di Salvo La Porta
Al dilettissimo Popolo Leonfortese,
perché possa conoscere e ricordare personaggi veri e fatti reali,
seppure per le esigenze della modesta narrativa rimaneggiati,
della nostra amata Leonforte.
Soltanto questo posso darGli;
questo con tutto il cuore Gli dono.
Che cos’era mai quel gran vociare alle cinque del mattino a Milocca? Ci sono i carabinieri, gli fu detto.
“I carabinieri?” si chiese don Silvestre, facendosi il segno della croce, “ e che diavolo ci sono venuti a fare i carabinieri, qui a Milocca? ” continuò, segnandosi ancora ed allo stesso tempo arrossendo in cuor suo, per avere chiamato in causa l’antico nemico.
Il solo modo di conoscere il motivo di quella non certo piacevole visita mattutina era scendere giù e chiedere spiegazioni agli uomini della Benemerita che, nel frattempo, erano stati invitati dal padre a bere una tazzina di caffè.
Si vestì come meglio poté fare con quella maledetta fretta, scese le scale a ruzzoloni e, in men che non si dica, si rivestì di tutta la calma che era riuscito a trovarsi dentro, salutò e sedette insieme ai due militari ai quali, dopo i complimenti di rito, si affrettò a chiedere “ farisaicamente” il perché di quella “graditissima” visita.
“ Ci dispiace”, fece il maresciallo Pirrè, “ doverla disturbare a quest’ora del mattino…ma la cerchiamo…la cerchiamo, perché qualche ora fa abbiamo portato in caserma insieme ad altri facinorosi don Antonino Giuseppe La Greca, per avere preso parte ieri sera ad una riunione clandestina, i cui partecipanti si propongono la ricostituzione del disciolto Partito Nazionale Fascista.”
“ Don La Greca?” sobbalzò Silvestre, “ e quando si sarebbe tenuta questa riunione? “
“Ieri sera, dalle 18 alle 20”, rispose il maresciallo, “al Bar di Filippo Drago, di fronte al Casino dei Nobili”.
La replica del sacerdote fu prontissima, “ impossibile; a quell’ora, don La Greca era in mia compagnia presso la chiesa della Mercede e, poiché non è stato ancora fatto santo e non può avere il dono dell’ ubiquità, non si poteva trovare in alcun altro posto.”
“ E’ ciò che afferma il padre”, sentenziò sollevato il carabiniere, rivolgendo uno sguardo d’intesa all’appuntato che lo accompagnava e, dopo avere proceduto ai “distinti saluti”, si mosse per andare a liberare il malcapitato.
Don Antonino Giuseppe La Greca era stato, durante il deprecato ventennio, un fascista di ferro ed aveva persino ricoperto la carica di cappellano della G I L, Gioventù Italiana del Littorio.
Aveva pagato molto cara questa sua appartenenza al regime; cara…tanto cara da essersi giocato la possibilità di essere fatto Arciprete, dovendosi accontentare di essere nominato Parroco della Parrocchia più prestigiosa di Leonforte, Santo Stefano Protomartire alle anime del Purgatorio.
I suoi trascorsi non gli impedirono, tuttavia, di potere insegnare Religione Cattolica prima al Ginnasio Angelo Majorana, quindi al Liceo- Ginnasio Nunzio Vaccalluzzo di Leonforte, dove si distinse per la profondità della cultura e per la causticità delle battute.
Tutti i professori, è noto, sono da sempre oggetto di scherno e, a volte, anche di scherzi pesanti da parte degli allievi; ma nei confronti del vecchio fascista gli scherzi erano diventati veramente…“ da prete”.
Lui non se ne faceva un cruccio e, in fondo, era riuscito a mantenere un buon rapporto con i suoi studenti, i quali avevano anche imparato a volergli bene, tanto da averlo simpaticamente soprannominato “ patri efungidda” e da prestarsi a rendergli qualche servizio, ma sempre pronti a tirargli qualche tiro mancino.
Incaricati, una volta, di andare a prelevare alcune sue analisi di laboratorio, ebbero l’ardire di manometterne il referto, facendo risultare il prete-professore in stato di avanzata gravidanza.
Ma lui non era di meno. A Benedetto Rubino che, durante una lezione di religione, protestava animatamente di non credere ai miracoli, ribatté candidamente, “ scusami, Benedetto, che classe stai frequentando?”
“ Il quarto ginnasio”, proclamò orgogliosamente quello. “ Scusami ancora”, continuò con simpatica perfidia, “ non ti sembra un miracolo questo?”
Ma com’era andato a finire in caserma don La Greca?
Se con la caduta del regime molti fascisti si ritrovarono ad essere “antifascisti” della prima ora, vi furono molti antifascisti che, morto il Duce, si ritrovarono ad essere fascisti, tanto fascisti da cercare di ricostituire il P N F.
A Leonforte, si riunivano costoro (silenzioso complice il proprietario) al bar di Filippo Drago,“ u’ buffu”.
Erano per lo più giovani liceali e universitari e tra questi anche un aitante seminarista, don Angelo Lo Gioco ( tanto ardito da sapere ammansire una giumenta senza le redini e senza la sella), che non faceva mistero delle sue simpatie politiche.
La sera del “fattaccio”, l’ informatore ( che non doveva essere leonfortese), andando a delazionare ai Carabinieri, segnalò la presenza di tutti, sottolineando che tra di loro c’era anche un giovane sacerdote.
Accadde, però, che don Lo Gioco non risultasse essere ancora sacerdote, mentre don La Greca era ancora abbastanza giovane e dichiaratamente fascista; motivo per cui, i militari dell’ Arma ( di notti e notti) si affrettarono ad andare per arrestare quest’ultimo, mentre tutti gli altri provvidenzialmente a loro volta informati, riuscivano a darsi alla clandestinità.
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Rasserenato, compiaciuto e nel contempo divertito, per il buon esito della vicenda, che aveva coinvolto il confratello, don Silvestre bussò alla porta di casa di don Antonino, che sorgeva alla sinistra del piccolo piano antistante la salita della Mercè.
Gli aprì la sorella Tina ( il quadro spiccicato di padre La Greca al femminile), che lo fece accomodare nel salottino al primo piano e gli raccontò per filo e per segno le vicissitudini sofferte la sera precedente, pregandolo di parlare a bassa voce (ma la voce Silvestre l’aveva già fioca di suo), perché il fratello era riuscito finalmente a prendere sonno.
Nonostante, però, il tono della conversazione fosse mantenuto basso, il povero prete dovette interrompere uno dei sogni più coinvolgenti, che avesse mai fatto e si svegliò, proprio nel più bello, proprio mentre si apprestava ad entrare in Chiesa Madre con i paramenti episcopali e ( accolto dal canto dell’ Ecce Sacerdos Magnus eseguito in suo onore) con il pollice, l’indice e il medio della mano destra alzati benediceva i fedeli.
Non fu il migliore dei risvegli; tuttavia, fu felice di realizzare di non essere più ostaggio dei carabinieri e di trovarsi finalmente a casa sua, dove era venuto a fargli visita un amico sincero. Gran bella cosa la libertà!
La visita di Silvestre fu carica di commozione, ma breve; doveva ancora passare dalla Mercede, recarsi a San Giuseppe e, infine, passare dai Padri Cappuccini.
Per arrivare prima al convento, decise di tagliare dal Piano Parano e salire la scalinata di trentatré scalini ( tanti quanti sono gli anni di Cristo).
Sul piano in terra battuta, vide un contadino che cercava di alleviare il mal di pancia della sua mula, facendola girare “ tunnu.tunnu”, ed ai piedi della grande Croce di pietra un gruppetto di monelli, i quali avevano catturato degli uccellini, che si divertivano a seviziare, sotto lo sguardo addolorato e attonito di un giovane, che sembrava molto più grande della sua età, Calogerino Drago.
I ragazzacci avevano intuito quanto grande fosse la sensibilità di quell’ uomo ed avevano imparato (capita spesso) a lucrare sulla sua bontà d’animo, vendendogli a caro prezzo i piccoli volatili, che lui poi restituiva alla vita e alla libertà, perché fossero liberi loro, visto che lui non poteva esserlo!
La sua vita trascorreva tra l’agiata casa paterna e la ricchissima biblioteca, sui libri della quale ci aveva perso quasi la vista e dove sarebbe morto a soli trentasette anni.
Chi lo aveva conosciuto non riusciva a dare una descrizione precisa sul suo aspetto fisico. Sarebbe potuto essere forse anche un bel ragazzo; certamente, non era felice ed il padre (di certo) dopo tre femmine non era entusiasta di questo suo unico figlio maschio, che avrebbe voluto erede del suo avviatissimo negozio di tessuti a due luci, sul corso Umberto e di fronte al Circolo degli Operai.
Il cavaliere Luigi Drago (don Luigi Pupi-Pupi, come lo chiamavano i leonfortesi, che lo ricordavano ancora giovanottino saltellare come un grillo, per imbonire alla gente i suoi fazzoletti stampigliati con i pupi) doveva la sua immensa fortuna al terremoto di Messina del 1908.
Aveva, infatti, acquistato a credito dai grossisti di quella città una grossissima quantità di biancheria, tessuti e broccati, che aveva forse già disperato di potere pagare se provvidenzialmente per lui ( questa è la vita ) non fosse intervenuto il terremoto a saldare ogni debito con i creditori ormai introvabili.
L’improvvisa ricchezza, però, e la conseguente nomina a cavaliere non gli fece montare la testa e rimase sempre don Luigi Pupi-Pupi, a ricordo di quel giovane che nelle traverse e nei cortili del paese saltellando, vanniava i suoi fazzoletti “cu li pupi”.
Era uno dei parrocchiani più facoltosi di don Silvestre e non se lo faceva dire due volte, quando c’era da sborsare denaro.
Nella chiesa di san Giuseppe, tutto a sue spese, fece affrescare e chiudere con un’artistica cancellata in ferro battuto la cappelletta, posta alla destra di chi entra, che ospita il fonte battesimale.
Nel commercio era abilissimo ed era capace di ricavare il massimo del guadagno, facendo uscire sempre felici e contenti i clienti dal suo negozio.
Garbato, pulito, manieroso…un vero signore. Ma (con tutto il rispetto) sempre commerciante era e, quando poteva, si divertiva a fare leva sulla sciocca vanità della gente.
Alle signore più stufficusi, sconsideratamente vanitose, riusciva a vendere a prezzi esorbitanti lo stesso scialle di seta, che alle persone più semplici vendeva a prezzo modesto; gli bastava mettere sulla targhetta attaccata al manufatto un timbro, per fare credere a quelle sciocche che si trattava di una seta particolare e…il gioco era fatto.
Non aveva concorrenti praticamente; no, non ne aveva.
Tranne una. Una ragazza dagli occhi vispi e furbetti dalla parlata catanese, Santina Innico ‘a Puntinara che, avendo scoperto il trucco, di timbri sulla targhetta dello scialle che quelle sciollire (svampite) attentamente esaminavano, ne metteva due, facendo di colpo diventare il suo tessuto ancora più prezioso di quello dello zio Luigi.
Ma nel mercanteggiare era davvero impareggiabile e divertente. Una donna andò in negozio, per acquistare una camicia ed un paio di mutande, trecento lire sarebbe costata la camicia, duecento le mutande, per un totale di cinquecento lire.
Alla cliente, come sempre, il prezzo parve caro, per cui chiese uno sconto a don Luigi, che tosto si alzò dalla predella su cui era sistemata la cassa e si avvicinò al bancone.
Esaminò bene la roba e rivolto alla donna, “ hai ragione” le disse, “facciamo uno sconticino sulle mutande, te le do per centocinquanta lire, dammi cinquecento lire e… sfardari e maggiurari ( che tu possa consumare la roba in salute e acquistarne sempre di migliore)”.
Soddisfatta, la donna stava per pagare, quando facendosi bene i conti, capì che non c’era stato nessuno sconto e, “ don Lui’, ah vossia daveru spiertu (furbo) è; accussì m’acchiana ‘a cammisa e mi cala i mutanni (mi sale la camicia e mi abbassa le mutande)”.
Don Luigi incassò il denaro divertito come tutti i presenti e, per farsi perdonare, regalò alla donna sei fazzoletti cu’ li pupi.