di Salvo La Porta

L’ appuntamento con Sua Eccellenza il Vescovo di Nicosia era fissato per le undici; alle dieci e mezzo al massimo, puntuali, ci si sarebbe dovuti trovare in Curia.
 
Alle sette del mattino, già Silvestre aveva finito di celebrare Messa, nella stanzetta del piano terraneo, che sua madre donna Sarina aveva fatto adattare a Cappella.
 
Sorbì di fretta le due uova fresche montate a zabaglione e annegate nel marsala, che quella santa donna gli aveva battuto e corse in bagno a sbarbarsi.
 
Indeciso tra il si e il no, decise infine, con mezza faccia ancora insaponata, di fare un bagno.
 
Si, la decisione era già presa…. un bagno non sarebbe stato male ( anche se la sera prima aveva fatto un pediluvio); anzi lo avrebbe tonificato e si sarebbe presentato più fresco ai suoi nuovi superiori.
 
Diede, quindi, voce e la vasca fu riempita che aveva appena finito di farsi il contropelo e di passarsi la pietra d’allume sul viso.
 
Si asciugò per bene con la tovaglia di lino bianco, si spalmò un po’ di crema dopobarba proraso, calzò le scarpe nere lucidate a specchio, che lo zio Paolo Lammiru gli aveva fatto su misura e, infine, indossò una delle splendide talari, che le Paoline avevano cucito apposta per lui.
 
Stava per uscire, quando pensò che forse un ultimo tocco non sarebbe guastato… si guardò allo specchio, si passò sui capelli un po’ di brillantina Linetti, qualche goccia di profumo Pino Silvestre che, per ovvie ragioni onomastiche, era il suo preferito e alle otto in punto si offrì in tutto il suo splendore alla vista dei suoi anziani genitori e dell’intera brigata di Milocca, che lo attendava come le truppe in armi attendono il loro eroico comandante.
 
Un sorso del caffè caldo, che Vicinzina gli aveva appena colato…e andò a baciare la mano dei due vecchi, chiedendo e ricevendone la benedizione e, senza altro indugio, montò sulla vettura che Gaetano Lavitola aveva tenuto con il motore acceso.
 
Partita che fu la macchina, la vita a Milocca riprese i suoi ritmi; i contadini ritornarono ai campi o si dedicarono alle loro occupazioni e donna Sarina ordinò che si cernesse e si impastasse la farina e che si andassero a prendere lo scanaturi e i fusi, che sarebbero serviti per la preparazione dei maccarruna co’ purtusu, che tanto piacevano a Silvestre con il sugo di rassu e mauru del maiale.
 
”Stasira, quannu torna, s’arricria figghiu miu”, sussurrava ad Agatina Rappè; “ si, si, nesci pazzu pe’ maccarruna e i voli co’ purtusu” rincarava quella “ se no, nun si nni mangia… nun ci calinu e veramenti, si nun c’è u’ purtusu… chi maccarruna su’?”
 
Appena la farina magistralmente scanata divenne pasta, le donne si diedero con le loro agili mani a lavorarne i pezzetti e a sfilare dai fusi i maccheroni col buco, che andavano adagiando a cavallo di una canna di bambù posata tra le spalliere di due sedie, perchè potessero asciugarsi; nel frattempo, dopo avere recitato il Rosario, si lasciavano andare a cantare delle canzoncine farcite di doppisensi che, di tanto in tanto fingendo di scandalizzarsi, donna Sarina interrompeva con finti colpettini di tosse.
 
Masino era ghiotto di quella pasta cruda e, quando le donne facevano per distrarsi, ne afferrava un pugnetto e di corsa…via a mangiarsela mentre donna Sarina, facendo le viste di essere colta di sorpresa, gli gridava dietro ridendo, “ehi birbanti…ehi mascaratu, latru! Ah, si ti pigghiu…” ; rideva, di cuore rideva, donna Sarina, mentre stringeva tra i denti le dita della mano destra tutta infarinata.
 
 
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Il viaggio per Nicosia fu una vera e propria odissea; lo stradale irto e tortuoso era costellato al suo fondo da improvvise buche colme di fango, che l’autista non riusciva a scansare inincontro tempo utile, perchè la macchina non vi sprofondasse e all’improvviso… dossi, che facevano sobbalzare i viaggiatori, rimescolando le loro budella, sino a farle salire in gola.
 
Quando sembrava che, finalmente, si potesse trarre un respiro e viaggiare più da cristiani, sbucavano fuori (non si capiva da dove) greggi di pecore e capre e mandrie di bovini, all’impatto con i quali non rimaneva che ricorrere ad una brusca frenata, che rimetteva in movimento le budella dei malcapitati viandanti.
 
Invano, si sarebbero cercati i pastori; neppure uno se ne vedeva…sembrava che si fossero confusi con i loro animali!
 
Durante queste soste forzate, Silvestre tirava fuori una scatoletta di latta, nella quale erano custoditi i preziosi chicchi di caffè, che Teresina gli aveva consegnato un minuto prima della partenza; ne offriva uno al suo compagno e un altro lo metteva in bocca lui, facendolo sciogliere lentamente. Una mano santa contro il mal d’auto!
 
Nel corso del tragitto, Gaetano era solito intrattenere gli ospiti con il dettagliato racconto dell’ultimo film, che aveva visto al Supercinema Vittoria di Catania.
 
Quella volta, aveva cominciato a raccontare “ Catene”, un film strappalacrime, il cui protagonista era Amedeo Nazzari e si era appassionato tanto nella descrizione delle scene e nel riportare i dialoghi, da non accorgersi di avere imboccato per sbaglio la strada per Sperlinga.
 
Quando se ne avvide, aveva già percorso almeno quattro chilometri e non gli rimaneva che fare dietrofront e riprendere la strada per Nicosia.
 
Come Dio volle, arrivarono in Curia in tempo utile, perchè Silvestre potesse essere accolto da un giovane prete pacioccone, che già lo aspettava, per farlo affabilmente accomodare nella sala
d’aspetto, nella quale da più di un’ora attendevano pazientemente tre suore salesiane.
 
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“Deo gratias” salutò Silvestre; “ Sia lodato Gesù Cristo”, fecero quelle senza alzare gli occhi.
“Sempre sia lodato”, replicò lui e rivolgendo loro un’occhiata fugace e furtiva, non potè fare a meno di pensare, “ matruzza mia, quantu su’ brutti!”
 
Da quel momento, un silenzio tombale calò nella sala, appena spezzato dal muto bisbiglìo delle preghiere, che le tre religiose biascicavano, mentre di tanto in tanto alzavano sottecchi lo sguardo indagatore sul nuovo arrivato.
 
Trascorse una buona mezz’ora, prima che dallo studio di Sua Eccellenza uscisse claudicando un sacerdote sulla cinquantina, che poi Silvestre seppe essere suo compaesano, padre Varano canonico della Matrice.
 
Il buon padre, attraversò la stanza appoggiandosi ad un bastone di canna, fece un profondo inchino alle religiose; si diresse, quindi, verso Silvestre che, senza dargli il tempo di fermarsi, era già balzato in piedi.
 
“Si tu Silvestre Lo Sicco?” chiese, “ al servizio di Dio e di Vossia” fu la risposta che ricevette.
 
Seguirono i soliti convenevoli, accompagnati dal rincrescimento di entrambi, per non avere fatto il viaggio insieme e conclusi con la reciproca promessa che presto avrebbero avuto modo di incontrarsi.
 
Non era ancora ripiombata la sala nel silenzio, che si udì il tintinnìo delicato di un campanello, al suono del quale lo stesso petrino pacioccone di prima accorse con passo felpato, per bussare alla porta dello studio del Vescovo, il quale ordinò che fossero introdotte le suore.
 
“Accomodatevi, sorelle”, fece e quelle di subito si alzarono dalle loro sedie e a passettini piccoli, ma svelti, si avviarono a varcare la soglia della porta, rimasta socchiusa.
 
L’ udienza alle tre figlie di Maria fu molto breve, anche se altrettanto cordiale, tanto che alla fine Sua Eccellenza in persona le condusse alla porta, accompagnandole con ogni benedizione pastorale sino all’uscita.
 
“Trasi Sirbestru”, fece poi con ruvida cordialità a don Silvestre, che era già scattato in piedi, e lo fece accomodare nel suo studio, impedendogli di inginocchiarsi e limitandosi a porgergli la mano, per farsi baciare l’anello in segno di rispetto e di sottomissione.
 
E’ inutile dire che l’alto prelato ben conosceva i motivi, per i quali il suo interlocutore aveva chiesto di essere incardinato in diocesi….ma evitò prudentemente qualsiasi riferimento; mise Silvestre subito a suo agio, chiedendogli dei suoi genitori, tanto devoti, dei suoi fratelli, un po’ scapestrati…di quali letture preferisse, se predileggese leggere Tommaso, oppure, Agostino e tante altre cose, che rendevano quel colloquio veramente bello, piacevole, quasi amichevole.
 
“Sirbestru, Sirbestru…e bravu, bravu Sirbestru!”, disse infine, alzandosi per congedarlo e lasciandolo in ginocchio, gli porse la mano e gli comunicò che aveva deciso di destinarlo a Leonforte, canonico della Matrice, con l’incarico di curare le anime dei fratelli della confraternita della Mercè.
 
Silvestre baciò l’anello e si alzò, ringraziò, salutò grato e in men che non si dica, raggiunse Gaetano, per intraprendere il viaggio di ritorno, che non sarebbe stato migliore di quello dell’andata.
 
In macchina, raccontò per sommi capi com’era andato il colloquio, disse dell’affabilità del Vescovo e di come questi avesse deciso di inviarlo a Leonforte, praticamente in Chiesa Madre.
 
Raccontò anche di avere casualmente incontrato padre Varano e di come l’incontro gli fosse risultato gradevole e di come il confratello gli fosse entrato in simpatia.
 
Gaetano si complimentò, rallegrandosi della decisione del Vescovo e chiese con un sorrisetto malizioso che impressione avesse mai avuto don Silvestre di quel prete.
 
“Simpatico, davvero simpatico” fu la risposta.
“U sapi chi dicinu i genti pì padri Varanu?” “Chi dicinu?”
chiese Silvestre.
“U voli sapiri daveru?” fece maliziosamente Gaetano,
“Certu, parra…chi dicinu”, insistette il prete…
”Va beni,ci lu dicu…padre Varanu, cu li ammi stuorti va scuncicannu li fimmini schetti e si li porta narrieri a li vutti e ci fa fari miau, cuomu li atti” e qui una risata sonora, quasi sguaiata, di quelle che era solito fare in via Coppola numero sei a Catania.
 
Don Silvestre gli rivolse uno sguardo che voleva sembrare indignato, accompagnato da un mezzo sorrisetto, che tradiva il compiacimento per quell’inaspettato incontro.