di Salvo La Porta

           Lo aveva detto chiaro e tondo ai suoi confratelli preti; lo aveva detto scherzando, ma “babbiannu babbiannu” si dicono le cose più vere e più serie.
“ Ridentem dicere verum: quid vetat?”  dice Orazio nei suoi Sermones; vero, pensava don Silvestre, “che cosa impedisce di dire la verità, ridendo”?
E, infatti, lui la verità la diceva sempre (o quasi) ridendo; con uno di loro non si sarebbe mai confessato, neppure “ in articulo mortis”, in punto di morte.
Già, proprio con loro si doveva confessare, che poi se la sarebbero cantata senza pensarci su due volte!?
Riusciva a dissimulare tanto sornionamente quella verità, che i suoi interlocutori non solo non si sentivano offesi, ma non potevano trattenersi dallo “scaccaniarisi” dalle risate.
Purtroppo per lui, però, un bel po’ di roba da lavare l’aveva accumulata nell’anima sua; avrebbe potuto chiedere una frettolosa assoluzione a padre Varano, al quale sarebbe poi stato disponibile a ricambiare il favore volentieri, stante le medesime macchie nel bucato, ma gli sembrava di ricorrere ad un espediente meschino.
Non gli rimaneva, pertanto, che cercare e trovare rifugio e indulgenza tra i monaci…il suo confessore era così diventato il Padre Bonaventura, Guardiano dei Cappuccini.
Quella mattina si risolvette. Uscì da casa dal portone principale e, senza nemmeno passare dalla chiesa della Mercè, decise che da penitente si sarebbe recato al convento.
Sapeva di andare a soddisfare un precetto assai umiliante e gravoso, ma doveva.
Si avviò, quindi, a passo lento, come quello che deve andare laddove non vorrebbe andare e, inconsapevolmente, ricorre a mille infantili espedienti, per ritardare il più possibile l’ineluttabilità del raggiungimento della mèta.
Fece una prima tappa al Casino dei Nobili, dove incontrò il presidente, insieme al quale andarono a prendere un caffé da Filippo Buffu al bar di fronte.
A passi lenti e trascinati, riprese il cammino, sino al negozio di tessuti di don Luigi Pupipupi, con il quale si soffermò in una piacevole conversazione.
Quindi, attraversò, per salutare e chiacchierare un po’ con gli amici del Circolo degli Operai, per proseguire ancora per un ultima fermata, presso la bottega di scarpe di suo zio Turiddu Lammiru, dove fece per provare qualche paio di scarpe ( anche se sapeva già che non ne avrebbe acquistate), facendo indispettire il povero  calzolaio.
Infine, realizzando di non avere più altri alibi di sosta a disposizione, respirò a pieni polmoni e prese di petto la strada.
Ai “ pipituna”, imboccò la via Cavallotti e…di corsa sino ai Cappuccini.
La chiesa dei Cappuccini si affacciava su un largo piano in terra battuta, dove di lato svettava ( e, tuttavia, svetta) la croce di pietra dell’ ordine serafico.
Aveva una sola campana, collocata alla destra del tetto,  e vi si accedeva da una porta centrale e da una porticina laterale, situata alla sinistra di chi guarda.
Ad un’unica navata, era (ed è) uno scrigno di preziose opere d’arte; a destra, erano situate cappellette, delimitate da austere inferriate in ferro battuto, che custodivano le spoglie mortali di alcune prestigiose famiglie, prima tra tutte quella dei Branciforti.
Di fronte alle cappelle, sorgevano alcuni altari, dedicati alla venerazione di santi, particolarmente cari alla devozione dei leonfortesi;  tra questi, quello dedicato a “santa Filomena dormiente”, il cui simulacro era costituito da una testa di cartapesta, dalla quale fluivano chiari capelli di stoppa, e da un lungo abito imbottito di paglia.
La santa era raffigurata nella posizione di una donna abbandonata ad un estatico sonno ed erano tantissimi i fedeli, che vi sostavano a chiedere l’intercessione per una grazia.
Accadde, però, che durante i bombardamenti, molte delle famiglie aristocratiche catanesi, tra le quali quella dei Pignatelli, venissero a sfollare a Leonforte, ospiti presso il casino di caccia del cavalier Turi Capra Ayala e incrementassero la devozione a Santa Rita da Cascia, chiedendo e ottenendo di collocarne il simulacro in posizione di grande prestigio nella chiesa dei frati.
Purtroppo, però, vuoi perchè la nuova arrivata era la “santa degli impossibili” ( e c’ è sempre qualche caso impossibile da risolvere), vuoi perchè gli uomini siamo inconsapevolmente portati ad emulare quelli che erroneamente riteniamo ne sappiano più di noi, la devozione alla povera santa Filomena andò via via scemando, a favore di una sempre più fervida, quasi fanatica, fiduciosa venerazione della santa agostiniana.
La povera Filomena fu così abbandonata al suo sonno estatico, quasi reietta e derelitta, mentre a Rita furono tributati tutti gli onori, che si tributano alle persone da cui ci si attendono favori; l’altare sempre ornato di veli e merletti e traboccante di fiori, messe cantate, rosari e…candele sempre accese.
La cosa non poteva (e non andò) giù al padre Bonaventura, che stanco di quel voltafaccia dei fedeli ed in grazia di un bizzarro caratterino, decise di prendere una drastica decisione, santa Filomena non sarebbe stata umiliata oltre; mai più sarebbe stata abbandonata all’indifferenza sprezzante degli ingrati questuanti.
Spalancò, senza indugio, la porta d’ingresso della chiesa ed andò ad accendere proprio al centro del piano un falò; quindi, afferrò il simulacro per i capelli di stoppa e lo trascinò, sino a raggiungere il fuoco.
Proprio in quel momento, giungeva don Silvestre che, inorridito e cercando di mettere troppo tardi fine a quel gesto sacrilego,         “ fermu, fermu, patri Bonavintura…chi sta cumminannu? Chi successi?” urlava.
Ma il padre guardiano non gli dava retta e continuava nella sua opera, sino a quando l’umiliata Filomena non fu del tutto purificata dal fuoco; poi, asciugandosi con un largo “muccaturi” marrone il sudore dal volto congestionato, giustizia è fatta”, sospirò.
Finalmente, sembrò ritornare alla ragione ed accortosi di Silvestre, come se nulla fosse successo, cordialmente lo salutò,     “ paci e beni, patri Sirbestru, vinni pi cunfissarisi? I so’ piccati i sacciu… si nni issi a Milocca.  Pi sta vota, nenti pinitenza. Ma vossa metti giudiziu, ci su tanti mariti… gilusi! Ha caputu? Paci e beni….”
      Silvestre rimase allibito, ma aveva capito perfettamente il messaggio; per cui, oramai con la coscienza fresca di bucato, sollevato e riconoscente, ricambiò il saluto di “pace e bene” e riprese, questa volta senza fermarsi, il cammino del ritorno.