di Salvo La Porta 

Ai miei amatissimi amici della Gioventù Francescana,

presso il Convento dei Buoni Padri Cappuccini in Leonforte.

 

Edoardo, figlio del Sindaco, era un ragazzo serio e distinto. Pulito, affettuoso, premuroso con chi avesse bisogno di essere aiutato, religioso, apparteneva ad una famiglia molto conosciuta e rispettata in paese, che viveva nei pressi della piazza Margherita.
Terziario francescano, frequentava assiduamente la chiesa e il convento dei Cappuccini, dai quali era tenuto nella massima considerazione, in virtù della sua sincera devozione al serafico padre San Francesco e della pietà cristiana in maniera tanto esemplare esercitata.
Aveva fatto suo il detto “servire Dio in letizia” ed aveva creato un bel gruppo di giovani che, attratti dagli ideali francescani, si incontravano tutti i pomeriggi sino a sera inoltrata.
Si riunivano, d’ inverno in alcune stanzette adiacenti alla chiesa e quando il clima era buono, nel chiostro quadrato del convento ( al cui centro, troneggiava e troneggia una cisterna), o nel giardinetto, che si affaccia sulla selva dei frati, dai fianchi della quale si domina la strada per Villadoro, che i contadini di ritorno dal lavoro dei campi, percorrevano a piedi o, i più fortunati, a dorso di asini e muli.
All’imbrunire, gli ineffabili giovani, coordinati ( ma in questo caso sarebbe meglio dire capeggiati) da Edoardo, si piazzavano nei punti più strategici della selva, da dove avevano scoperto che più agevolmente avrebbero potuto controllare il passaggio dei poveri e ignari villani che, stanchi morti e dopo una giornata di duro lavoro, si affrettavano a fare ritorno alle loro povere case.
Al suono della piccola e unica campana della chiesa, che annunziava l’Ave Maria e dopo una frettolosa recita dell’Angelus, la loro “letizia francescana” si trasformava tosto in una pruriginosa e contagiosa allegria, che li rivestiva del nobilissimo ruolo di eroici difensori di un fortino, pericolosamente assediato da quella villica orda che, a ranghi sparsi, si apprestava a inesorabilmente circondarli.
Ciascuno tacitamente andava ad occupare il suo posto e si armava di consistenti bombe di zolle di terra, che quando il malcapitato assediante veniva a perfetto tiro gli lanciava contro senza mai sbagliare bersaglio e dolorosamente colpendolo al grido di “Pace e Bene”.
Non volendoci dilungare sulle reazioni di quegli ingrati, che volevano a tutti i costi espugnare il fortino del Convento, così strenuamente difeso da quei valorosi giovani, ci limiteremo a dire che il grido era rimandato indietro rabbiosamente ai mittenti, chiamandone in causa i parenti più stretti, a cominciare dalle madri,“ ehi, figghiu di buttigghia!!!!!”
Don Silvestre, Arciprete ff (facente funzioni), fu prontamente informato dei fatti e con altrettanta prontezza ne rese edotto il Padre Guardiano, che convocò la lieta brigata (che si era trasformata in una oltremodo allegra combriccola) ed invitò gli impavidi guerrieri a desistere da quelle iniziative, rassicurandoli che i frati all’occorrenza si sarebbero saputi difendere da sé.
Conclusasi gioco forza quella missione, Edoardo con la coadiuvazione di pochi fedelissimi, si dedicò anima e corpo a mettere a dura prova la pazienza di molte persone, al fine di favorirne il migliore percorso per il raggiungimento della santità.
C’era la pessima abitudine di depositare le immondizie agli angoli delle strade ( c’era….), che al tramonto rimanevano al buio o scarsamente illuminate da una fioca lampada, spesso inesorabilmente rotta da un amante clandestino alla ricerca di un raro e fugace attimo di intimità con la sua innamorata, accontentandosi di poterla solo vedere e al massimo parlarle, quando a un segnale convenuto quella riusciva ad affacciarsi alla finestra.
Le immondizie diventavano presto un cumulo consistente, un burgiu, che assumeva il nome di fumieri, quando qualche esasperato cittadino lo faceva prendere a fuoco (faceva…), da cui emanava un nauseante fetore, accompagnato da un filo di fumo.
Solo di tanto in tanto, non molto di frequente, il Comune provvedeva a fare conferire i rifiuti in un vallone denominato “vauzu”, nella rassegnata e dolorosa attesa che altri se ne accumulassero presto.
Per di più, asini, muli, maiali e….alcuni incontinenti personaggi lasciavano sulle strade le loro evacuazioni; mentre, addossati alle case e legati alla meno peggio, i carrettieri lasciavano i carretti, con i quali la mattina seguente avrebbero ripreso il loro lavoro.
Ebbene, Edoardo ed i suoi fedelissimi andavano a spalmare quegli escrementi sui manici di quei carretti, che i lavoratori alle prime ore dell’alba sarebbero andati ad impugnare.
Dopo avere pensato agli altri, il bravo giovine rivolgeva la sua premura alle signore e signorine, che la sera si riunivano per la recita del Rosario a casa sua, sotto la guida della zia.
Una principalmente gli stava a cuore; una signorina guercia, sempre agghindata e profumata che, cantando come una “passerella”, alla fine della preghiera deliziava i presenti con la sua voce. Sedeva sempre all’inizio del semicerchio, volgendo l’occhio offeso alle altre; motivo per cui, quando si rivolgeva ad una delle amiche, che le stavano accanto, era costretta a ruotare il capo di centottanta gradi, per poterla guardare meglio in faccia.
Aveva Edoardo dato l’incarico di fare da sentinella al più fidato e svelto dei suoi amici, che lo avrebbe avvertito non appena vedeva la sagoma della “Passerella”, perché lui potesse procedere a compiere la sua missione.
Prima ancora che la signorina spuntasse, l’amico complice ne sentì l’odore del profumo “ Mio Sogno” e diede il segnale.
Immediatamente, quindi, si mise a spalmare sui battenti di ferro del portoncino gli escrementi più freschi, che aveva trovato, su cui la poveretta sarebbe andata per battere, perché le aprissero…..altro che “ Mio Sogno!”
La sua sollecitudine si posò persino su Gaetano Mitollo, al secolo Gaetano Ribulotta sposato con la signora Marianna Scavuzzo, insieme alla quale avevano prelevato con i risparmi accumulati in America un negozietto, all’angolo tra il Corso Umberto e il lato destro della via Cavallotti; proprio accanto al panificio di Marciante.
Quando si parlava di uno dei due, subito si nominava anche l’altro; per cui, quella parte del Corso era la zona di “Marciante e Mitollo” o di “Mitollo e Marciante”.
Trascorreva Mitollo nelle giornate di sole il suo tempo davanti alla sua bottega, affidando il servizio dei clienti alla moglie, che aveva una vocina con la cantilena tipica delle donne giapponesi del tipo di Madama Butterfly.
Era sempre rubicondo, come se si fosse appena scolato un bicchiere di vino, e difficilmente scendeva il gradino del marciapiede del negozio, fermandosi volentieri a chiacchierare con avventori e passanti, le cui parole assumeva con la massima serietà, credendoci o fingendo di crederci e meritandosi la nomea di credulone, per cui ancora oggi, quando qualcuno la spara proprio grossa, gli si ribatte, “ se, se…va’ cuntila a Mitollu”.
Quando non aveva clienti, la signora Mariannina si dilettava ad ascoltare la “serenata di Sirbestru”, che un settantotto giri gracchiava da una delle poche macchine parlanti, che c’erano a Leonforte e che loro avevano portato dagli Stati Uniti e che avevano collocato sul bancone di vendita, dietro al quale campeggiavano i ritratti di un uomo disperato, smunto, con i capelli scompigliati e sommerso dalle cambiali e di un altro ben vestito, dal taschino del cui panciotto pendeva una grossa catena d’oro, che andava a finire su un elegante orologio anch’esso d’oro.
Il primo voleva raffigurare il commerciante che vende a credito, il secondo quello che vende in contanti…e Mitollo vendeva solo in contanti; tranne una volta, quando un cliente molto facoltoso, dopo avere patteggiato il prezzo di un berretto, si accorse di non avere con sé il portafoglio e stava per andarsene e Mitollo, ca s’attruvau pazzu, lo pregò che se lo portasse il berretto e che poi avrebbe pagato con comodo.
Accadde, però, che durante la notte improvvisamente il facoltoso cliente morì, lasciando nella costernazione non solo i parenti, ma anche il commerciante, che non ci pensò su due volte ad andarsi a riprendere il berretto che, intanto, i dolenti avevano sistemato sul cuscino, su cui poggiava la testa del defunto.
La notizia del fatto fece il giro dell’intero paese, sino a giungere alle orecchie di Edoardo, che decise su due piedi di dargliela una lezione a quello sprovveduto bottegaio.
Don Gaetà, buongiorno. Sto andando ai Cappuccini e devo fare prima alcune commissioni. Le dispiace se le lascio in custodia questo pacchettino? Ripasso nel pomeriggio” e così dicendo consegnò a Mitollo (felice di potere fare una cortesia che non gli costava un centesimo) un pacchettino ben elegantemente confezionato, che presumeva contenesse qualcosa di valore.
Il pomeriggio, tuttavia, Edoardo andò ai Cappuccini salendo dalla scalinata e per quasi una settimana evitò di passare dal negozio di Mitollo, la cui moglie Mariannina cominciava ad avvertire uno strano odore. Strano, strano davvero; come se provenisse dal pacchettino tanto elegantemente confezionato.
Finalmente, quando l’odore divenne puzza conclamata, chiamò il marito ed insieme decisero una buona volta di aprirlo quel benedetto pacchettino, visto che Edoardo non si era più fatto vivo.
Lo aprirono e…..non vi dico per pudore cosa vi trovarono; ma lo lascio immaginare.
Com’era prevedibile, a fare le immediate spese della puzzolente scoperta fu Mitollo, accusato dalla moglie di essere uno sciocco sprovveduto, con il quale tutti potevano impunemente e pesantemente scherzare.
In tutti i modi quello cercava di calmarla, ma non ce n’era verso; era un cretino e basta.
“ Dobbiamo dirlo al Sindaco ed anche a don Silvestre”, convennero, “ L’anu a sapiri cu è Eduardu…unu ca ama a Diu e futti u prossimu”.
Come se fossero stati chiamati i due si presentarono insieme ed insieme furono investiti dalle proteste di marito e moglie.
Il Sindaco si disse umiliato, promettendo che avrebbe inferto al figlio un’esemplare punizione e don Silvestre assicurò che ne avrebbe parlato con il padre Guardiano, cercando di minimizzare entrambi che, alla fine, “ carusi su”…
A riportare un po’ di calma, entrò una signora che chiese di acquistare un paio di guanti; Mariannina glieli fece vedere, spifferandole subito il prezzo, a sentire il quale la donna chiese un piccolo sconto.
“ Cara Signora, mi dispiace.” fu la risposta “Ma sconti qui non se ne fanno. Siamo come in America. Neppure un soldo le posso togliere” e con la sua voce da giapponesina concluse con un sospiro, “ a ciondu a ciondu, si fanu i liri…a lira a lira, si fanu i ciondi”.