di Salvo La Porta

A Luigi Amicone,

della cui preziosa amicizia troppo presto siamo privati

salvo.

 

 
Carmelina Trillei e suo marito Arturo Palermo erano un concentrato doppio di astio rancoroso, adagiato su un letto di taccagneria parossistica.
La professoressa era scontrosa, permalosa, suscettibile, invidiosa, pettegola, intrigante…acida. Le era rimasto proprio sullo stomaco il matrimonio con quel marito che, come ultima spiaggia, era stata costretta a sposare, dopo una gioventù disinvoltamente trascorsa ad amoreggiare con i più bei partiti del paese.
Come se non bastasse, aveva dovuto scendere con quel matrimonio almeno due scalini della scala sociale leonfortese e, per di più, Arturo non era bello anzi, diciamolo pure, era proprio bruttino…brutto.
Calvo, claudicante e con quel maledettissimo vizio di darsi un tono nel sottolineare la presunta importanza delle sue frasi con la ripetizione delle ultime due parole, accompagnandole con il risucchio della lingua sul palato.
Dal canto suo, Arturo non riusciva a passare sopra alla supponenza della moglie, che con la sola presenza gli ricordava ( rinfacciandogliele, seppure in silenzio) le umili origini, da cui proveniva.
Quelle umili origini lo tormentavano e ricorreva agli espedienti anche più meschini, pur di nasconderle o farle dimenticare.
Una volta, giunse spudoratamente persino a ripudiare il
 
padre, che si era tolto il pane di bocca per lui, presentandolo ad alcuni amici forestieri come uno dei suoi uomini di fatica.
Nei confronti degli stessi Lo Sicco, che generosamente lo avevano fatto studiare e che lo trattavano come un figlio, nutriva una specie di perverso risentimento, mascherato da devota gratitudine.
Don Silvestre lo aveva capito e lo diceva spesso ai suoi gentitori, “ chiddu è cani , ca nun canusci patruni…un mulu fauzu è!”
 
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Un mulo “fauzu” è una tragedia per il proprietario, che vede irrimediabilemente compromessa gran parte del proprio lavoro e la vita stessa sua e dei familiari in pericolo.
Per chi non la conosce, la bestia si presenta addirittura mansueta, quasi desiderosa di una carezzina, con gli occhi languidi, che muovono a pietà il padrone che ne carica la groppa; ma quando questi, sprovvedutamente, le si avvicina per dargliela quella carezzina, ecco che è pronta a spalancare la bocca e ad uscire i larghi denti, per addentare la mano che le si era avvicinata, per carezzarla.
Se capita, inoltre, che sempre sprovvedutamente qualcuno gli si metta dietro, il mulu fauzu all’improvviso scalcia con le zampe posteriori, per colpire con tutte le sue forze il malcapitato che, magari, si apprestava a dargli da mangiare; non diciamo delle enormi difficoltà che il poveretto incontra, quando vorrebbe ancorargli il basto, per potere caricare la soma.
Per questi motivi, chi possiede un mulu fauzu non vede l’ora di liberarsene, anche regalandolo se non dovesse trovare qualcuno disposto a pagare una seppure minima somma di denaro,p ovvero non potesse procedere ad un qualsivoglia baratto per quello conveniente.
Alla fiera del bestiame, se il padrone era onesto lo legava al palo e diceva chiaramente al compratore dei vizi del suo animale.
 
Se, invece, era un po’ spregiudicato ( e capitava spesso) somministrava un calmante al mulo, che all’incauto acquirente appariva robusto e mansu.
Ma il più delle volte, la magagna veniva scoperta e se non voleva reazioni violente il venditore disonesto voltava le spalle al probabile compratore e gli porgeva da dietro la schiena la mano destra aperta, perchè quello vi posasse la somma che ritenesse più opportuna (anche minima), per impossessarsi della bestia.
Tanto valeva un mulu fauzu e…tanto valeva Arturo, per don Silvestre, nemmeno un soldo bucato. Lo rispettava e pregava per lui, perchè era un figlio di Dio, un cristiano; ma niente di più!
Vossa mi cridi, mamà”, confidava alla mamma “ capaci di tuttu è!”
 
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Aveva dei buoni motivi il religioso, per avere un’opinione non certo lusinghiera di Arturo Palermo. Oltre a conoscerlo da quando erano ragazzi, aveva avuto modo di osservare il suo comportamento e quello della di lui moglie nella qualità di padre spirituale del Terzo Ordine Domenicano, del quale entrambi facevano parte.
Era il classico tipo ( ce ne sono tanti) che, una volta ottenuto un favore reiteramente e pietosamente implorato, faceva di tutto per dimostrare prima a se stesso, poi alla moglie ed, infine, al benefattore e al mondo intero che quel favore gli era stato spacciato come tale ma che, in realtà, si trattava di un suo preciso diritto. Un ingrato!
Quando, sempre insieme alla moglie, partecipava ad un rinfresco organizzato nei saloni del convento a spese dei terziari, non solo trovava sempre un buon motivo per non sborsare neppure un centesimo ma, come un abile prestigiatore faceva sparire pezzi di tavola calda e dolcini che andava a depositare nell’ampia borsa della complice Carmelina.
Silvestre stesso lo aveva scoperto al momento della questua
 
della Messa domenicale a depositare un vecchio bottone di metallo nel sacchetto delle elemosine.
Per non dire, infine, del bel servizio che sempre insieme alla moglie gli aveva fatto, costringendolo ad abbandonare l’ Ordine domenicano.
Don Peppino e donna Sarina, però, troppo buoni erano e si affannavano a convincere il figlio che, forse, era troppo severo nei confronti degli amici catanesi, magari a causa della cattiva azione che aveva ricevuto. Ma buoni erano e non sciocchi….
Per dare una sistematina alla diruta casetta al limitare delle terre dei Lo Sicco, Arturo Palermo aveva ingaggiato una piccola squadra di operai, che ogni mattina costringeva al lavoro, succhiandone anche il sangue.
Quando giungeva l’ora di prendersi un muzzicuni e riprendere un po’ di fiato, Carmelina si presentava con le gerle piene di pane, formaggio, uova sode, olive e bottiglioni di vino, che i suoi ospiti avevano munificamente messe a loro disposizione.
Il vino era sempre abbondantemente battezzato con l’acqua del pozzo e una buona scorta di quel ben di Dio era messa da parte, prima che la donna approntasse la mensa ( sulla quale troneggiava una gran quantità di cipolle crude, qualche oliva nera e alcune fette di formaggio) e augurasse il buon appetito, per tornare alle case dei Lo Sicco.
A tavola, un giorno, tra Arturo ed uno degli operai, sedeva un ragazzino, Pippinieddu figlio di questi, che sembrava incantato dalle melliflue parole dell’uomo, che si affannava con un italiano affettato a proclamare l’apoteosi della cipolla contro il formaggio.
“ Vedi, Peppinello, tu non immagini neppure quanto faccia bene la cipolla, quanto faccia bene, faccia…non immagini”
( diceva con subdola confidenza all’ingenuo bambino mentre afferrava un pezzo cipolla, addentandola quasi voluttuosamente) “ la cipolla ha mille buone qualità e fa crecere sani e robusti, sani e robusti fa crescere; il formaggio, invece. ”
Non aveva ancora finito di parlare che Pippiniedu,
 
entusiasticamente convinto da quelle parole, stava per afferrare un pezzo di cipolla, per portarla alla bocca.
Ma il padre rimaneva vigile sul suo comportamento e,
maleducato” lo apostrofò, accompagnando la rampogna con un sonoro suttamussu (malrovescio) e facendogliela cadere dalle mani, “ non hai capito che la cipolla piace tanto a don Arturo? Tu mangia il formaggio e la cipolla lasciala a lui!”
“ Vossa scusa, don Arturu, carusi su’ ”, concluse con l’aria di chi la sa più lunga del suo interlocutore.