di Salvo La Porta

            Prima di partire per Pietraperzia,  dove avevano una casetta in piazza ed alcuni residui  possedimenti terrieri ereditati da padre Giuseppe Vitaliano zio della mamma,  Agatina e Teresina Rappè insistettero con donna Sarina, perchè si facesse aiutare insieme a Vicinzina e ad altre due domestiche a sistemare e rendere più accogliente il quartino riservato a don Silvestre che, in grazia dell’espletazione del suo ministero,  non avrebbe potuto più risiedere stabilmente a Milocca.
Anche la giovane Serafina, che quando poteva evadere dalla masseria non le pareva vero, in verità, si era prontata da subito; ma Agatina protestò che sarebbe stato meglio se fosse rimasta in campagna, dove le cose da fare non mancavano…e poi, confidava sottovoce alla sorella Teresina, era troppo vispa e non solo non sarebbe stata di alcuno aiuto, ma ci sarebbero voluti mille occhi per tenerla a bada.
Chidda ‘nte so’ robbi nun ci sapi stari”, sospirava Teresina, rincarando la dose.
La casa, acquistata dai Marchesi di Villadoro, era situata sul Corso Umberto, a metà strada tra la piazza rotonda ( u’ tuornu a chiazza) Regina Margherita e la Matrice;  poteva anche contare su un’entrata di servizio sulla via Collegio, a due passi della scalinata che conduce alla chiesa della Mercè, presso la quale Silvestre era stato destinato a prendersi cura delle anime dei confrati.
Constava di due piani ed un ampio terrazzo; al primo piano, disimpegnato dai magnifici saloni di rappresentanza, era stato ricavato il quartino del reverendo, composto da un’ austera camera da letto e da uno studiolo, da cui si accedeva alla cappelletta privata.
Alla pulizia di quelle stanze Agatina volle provvedere di persona, curando ogni minimo dettaglio…. con le sue proprie mani volle provvedere.
Il brulichìo dell’operosità delle donne fu inaspettatamente interrotto dallo squillo dell’apparecchio telefonico sistemato, appunto, sulla scrivania dello studiolo; “ Cu è? Viditi cu è”, fece agitata donna Sarina ed in men che non si dica Agatina corse a rispondere.
Era la signorina dei telefoni, che avvisava che era stata prenotata una chiamata per quel numero da Catania e chiedeva se dall’altro capo si voleva accettare di parlare; “ Certo, grazie” rispose Agatina, riponendo la cornetta.
Non erano trascorsi dieci minuti, che il telefono squillò ancora e Agatina corse a rispondere alla signorina di prima, che avvisava che stava per passare la chiamata.
“ Pronto, pronto..,pronto” urlava Agatina, mentre le altre assistevano curiosamente angosciate, ma nessuno le rispondeva; “pronto” gridava ancora più forte quando, esasperata e ormai sul punto di porre fine a quel tormento, sentì come provenire dall’oltretomba la voce di un uomo, che diceva di essere il cugino Franco Vitaliano.
“Pronto”, urlò ancora più forte Agatina e, finalmente, la conversazione tra i due potè avere inizio e proseguire anche se con innumerevoli interruzioni; quando la voce di Franco diventava impercettibile, la povera donna alzava la sua con quanto fiato aveva in gola, ritenendo dentro di sè che, per farsi sentire sino a Catania, bisognasse gridare, gridare…gridare.
Gridava tanto che persino Sadoro Castrogiovanni, uomo molto riservato e discreto che gestiva un fornitissimo ed elegante negozio di regali  dirimpetto, fu costretto a seguire per filo e per segno tutto il dialogo tra i due che, praticamente, si esauriva nella determinazione che, tre giorni dopo, Franco sarebbe passato da Milocca, dove avrebbe trascorso la notte, per ripartire l’indomani con le sorelle, la domestica e Masino alla volta di Pietraperzia.
 
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Franco Vitaliano era un uomo alto e brizzolato, sulla quarantina  e molto sensibile al fascino femminile; lo zio avrebbe voluto avviarlo al sacerdozio, ma lui non ne volle sentire e fuggì a Catania, dove cominciò a frequentare gli ambienti univesitari neofascisti e a bazzicare, con maggiore assiduità di quanto non facesse con le aule dell’ ateneo, i “salotti di via Maddem”, presso i quali con i colleghi della sua stessa risma trascorreva le serate a        “fare flanella”.
Impegnato com’era nella casa di Ninedda Rassu, il tempo tiranno non gli bastava per impegnarsi proficuamente nello studio; per cui, la sua carriera universitaria andava a rilento, molto a rilento.
Il libretto, su cui venivano segnati gli esami delle materie sostenute con il relativo punteggio, era pressocchè bianco e, inoltre, i voti riportati erano firmati da compiacenti e complici colleghi, ai quali Franco ricambiava spesso il favore della firma.
Viva Catania, città di belle donne…..”
     Per farla breve, a casa capirono l’antifona e lo zio lo fece sistemare al Banco di Sicilia, presso il quale si dimostrò attento, scrupoloso e integerrimo.
Fu proprio questo suo lavoro, che fece balenare alle due sorelle l’opportunità di rinsaldare la parentela e chiedergli di fare da padrino di cresima a Tommaso, perchè pensavano “ nun si po’ sapiri mai…un postu o’ bancu, buonu fussi!”
 
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     Ogni mattina, don Lo Sicco usciva dalla porta di servizio di via Collegio, percorreva pochi passi svelti ed imboccava la via Mercè, salendo tutti d’un fiato gli scalini scoscesi e ripidi, che conducevano al piano antistante la chiesa.
La chiesa era ad un’unica navata, bellina ma con i muri oltraggiati dall’umidità e offriva alla venerazione dei fedeli i simulacri dell’ Ecce Homo e, appunto, quello della Madonna della Mercede, collocato sulla nicchia sopra l’altare maggiore.
Ogni giorno Silvestre era lì a disposizione di chi ne avesse bisogno, sino alla recita dell’ Angelus; dopodichè, raccomandava ad una delle pie donne di chiudere bene…. quattro salti e giù per la discesa della Portella, dove all’angolo con la via Nicoletti l’aspettava don Varano, al quale offriva il braccio, avviavandosi in Chiesa Madre, all’appuntamento con l’Arciprete e gli altri preti.
Questo ogni giorno, o quasi, perchè capitava che i due (che avevano scoperto tra di loro notevoli affinità elettive) fossero particolarmente impegnati nelle pratiche di carità, alle quali non potevano certo sottrarsi, dedicandosi  con alacre spirito missionario all’adempimento delle opere di misericordia.
Alle opere di misericordia canoniche una ne anteponevano, “consolare gli afflitti”; e chi più afflitto di una povera vedova ancora nel fiore degli anni?
I due confratelli  sentivano nei confronti di queste infelici donne una specie di naturale propensione e, quindi, un’inarrestabile buona disposizione nel lenire le loro pene con la frequenza della presenza e il costante  “esercizio delle…. funzioni dei defunti”.
    La sera, poi, quando erano liberi da impegni, amavano trascorrere un’oretta al Casino dei Nobili, i cui soci giocatori di briscola avevano dovuto amaramente scoprire che “ pi battiri du’
parrina, ci vuonu du’ curnuti!”
 
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Il Casino dei Nobili, fondato nel 1836, sorgeva nei locali, che si affacciano sul marciapiede del corso Umberto, sino a raggiungere due luci nella piazza Margherita, di proprietà della signora Cristina Ricifari, sposata Pantò.
Non era per nulla facile fare parte dell’elenco dei soci del prestigioso Circolo, anzi!
Erano ammessi soltanto i figli dei soci, quelli che potevano vantare nobili natali,  facoltosi possidenti, ovvero borghesi, che avevano raggiunto posizioni sociali di rilievo.
Neppure sulla banchina antistante era concesso di transitare ai comuni mortali; tanto che Nicolau Pipia, il maggiordomo che con  la sua splendida divisa di servizio sovraintedeva al personale, dava ordine nelle giornate estive che alcune seggiole ne delimitassero lo spazio, per scoraggiare il passaggio di estranei.
Era un luogo di gioviale conversazione, dove i maggiorenti del paese si incontravano, per giocare a carte o carambola o, appunto, per conversare.
Il saloncino delle feste, di forma quadrata e con una colonna centrale, era un gioiellino Liberty, tappezzato con tessuti damascati rossi alle pareti, su due delle quali brillavano due grandissimi specchi, collocati ( uno di fronte all’altro)  su due lunghi divani, forniti come il resto dell’arredamento dal mobilificio Ducrot di Palermo.
I soffitti erano impreziositi da stucchi, che abilissimi artigiani avevano coniato proprio sul posto.
Se, per un caso molto fortuito, qualcuno dovesse leggere queste povere righe e volesse immaginare il luogo così presuntuosamente e noisamente descritto e volesse saperne di più e se, sempre per caso si trovasse a Roma, potrebbe visitare una delle salette adiacenti il salone centrale del Grande Albergo Plaza in via del Corso.
Lì, troverebbe la medesima tappezzeria alle pareti, i medesimi stucchi, i medesimi lampadari di cristallo ed i medesimi mobili “Ducrot” del Salone delle Feste del Casino dei Nobili, oggi più democraticamente denominato Circolo di Compagnia, di Leonforte.
I soci, solo uomini, frequentavano vestiti con giacca e cravatta e la conversazione era amabile, dai toni molto garbati ed arricchita da convenevoli e “civilizzi”.
   Per Carnevale e per il Sabatino delle Gentildonne i locali venivano aperti alle famiglie…erano feste meravigliose, degne del ballo del “ Gattopardo” di Visconti!
Molto garbo…ma poco, pochissimo denaro; i rampolli delle ricche famiglie leonfortesi venivano lasciati a stecchetto, a causa dell’esagerata parsimonia dei genitori, che conducevano una vita “a difesa della lira”, ovviamente la loro, per dirla con quel campione dell’ economia italiana, che fu il Presidente del Consiglio Giuseppe Pella.
I granai della famiglia Delonghis, per esempio, traboccavano, ma le tasche di Luigino erano letteralmente vuote; per cui, al caro giovine non rimaneva che giocare d’astuzia, per racimolare qualche spicciolo da spendere con gli amici al Casino.
   Per mantenere sotto controllo quella grande quantità di grano, era stata posta una lunga canna di bambù che, per mezzo di un segno rosso sulla parte alta, ne segnava il livello; Luigino, però, non si perdeva d’animo e con un temperino accorciava  la canna di un nodo e prelevava da quella montagna un “ tumminu” di frumento che si affrettava a vendere allo zio Ciccino, ricavandone qualche lira che, senza indugio correva a spendere.
Sul marciapiede del Circolo, i soci trascorrevano i pomeriggi delle belle giornate, parlando di politica, del tempo e, manco a dirlo, spettegolando.
    Ma quando ci si dedica molto alle cose degli altri, spesso si trascurano le proprie e può finire che siano gli altri a conoscerle le nostre cose.
Un pomeriggio, un povero uomo trascinava insieme alla sua povera e stanca vita uno sgangherato carretto, carico della carne e delle frattaglie di un bue, appena macellato; il cavaliere Dominicis lo scorse che era arrivato all’altezza del Banco di Sicilia e con un sorrisino tra l’ironico e il maligno, senza alcuna pena per la fatica di quell’infelice, si lasciò andare a considerazioni disdicevoli sulla di lui moglie.
Ma “ u’ Signuri nun è mastru ca paga u’ Sabitu” ed avvenne che, proprio all’altezza del Circolo, dal carretto cadessero le corna del bue; il cavaliere se ne avvide subito e non si lasciò sfuggire l’occasione, per infierire sul poverino,“ zu’ Paulu”, disse, indicando con lo sguardo le corna del bue, “ stativi attentu, ca vi cascaru ‘nterra”.
   Zu’ Paulu, allora, o per buona creanza o per riposarsi un po’, si fermò e con il berretto in mano rivolse un malinconico sguardo da cane vastuniatu agli astanti e fissò gli occhi su quelli del cavaliere, che continuava a sfotterlo con il suo sorriso mefistotelico. Quindi, portò entrambe le mani tra la fronte e le tempie e di rimando rispose, “ no, cavalieri, i mii su’ ca’ o so postu; vossa talìa giustu, ca sarannu i so’ !” e, trascinandosi insieme al carretto, riprese la strada verso il suo Calvario.