Al mio amico e fratello Alessandro Giorgetta, con affetto vero e sincera gratitudine

salvo la porta

 

 
Quando piove a Milocca, Dio ce ne scampi e liberi. E’ vero che l’acqua ci voleva, ma quando è troppa è troppa.
Aveva piovuto incessantemente tutta la notte…e che acqua!
Don Silvestre aveva dormito male; si era girato e rigirato sul materasso, come se giacesse su un letto di spine. Il pensiero dei danni che tutta quell’ acqua avrebbe potuto provocare ai suoi campi non gli dava tregua ed, inoltre, non appena gli sembrava di avere preso sonno, gli si affacciava l’immagine di don Nenè Delonghis; una volta benevola, un’altra truce e rancorosa, come a volergli rimproverare di avere pregato per la sua morte.
Poco prima di albeggiare, all’ arbicedda, i suoi occhi non ne vollero più sentire di chiudersi. Decise, quindi, che si sarrebbe alzato, ma prima volle rivolgere al defunto confratello un saluto, che lo consigliasse di riposare e di lasciarlo riposare in pace, “ eh, caru don Nenè, vossa si sta quietu e vossa mi lassa dormiri.
Nun ci lu po’ chiù diri e genti ca senza stola nun ci si cunfessa e senza dinari nun si canta Missa. Vossa s’arrizzetta.”
Con questi santi pensieri, balzò dal letto ed andò a dirigersi al finestrone. Aprì le imposte e si accorse subito che tra le nuvole il sole aveva cominciato a fare “ purtieddu”, ad aprirsi una porticina, per tentare di fare capolino. Buon segno.
Non si sbarbò, perchè aveva progettato di andare dal barbiere, ma si lavò bene la faccia, le braccia e il collo (i piedi se li era lavati il venerdì) e uscì fuori ad ubriacarsi della terra inzuppata della marina di Milocca.
Fece un rapido giro e si accorse che, alla fine, grossi danni
 
non ce ne erano stati (se non nell’orto) e tornando alle case trovò una bella tazzina di caffè caldo fumante che, intanto sentendolo sveglio, quella santa donna di sua madre gli aveva preparato.
Avrebbe fatto colazione a casa Delonghis, dove seguitavano (per tre volte al giorno e per una settimana ancora) i cuonsuli, le pratiche di misericordia consolatoria e mangiareccia per gli afflitti familiari e per gli immancabili Giovanninno e Tano di Valentino, che all’illustre estinto gli volevano bene “ peggio dei parenti”.
La mattina, caffè, caffellatte e savoiarde; a pranzo e a cena, brodo di pollo e badduzzi di carne e dolci che, accompagnati da un buon vino, calavano con maggiore facilità attraverso l’esofago degli affranti parenti e dei dolenti amici.
Don Lo Sicco fece una buona colazione, che lo rinfrancò del sonno perso la notte e, dopo avere parlottato un po’, guardò da dietro la parmigiana del balcone se la barberìa di Nino Giuffrida e Tano Risicato fosse aperta. Era ancora chiusa; erano già aperte, invece, le porte del Casino dei Nobili che, dopo i tre giorni di lutto, aveva ripreso le normali attività e che la sera avrebbe addirittura ospitato un incontro con le “ gentildonne”, al quale Silvestre avrebbe partecipato delegato da Monsignor Arciprete.
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Al Casino, diede una rapida occhiata ai giornali ed attese che la barberia aprisse e che arrivassero i primi clienti, dalle chiacchiere dei quali avrebbe potuto avere un chiaro quadro degli umori dell’opinione pubblica.
Quando intuì che ci potessero essere abbastanza persone, si decise ad entrare, ossequiosamente salutato dai “ sabbenedica” dei presenti.
Teneva banco Gino Delporto, un simpatico alto giovane con i capelli tirati all’indietro….un biondino, che aveva il vezzo di raccontare una serie di avventure amorose (vere o presunte), nelle quali erano sempre coinvolte la figlia del Prefetto o quella del Questore.
Amava raccontare che quando capitava che le due ragazze
 
fortuitamente si fossero trovate insieme al suo passaggio, l’una dava di gomito all’altra ed entrambe, eccitate da quell’ incontro, si sussurrassero, “ u’ biondinu, u’ biondinu sta passannu”.
I clienti stavano a guardarlo e a sentirlo incuriositi, mentre si accalorava a raccontare l’ultima delle sue improbabili imprese erotiche che, per nulla intimorito dall’arrivo dell’ecclesiastico, presentava con dovizie di scabrosi particolari.
Per mantenere viva l’attenzione degli astanti e per dare forza al suo discorso, Gino aveva l’abitudine di lisciarsi i capelli con la mano destra, chiudendone poi i polpastrelli e portandoseli alla fronte, per farli quindi scivolare lungo tutto il corpo, attraversare la      coscia, sino ad arrivare alla caviglia, dove rallentava, per fermarsi a spolverare con il dorso della mano aperta la tomaia di una lucidissima scarpa.
Aveva una fortissima considerazione di se stesso, tanta da riportare lesto la mano alla fronte e chiedere, “ non so se rendo l’idea”.
Quel giorno, però, non gli venne facile rendere l’idea. Il teatro dell’avventura che stava raccontando, per la prima volta, non era la Prefettura, né la Questura e neppure un aristocratico salotto.
I personaggi erano estremamente umili, poveri, al limite della miseria e vivevano in uno dei bassi del quartiere Granfonte, dormivano su un soppalco, al quale si accedeva per mezzo di una scala di legno, attraversando lo spazio che dava ospitalità ad un asino e ad alcune galline.
Una ragazza divideva il letto con i genitori; una ragazza, la cui bellezza non era sfuggita a Gino e che non aveva saputo resistere al fascino del biondino, al quale una notte aveva dato appuntamento.
Il diavolo, però, ci mette sempre la coda e mentre la fanciulla furtivamente scendeva per abbandonarsi alle sue carezze, si ruppe un piolo della scala, che la fece cadere senza potere trattenere un grido di dolore, che fece soprassaltare gli animali e il padre, che senza indugio si precipitò a vedere cosa mai fosse successo.
Quando il poveretto vide un uomo in casa, divenne un “cifiru” e
 
cominciò ad imprecare contro la figlia ed a minacciare l’intruso, che era venuto ad insidiarne la virtù.
E chissà cosa sarebbe potuto succedere, se Gino non avesse deciso di palesarsi e farsi riconoscere, rimettendo in riga con la sola presenza l’incauto genitore, al quale non rimase che chiedergli umilmente scusa, “ ah, lei è signor Delporto? M’ avi a scusari…m’avi a pirdunari. Cu si lu putìa fiurari un onuri di chistu ‘nta me casa? E tu, svinturata”, rivolto all’incredula figlia, “ pirchì nun mu dicisti cu c’era?”
Infine, con l’agitazione che si può solo immaginare, chiamò la moglie, che non si era accorta di nulla, “ Prizzita, disgraziata; ma tu u sai cu c’è ‘nta nostra casa? U’ signor Delporto! susiti, svinturata, priparici u’ cafè…” Gino sorbì volentieri il caffè e volentieri perdonò.
Ma quelli che lo avevano sentito parlare ebbero qualche perplessità a credergli e…” cu è davanti?” chiese distrattamente Nino Giuffrida e, poiché nessuno rispondeva, fece accomodare sulla poltrona il reverendo.
Barba e capelli, per favore”, fece Silvestre accomodandosi e sperando in cuor suo di conoscere qualche novità da quello.
A parlare, però fu lui , perchè aveva sottovalutato che un barbiere con il rasoio alla gola di un altro era più bravo a far vuotare il sacco, di quanto non lo fosse lui stesso nel confessionale a chiedere i peccati del penitente.
Durante la lavatura dei capelli, si sentì dire, “ patri, avissi piaciri di farici ‘na bella frizioni, ca ci rinforza i capiddi…” La risposta fu immediata e acida, “ figghiu si dici accussì,
facimula sta frizioni; ma è piaciri to’, veru? E iu stu piaciri non ti lu puozzu livari. Facimula, ma un centesimu di chiù iu nun ti lu dugnu…”
 
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Il Generale dei Carabinieri e presidente del Casino dei Nobili , Peppino Platania, viveva con le sue anziane sorelle, che lo
 
accudivano come se fosse un principe.
Aveva l’ aplomb del suo ruolo in ogni circostanza. Garbato, manieroso, pulito; la sua conversazione era davvero molto gradevole.
Uomo tutto d’un pezzo, era arrivato in tarda età scapolo, poiché aveva trascorso gli anni della giovinezza e della prima maturità, volando da fiore in fiore. Sembrava soddisfatto della vita, ma non faceva mistero di vivere con il cruccio di non essersi sposato e di non potere godere le gioie della famiglia.
Quando il cruccio diventava sconforto, si lasciava andare a misurare a lunghi passi il pavimento di marmo a scacchi bianchi e neri del Casino; portava dietro la schiena le mani, si fermava di scatto, le riportava in avanti battendole e, con lo sguardo nel vuoto, si perdeva in un triste e malinconico, “ mah..”
Non appena si imbatteva con qualche socio, gli si parava davanti, come se avesse qualcosa di molto importante da dirgli. Lo guardava dritto negli occhi e batteva nuovamente le mani esclamando, “ allora per morire, Cleopatra che fe’? Prese un aspide, una specie di capitone dei nostri giorni” ( qui univa i polpastrelli delle mani, facendoli roteare e allontanare come se dipanasse una matassa, per dare l’idea del capitone) “e si fece pungere anbo i seni; ambo…perchè erano due!” e mostrava l’indice e il medio della mano destra.
La povera Cleopatra la nominava spesso, anche perchè, questo malvezzo se lo trascinava da anni; da quando era giovane capitano a Verona.
A Verona, era entrato in amicizia con il Comandante e con la di lui moglie , entrambi oltremodo “disinvolti”, che si erano dati molto da fare in quella città, di modo che in un momento di maggiore euforia si sentì confidare, “ Peppino, tra me e mia moglie ci siamo portati tutta Verona a letto!”.
Ma neppure Peppino stava a guardare e si lasciò andare a diverse esperienze amorose che, poco alla volta, lo allontarono dall’idea del matrimonio, di cui cominciava ad avere quasi paura.
Gli amici, tuttavia, non si davano per vinti e, ad ogni piè
 
sospinto, gli presentavano belle donne, che pensavano avrebbero potuto fargli mettere la testa a partito.
Tano di Valentino ed un avvocato di origine leonfortese avevano conosciuto una bella professoressa modenese, un po’ attempata, che sembrava potesse essere la persona adatta all’ ormai maturo amico; anche perchè, la donna era di aspetto piacevole, buona conversatrice e in più ( zucchero non guasta bevanda) proprietaria di diversi appartamenti, di ciliegieti, frutteti ed erede unica di una aristocratica famiglia.
Ne parlarono con Peppino, facendogliela osservare da lontano e decrivendone le caratteristiche personali ed il copiscuo patrimonio; Peppino parve gradire, per cui si diedero subito da fare, per interessare la professoressa. Anche quella parve non dispiacersi.
Fu, quindi, fissato a casa di lei un appuntamento, al quale accompagnarono quello che sarebbe potuto essere il promesso sposo, che si fece precedere da una bella corbeille di rose rosse.
Tutto sembrava andare per il meglio sino a quando, procedendo alle presentazioni, la donna non scandì il suo nome,
Cleopatra!”….Peppino rimase ancora un po’ soltanto per buona educazione, ma di matrimonio non se ne parlò più.
Quella sera, dopo l’incontro con le gentildonne, patrocinato da donna Raziedda Celso, era previsto un te’ danzante, a cui avrebbe partecipato lo stesso don Silvestre, le signore e i soci del Casino, tutti elegantemente vestiti.
Il nostro Presidente indossava uno smoking elegantissimo, che gli era stato cucito su misura da don Angilinu Castiglione Fimminedda ed a vederlo con la gardenia all’occhiello sembrava l’uomo in frack di Domenico Modugno.
Nel corso della serata, tra una pausa e l’altra dell’orchestrina, alcune amiche lo attorniavano, chiedendogli di raccontare le sue famose barzellette e lui le accontentava; ma ad un tratto si incupì ed espresse, quasi con le lacrime agli occhi, il rammarico per non essersi sposato.
Al che, cercando di consolarlo, la bellissima e simpaticissima
 
Lilia volle rincuorarlo, “ Generale, chi ci voli fari? Facissi cuntu ca si maritau e ca arristau viduvu e senza figghi!” e poi, continuava, sarebbe bastato che lo avesse voluto e avrebbe potuto ancora trovare una donna adatta a lui.
Ma che cosa mai intendeva Lilia? Una donna della sua età? Lui giovane la voleva; non doveva avere più di trent’anni.
“ Ma chi dici, Generali? ‘na carusa nun ci resta agni agni ( tra le ganasce)?” ribatteva Lilia. Il Presidente replicò che era certamente vero; ma che, per favore, riflettessero un po’, “ è meglio un intero pane duro solo per te, oppure una sola fetta di una bella torta e il resto lo mangi chi vuole?” Non c’era nulla da riflettere, “miegghiu ‘na fidduzza di torta e u’ restu, cu sa mangia, sa mangia!”
 
( I fatti narrati ed i personaggi nominati sono in larghissima parte veri)