di Davide Maurizi

Per un leonfortese come me, che ha frequentato le elementari, le medie e le superiori esclusivamente all’interno del feudo di Tavi, andare a vivere a Catania è stato il primo scontro con l’alterità. Ti rendi conto che il tuo background culturale non è condiviso da tutti, che al di fuori di Leonforte le persone parlano in modo diverso, pensano in modo diverso, si divertono in modo diverso. In particolare me ne sono reso conto quando dovevo scegliere, con i miei amici catanesi, un gioco alcolico. Per me quella domanda aveva una risposta scontata: “Beh, giochiamo al tocco!” “E che cos’è il tocco?”.

Nonostante abbia provato a spiegarglielo (nella versione “o puntu”), ai miei amici è sembrato un gioco inutilmente complicato. Non capivano perché alle carte fossero assegnati quegli strani punteggi, avevano bisogno della calcolatrice per giocare e non avvertivano quella sensazione di potere mista a soddisfazione di una batosta.

Dopo un giro confuso e privo di emozioni, ci ho rinunciato. Abbiamo quindi giocato al gioco del drago, una variante del gioco dell’oca che, a differenza del tocco, non è relegato alla cultura di un unico paese: una sorta di gioco alcolico globalizzato. Le regole erano semplici, abbiamo iniziato a giocare e quando ho ottenuto un “buon” punteggio cadendo su una casella “fortunata”, il gioco ha decretato che fosse l’avversario a bere. Come? Io vinco e beve l’altro? Quando è successo che “bere” è diventata una punizione?

Questa regola è sposata da altri giochi alcolici, come il beer pong, in cui se riesci a centrare il bicchiere con il pallino, è il tuo avversario a bere la birra.

Nel tocco invece “bere” è un premio. E questo gioco si intreccia strettamente a Leonforte e alla sua cultura, quel paese la cui colonna sonora è il fragoroso tintinnio delle Dreher vuote che cadono dentro il fustino della differenziata. Ma da dove proviene il “tocco”?

Dalle poche informazioni che sono riuscito a reperire da Internet, il tocco è fratellastro di Sutta e Patruni, un altro gioco alcolico praticato prevalentemente nella provincia di Messina; e figlio della Passatella, giocato invece nelle osterie a Roma, sia in quella antica che in quella papalina.

Tutti e tre i giochi hanno in comune la terminologia, come la definizione di uarmu per chi non beve: il termine uarmu deriva dall’Olmo, una pianta il cui ramo sottile veniva utilizzato per legare la vite, stando quindi a stretto contatto col vino senza poterne usufruire.

Ma ciò che più di tutti accomuna i giochi è la condizione sociale ed economica di chi lo praticava: la povertà. Tutti e tre venivano giocati nelle bettole o in altri luoghi “sporchi”, evitati dall’aristocrazia o dall’alta borghesia. “U tuaccu è un giuoco plebeo”: è questa la definizione che dà Antonino Traina nel suo vocabolario siciliano-italiano. Forse perché “ubriacarsi” è sempre stato considerato disdicevole dall’alta borghesia, forse per la puzza delle bettole, ma il tocco, assieme a Sutta e Patruni e la Passatella, è un gioco plebeo perché nello spazio che divide la prima mattina con l’ultima sera si crea una dimensione egualitaria. Intorno al tavolo non esistono più né dottori né operai, né avvocati né muratori, ma solamente uomini, desiderosi di un bicchiere. Le gerarchie sociali vengono appiattite e rifondate, il rapporto padrone/schiavo viene simulato ma rinnovato e possibilmente capovolto all’interno del gioco, permettendo al dipendente di batustiare il proprio direttore. Piccola chicca: il Papa Sisto V, preoccupato degli effetti della Passatella sui propri sudditi, decise di giocarci con i cardinali. Si racconta che il Papa venne lasciato uarmu, scatenando la sua ira.

Il tocco è lo specchio della società di oggi: nonostante tutti i giocatori inizino con le stesse possibilità, la spietatezza umana è la stessa del mondo al di fuori del tavolo. Chi è uarmu, soprattutto chi è uarmu a ssulu, non può contare nell’aiuto di un altro giocatore, ma deve “salvarsi solo”, rischiando di non bere per l’intera durata del gioco, beccandosi pure le beffe degli altri. In questa dimensione, dove è principalmente la fortuna a decidere chi comanda il giro e chi beve, diventa necessario farsi dei compagni. Il compagno ti aiuta, ti sostiene, ti dà da bere e ti salva dalle batoste, ma non va assolutamente batustiato, o mandato all’acqua. E questo non perché sia vietato da una regola scritta, ma perché il tocco si basa principalmente su norme non scritte, richiamando valori quali l’onore e il rispetto. Che siano condivisibili o meno, sono comunque valori, dei criteri puramente sociali che guidano le azioni dell’uomo. Infatti il tocco è una cosa profondamente umana, e si sottrae alla pura razionalità degli altri giochi di carte, dove un giocatore deve raggiungere uno scopo nella maniera più veloce e meno dispendiosa. Mi spiego meglio: nella briscola, nella scopa o a tressette il giocatore deve organizzare le proprie scelte per vincere, cercando di ottenere più punti possibile. Nel tocco, quando si ha un punteggio alto, basterebbe mostrarlo interamente per ottenere subito un bicchiere di birra. Sarebbe la scelta più veloce, la meno dispendiosa; e invece no, scegliamo di batustiare, di abbassare le carte una per volta illudendo l’avversario di bere. La batosta non viene conteggiata, non fa punteggio, ma la facciamo lo stesso: la facciamo per irridere l’altro, anche per disonorarlo, mentre noi proviamo quella strana sensazione di soddisfazione sbattendo la mano sul tavolo. Batustiare è quindi una questione prettamente di stile, che non ha una motivazione razionale, ma costituisce una rivendicazione artistica sulla grigia logica degli altri giochi di carte. Aiutare il compagno quando possibile, batustiare, evitare di alzarsi per andare a prendere la birra… sono tutte norme umane e irrazionali che non possono essere comprese da un’Intelligenza Artificiale, ma costituiscono lo scheletro di un gioco che, nel bene o nel male, è strettamente intrecciato con Leonforte e la sua cultura. Un fenomeno che, per quanto non se ne parli pubblicamente, è conosciuto da quasi tutti i paesani, che li accomuna e li rende unici in Sicilia e nel mondo.