buttana, la gran buttana…la buttanazza…e Diu sa’ si dicu minzogna!”
   “ Chi dici, Patri?” fece quello dalla cassetta prima di scendere a caricare le valigie, “Nenti, nenti…” rispose lui “ Parru tra me e         me…parru con persona…. con persona intima!”
    Domani, in tarda mattinata, sarebbe venuto Gaetano Lavitola, sarebbero andati a prendere le sorelle Rappè e Tommasino, quindi destinazione Milocca…
 
°°°°°
 
Sin dalle prime ore del mattino, nella casa di via Gisira fervevano i preparativi per la partenza; la povera Vicinzina non sapeva come dividersi, Tommaso era irrequieto e Agatina non sapeva come calmarlo, Teresina girava per la casa come un fantasma, chiedendosi e chiedendo se mai si fossero dimenticati qualcosa da mettere in valigia.
Finalmente, quando tutte le valigie erano chiuse, si accorsero di avere diemticato la foto-ritratto di Arnaldo Rappè.
Chi era costui? Era un lontano cugino delle sorelle, morto senza eredi in terra straniera e ritratto all’età di circa quarantanni con una divisa bianca, che non si capiva bene se da militare, ammiraglio o musicante.
Le sorelle avevano deciso che Arnaldo sarebbe stato il padre di Tommaso e quel ritratto non potevano certo lasciarlo a casa; anche perchè, ogni sera prima di andare a letto il piccolo era abituato a recitargli le devozioni.
Sistemato, dunque, il ritratto in una delle valigie, furono pronte per partire.
In tarda mattinata, Gaetano suonò al portone di via Crociferi. Silvestre (ormai don) non lo fece attendere; scese di corsa le scale, caricò le due valigette nel portabagagli e si accomodò sul sedile davanti, sul quale l’autista aveva abbandonato un libro intitolato   “ La donna a Troia”.
  Bravu, Tanu”, si congratulò, “vedo con piacere che ti sei dato alla lettura…”, “ si u voli, su po’ pigghiari, a mia non mi interessa”.
   Lo aveva comprato, solo perchè aveva presuntuosamente ritenuto che la proposizione “a” nel titolo fosse stata di troppo…
In via Gisira, erano in trepidante attesa e, quando la macchina arrivò, in men che non si dica, si sistemarono le valigie sul portabagagli e tutti si accomodarono dietro.
 
Si fecero il segno della croce e partenza per Milocca, dove si prevedeva di arrivare dopo circa tre ore.
Nelle salite tra Regalbuto e Agira, le tre donne a turno chiesero che la macchina si fermasse, perchè il tramazzamento del viaggio provocava nelle poverette attacchi di vomito, che non riuscivano a trattenere; anche le budella vomitavano.
Intanto, Tommaso era passato nel sedile davanti, accanto al padrino, che viaggiava fresco come una rosa, reclinò la testolina sulla spalla di questi e beatamente si addormentò.
Finalmente, arrivarono; Milocca!
Al suono del clacson, due garzoni si affrettarono a scendere i bagagli e mentre i viaggiatori si stiravano le braccia e si sgranchivano le gambe, Tanina si fece avanti a dare il benvenuto e ad invitarli a mettersi a proprio agio.
I vecchi Lo Sicco  aspettavano sotto il pergolato insieme all’anziano padre Finardi, parroco di san Giuseppe; don Silvestre, tenendo per mano Masino, andò a baciare la mano di tutti e tre e a salutarli con il rituale “sabbenidica”,
   “ Sabbenidica”, fece con una tenera vocina anche il bambino e anche lui baciò la mano dei tre, che a stento trattennero la commozione.
Silvestre raggiunse, quindi, l’autista per liquidarlo con la doverosa mercede e tra il vocìo generale tipico dell’eccitazione per l’arrivo di persone care, andò ad appartarsi con padre Finardi, senza neppure accorgersi di quello che stava succedendo nell’ampio spazio antistante la casa.
Padre Finardi era un uomo tra i sessanta e i settanta ( più verso i settanta), molto popolare tra i giovani, con i quali in confessione aveva concordato una specie di “ patto penitenziale”, in virtù del quale veniva concesso per una volta la settimana di abbandonarsi alla pratica onanistica, a riparazione della quale doveva seguire la recita di tre pater, ave e gloria. Una sola volta a settimana, però, e solo una volta nello stesso giorno!
Possiamo immaginare il contenuto del colloquio, che fu interrotto dall’arrivo del pane appena sfornato e condito, biscotti, caraffe di acqua e vino fresco.
Per tutto il pomeriggio, si continuò a spizziculiari e a chiacchierare serenamente; a sera, dopo la recita del Rosario, cenarono e andarono tutti a letto. Era stata una giornata stancante. Molto stancante.
Furono svegliati tutti un po’ bruscamente dal ripetuto suono del clacson  della macchina del dottor Alfonso Valenti, veterinario capo del consorzio di bonifica, che era venuto insieme al nipote Umberto ed al figlio Nino, per procedere alla “ decornificazione dei cornuti” della masseria.
Era un omone di circa due metri, presidente diocesano dell’ Azione Cattolica, aveva un aspetto burbero e un cuore da bambino.
Il dottore Porcello, come tutti lo chiamavano, era di casa dai Lo Sicco e, nonostante andasse sempre di fretta, amava soffermarsi a discustere con i padroni di casa, durante e dopo le sue prestazioni professionali.
Quella mattina, purtroppo però,  non aveva tempo, perchè doveva recarsi in altre masserie, tra cui quella dei vicini Pitralisi.
   Dopo i rituali convenevoli, quindi, si accomodò ad un tavolo al limitare del piano antistante la casa, sul muro della quale c’era una presa di corrente ed ordinò a Nino di portare il decornificatore elettrico.
    Lui ed Umberto rimasero seduti; l’uno a sorbire una tazzina di caffè, l’altro a compilare camurriusi carte di ufficio, rassegnato di berlo freddo il suo caffè.
Un garzone, intanto, conduceva gli animali e iniziava sotto lo sguardo incantato di Nino l’operazione.
Per ogni animale, che si apprestava a decornificare, come in una litania, puntualmente chiedeva al veterinario sino a che altezza dovesse procedere e quello puntualmente e distrattamente rispondeva, “ sinu a quannu ci pungino”.
   Umberto era solitamente silenzioso, ma con la battuta pronta e mordace; quando finì di compilare quelle strameledette carte le passò allo zio che, prima di controllarle minuziosamente come sua abitudine, si lasciò andare a qualche riflessione tra il religioso e il filosofico.
Caru Umbertu” sospirò “ iu dicu ca un uomu avissi a nasciri almenu du voti…ma chi dicu du voti?… tri voti avissi a nasciri, pi nun fari certi errori. Tu chi dici Umbertu?”
      “ Iu dicu ca certuni nun avissivu a nasciri propriu”, sibilò quello, guardandolo di sottécchi e finendo di bere il suo caffè.