di Salvo La Porta

        Anche quella sera, dopo il Rosario e la funzione vespertina, don Silvestre e padre Varano si avviarono verso il Casino dei Nobili, sicuri in cuor loro che due polli da spennare a briscola li avrebbero trovati.
E’, infatti, pressocchè impossibile era batterli e non solo perchè, come si soleva dire, “pi battiri du’ parrini, ci volinu du’ curnuti” ( che di quelli, grazie a Dio, ce ne erano tanti…e loro lo sapevano bene); sed etiam, perchè avevano escogitato un sistema di segni convenzionali, che sfuggiva alla conoscenza degli avversarsi, più che abituati, assuefatti a quelli tradizionali.
Stranamente, però, la sala da gioco era deserta e un confuso vocìo si partiva dalla cammaredda, che si affaccia sulla Piazza Margherita, dove si erano ritrovati scapestratamente alcuni squattrinati giovani, che avevano la pessima abitudine, o meglio il vizio, di sfottere il malcapitato di turno.
Non ebbero bisogno di tendere le orecchie, per riconoscere tra le tante voci quelle del barone Gaetano di Valentino e di Giuvanninu Valentìa, che avevano cominciato a dissertare sul pizzo di don Paliddu Valentìa Paparedda, gentiluomo di altri tempi dall’ aspetto aristocratico, che ornava il suo austero volto di un fluente, brizzolato pizzetto risorgimentale.
Ziu Palì”, faceva Giuvanninu, “ Stu pizzu ci sta daveru buonu…pari Luigi Pirandellu”, mentre inconsapevolmente l’ignara vittima portava la mano al mento per lisciarsi la barbetta; “ ma chi dici, Giuvanninu”, rincarava Gaetano, “ pi’ mia, u’ ziu Paliddu cu stu pizzu assimigghia tuttu a Giovanni Gentili…nun lu viditi ca l’avi brizzolatu?”
         Uno chiedeva come facesse a mantenerlo così ben curato… un altro se lo tingesse e tante, tantissime indiscrete, ironiche domande, sino a quella che doveva risultare fatale, della quale si fece interprete e portavoce proprio don Silvestre che, sino a quel momento, sembrava avesse assistito alla scena come estraneo spettatore.
Ma a notti, quannu dormi, u’ pizzu u metti supra o sutta i linzola?” insinuò subdolamente l’uomo di chiesa, facendo brillare uno sguardo di sfottente intesa a quei giovinastri ed al suo compiacente confratello.
Giustu, giustu”, continuarono tutti divertiti, “ unni u’ metti?..unni u metti?” ed avrebbero continuato chissà sino a quando ad infierire se, all’improvviso ed in tutta l’austerità della sua alta persona, non fosse sopraggiunto il Presidente, generale in congedo della benemerita arma dei Carabinieri, dottor Peppino Platania.
“ Carusi, pi stasira chiudimuala ca’…imuni a ritirari, bona notti a tutti!… Amu caputu? Santa e bona notti.”
       Nessuno osò ribattere e tutti si avviarono all’uscita, augurandosi reciprocamente la buona notte e salutando deferentemente il Presidente, che non mancò di richiamare i giovani soci al giudizio e ad un maggiore rispetto verso gli anziani.
Anche don Silvestre partì per Milocca, dove avrebbe trascorso il resto della serata e la giornata dell’indomani con Franco Vitaliano ed i suoi cari.
Intanto, il buon zio Paliddu corse alla sua casa di fronte al Circolo degli Operai, per trascorrere una notte insonne, roso dal tarlo del dubbio, “ supra o sutta i linzola?”
 
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A Milocca, la serata era bellissima, calda quel tanto che basta e così serena da non essere disturbarta neppure dal ronzìo o dalla puntura di una zanzara.
La candida luna, incorniciata da una miriade di stelle, strizzava l’occhio, facendosi lentamente spazio tra il brillore, per occupare il suo posto al centro di un cielo blu cobalto, sazia della serenata che le sussurava il frinire dei grilli e del soave cinguettìo di un garrulo gruppetto di bambini messi a cerchio che, uno dopo l’altro, la salutavano “ Luna, lunedda, fammi ‘na cudduredda; fammilla bedda ranni, ca la puortu a san Giuvanni; san Giuvanni nun la voli, la puortu a san Micheli; san Micheli si la pigghia, pi l’amuri di so’ figghia!”
       Gli si riempirono gli occhi di lacrime a Silvestre nel sentire che la vocina più intonata era quella dell’amatissimo figlioccio; sentì forte l’impulso di abbracciarselo e…”Masino” chiamò, curvandosi ed allargando le braccia.
Al richiamo del padrino, il bambino interruppe il cerchio del gioco, lasciando in asso gli altri, e di corsa andò a rifugiarsi tra le braccia, che paternamente si erano spalancate per accoglierlo.
Pipinu, pipinu, me’ pipinu arrivau…”, trillava con quanto fiato avesse in gola, mentre gli si gettava addosso con il pericolo di fare rovinare in terra il povero Silvestre, il quale nella foga non si era neppure accorto di essersi preso la tonaca con i piedi.
Gli altri bambini non vollero essere da meno e, “ don Sirbestru, don Sirbestru…”  si misero ad urlare, mentre di slancio correvano ad attorniarlo.
Per ciascuno di loro, don Silvestre ebbe una carezza, una “fiuredda” della Madonna della Mercede e una caramella.
L’ allegro vociare richiamò l’attenzione degli altri che erano in casa.
La prima ad uscire fu Agatina; quindi, tutti gli altri e, in ultimo, Pepè che aveva acceso il carbone della “ tannura”, sulla brace della quale si sarebbero poi arrostiti i peperoni e  le“stigghiole” di agnello, di cui sia il reverendo che Franco Vitaliano erano ghiottissimi.
Teresina, però, le aveva preparate per Franco, la benevolenza e la simpatia del quale le stavano molto a cuore, per un’eventuale sistemazione del piccolo Tommaso.
Francù, u’ cucinuzzu”, non si stancava di ripetergli, “mancu tu po’ fiurari, quantu su traficusi…ma sacciu ca ti piacinu…”; effettivamente, prima di poterle adagiare sulla brace ed inebriarsi del loro profumo, era stato necessario un lungo procedimento, che aveva messo a dura prova la pazienza, la meticolosa pulizia e la schiena della donna.
“ Grazie, cara cugina…davvero grazie”, rispondeva Franco, “immagino quanto lavoro….però, ne vale la pena”;  “le budella dell’agnellino, arrotolate sul pecorino primo sale, uova sode, ciuffi di prezzemolo e cipolletta, come le preparate voi, sono davvero insuperabili…il cibo degli dei!”, sentenziava.
Finalmente, furono tutti a tavola; tutti, tranne Pepè che, essendo deputato alla tannura, non poteva allontanarsene.
Teresina faceva viaggi continui tra la brace e la mensa e non riusciva neppure a sedersi; ma “ i stigghioli caudi sanu a mangiari…”.
          Portava il piatto colmo di quelle particolari, esaltanti salsicce a don Silvestre, che ne prendeva una con le mani, la odorava voluttuosamente e la passava nella mano di Agatina che, con altrettanta voluttà, se l’ avvicinava al naso, per portarla alla bocca fino a… deliziosamente morderla.
Alla cena, sempre rimanendo a tavola, seguì una gradevole conversazione, nel corso della quale Franco (che, per il suo lavoro si era abituato a parlare in italiano stretto) raccontò alcuni simpatici aneddoti, di cui erano stati protagonisti i clienti del Banco.
Teresina, che non perdeva l’occasione di ingraziarsi il cugino, sorrideva garbatamente e con il “suo” italiano interveniva quando e come poteva…”  queste stigliole, al solo vederle, ti viene l’inquilina in bocca”, diceva; e ancora, “ caro cugino, vi aspettiamo a passare qualche giorno nella nostra casa alle pernici dell’Etna” e ancora tante altre deliziose frasi, che preferiamo sottacere.
Ma la conoscenza della sua grammatica italiana esplose, però, quando portando a tavola un bel piatto di fichi, prese la più bella e, ricordandosi che le era stato insegnato che il nome del  frutto dell’albero vuole il femminile, la porse con un sorriso al cugino, graziosamente invitandolo con un accattivante sorriso,       “ Franco, per te… la fica!”.
           La fragorosa maliziosa ilarità dei commensali, fece avvedere che si era fatto tardi e l’indomani ci si sarebbe dovuti alzare di buon ora.
 
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Aveva appena “scutulatu” la stola viola dai peccati dell’ultima confessione, che un confrate gli si avvicinò, per comunicargli che, mentre si radeva nella barberia di Luca Pipia, aveva sentito dire che il “ compagno Santo”  stava male, ma proprio male.
La notizia gli era stata confermata, riuscendo a carpire ( come era solito fare per tenere aggiornato il clero) la conversazione tra due compagni alla Camera del Lavoro, all’ angolo della piazza Margherita.
Non c’erano dubbi, le condizioni di Santo si erano davvero aggravate; “ patri e Sirbè, vossa mi cridi, si ci scura, nun ci agghiorna”.
       Don Silvestre rimase di stucco. Sapeva della malattia di quel cumunistazzu; ma non avrebbe mai immaginato che la situazione della sua salute fosse precipitata tanto presto.
Diede un frettoloso sguardo enigmatico al suo confidente e, “non ci resta che pregare, per la sua conversione” sussurrò, stringendo le labbra e sollevando le spalle.
In cuor suo aveva già deciso, però, che sarebbe andato a fargli visita, se la signora Gina glielo avesse consentito.
Santo era un personaggio molto conosciuto in paese; afflitto da un’evidente incurvatura della colonna vertebrale, era costretto a tenere ben dritto il collo, su cui si poggiava una testa dalla quale fuggivano due occhi vispi e penetranti; elegante, sempre pulito e profumato, i suoi vestiti se li confezionava su misura, che non facevano una grinza, con l’aiuto dei giuvini della sua sartoria, ai quali ripeteva sempre che tutti possono tagliare una stoffa, ma il vero sarto si riconosce si dalla perfezione del taglio, ma principalmente, dalla precisione della cucitura.
Sin da piccolo aveva dovuto vedersela con la cattiveria degli uomini, tanto che si era specializzato in battute velenose e pungenti, che riuscivano a stecchire gli improvvidi suoi interlocutori, a cominciare dai fascisti e dai democristi, che tra gli altri gli avevano affibiato anche il nomignolo di “ boccuccia di rosa”.
Aveva trasformato la sua bottega da custuriere nei pressi dei Pipituna in una specie di cenacolo marxista, in cui i ragazzi apprendisti uno alla volta leggevano gli articoli de l’ Unità, che poi  commentavano.
Lui, ovviamente, si era riservato il ruolo di lettore principale e di coordinatore dei dibattiti.
Fondamentalmente buono, era ateo convintamente dichiarato e nel “glorioso partito comunista italiano”aveva trovato uno degli scopi principali della vita; anche perchè, sentiva una certa riconoscenza verso il partito che aveva favorito l’incontro e il matrimonio con la sua Gina, bella e intelligente donna continentale.
Aveva preso il vizio del gioco delle carte che, praticamente, non sapeva neppure tenere in mano, facendo la fortuna di alcuni miserabili che, profittando di questa sua debolezza, lo avevano quasi ridotto sul lastrico e condannato ad un cumulo di debiti, per fare fronte ai quali si era visto costretto a chiedere prestiti a chicchessia.
Anche don Silvestre, pur sapendo che non li avrebbe mai ricevuti indietro, gli aveva generosamente prestato dei soldi, “ le ultime lettere di Jacopo Ortis”, gli diceva mentre sventolava le banconote…
Vicino alla sartoria, la signora Gina gestiva un negozio di regali in uno alla rivendita di bombole di gas, che venivano fornite da una ditta di Palermo e che sempre per quei maledettissimi debiti, Santo non riusciva mai a pagare.
All’ ennesimo carico, quando il camionista timidamente gli chiese, “ chi ci avi di dirici o’ principali?” senza battere ciglio con la consueta aria di beffa, lo rassicurò, “ dica al suo principale che il glorioso partito comunista e alla porte e che il cavaliere Santo garantirà per la sua testa, che dorma sonni tranquilli!”
     Ma ora stava male…malissimo e don Silvestre sentiva il dovere di andarlo a trovare.
Lo faceva, perchè erano amici, per la sua missione pastorale e…anche per speranza, che gli si era subdolamente insinuata, di vedere soddisfatto il suo credito. Ad ogni buon conto, aveva riposto dentro la tonaca la stola viola delle confessioni…
La signora Gina lo accolse con gli occhi rossi e gonfi di lacrime, ma con il garbo e la signorilità che la distinguevano e lo introdusse nella penombra della camera da letto, “ Santi, c’è don Silvestre” fece sommessamente e con la solita discrezione si allontanò.
Santo si guardò intorno come per sincerarsi che la moglie fosse uscita e fece cenno all’amico di avvicinarsi, “ grazie ca vinisti” cominciò a rantolare, “ ma pirchì vinisti? Si speri ca mi cunfessu,ti nni po’ iri.”
     Afferrò poi la mano di Silvestre e gliela strinse, rivolgendogli uno sguardo grato, melanconico e beffardo ad un tempo e atteggiando le labbra al sorriso, “ si vinisti pi’ ddi sordi, ti nni po’ iri macari, staiu muriennu…a nuddu pagu!”