di Salvo La Porta

Il Padre Guardiano dei Cappuccini, fra’ Bonaventura, aveva promosso una serie di conferenze, che avevano coinvolto la Gioventù Francescana ed il Terzo Ordine Regolare, sia maschile che femminile.
L’iniziativa fu molto apprezzata in paese e registrò la partecipazione entusiasta di gran parte della comunità leonfortese e non solo cattolica, ma anche laica.
Alla trattazione dei temi furono chiamati rinomati professionisti, che riuscivano ad interessare l’uditorio con argomentazioni appassionate e coinvolgenti, cui solitamente seguiva un lungo e vivace (sempre civile) dibattito.
Il bello di questi incontri era che non si parlava soltanto di religione. Non erano i soliti convegni, che sfioravano il bigottismo; anzi, venivano spesso trattate questioni di interesse generale e, addirittura, che investivano aspetti delicati della persona umana, quali la vita sessuale nell’età adolescenziale.
Proprio di questa spinosa materia fu chiamato a parlare il dottor Peppino Mancuso, papà del giovane Antonio, che si apprestava a diventare anche lui medico.
Com’era facile prevedere, nonostante il valente professionista si fosse sforzato di ricorrere ad una terminologia estremamente scientifica e delicata, il dibattito che seguì alla sua esposizione fu più vivace del solito e, a volte, condito da espressioni che, per usare un eufemismo, potremmo definire
“ garbatamente fiorite”, che il Padre Guardiano riusciva a fatica a riportare nel normale alveo, che il rispetto del luogo consigliava.
A chiusura del ciclo di lavori, il Parroco dell’Annunziata, che mai voleva essere da meno, promosse tre giorni di esercizi spirituali, che furono condotti da un giovane ed aitante Monsignore di estrazione domenicana, il quale asseriva di provenire dal Convento di Santa Maria Sottarco nei pressi di
 
Napoli, Monsignor Antonino Viberti.
Alto, di bell’aspetto, dall’eloquio appassionato e forbito, accattivante nei rapporti umani, sportivo, attraversava le vie e le piazze cittadine, fermandosi volentieri a discutere con tutti.
Elegante nel portamento, trovava sempre qualche pia donna pronta a lavare e stirare la talare (che si vedeva gli era stata confezionata su misura) in maniera civettuola sagomata ai fianchi, dai bottoncini della quale si intravedeva un rosso porpora, che ne evidenziava il ruolo prelatizio; scarpe nere rigorosamente tirate a lucido, calzini anch’essi rosso porpora e, per finire, il cappello nero da prete, cinto da un cordoncino verde, dal quale pendevano due “bon bon” pure verdi, che con l’agilità di un giocatore di basket lanciava (sempre andando a segno) sulla cappelliera della sagrestia.
Quando predicava, la chiesa era sempre piena di uomini, donne e ragazzi, che facevano la fila per confessarsi con lui e in considerazione della sua apertura mentale molti, che erano entrati solo per matrimoni e funerali, si erano decisi a fare il bucato dell’anima. Tra quelli, Gaetano Lavitola, Gaetano di Valentino e Giovannino Valentìa, che per il loro comportamento riconoscevano loro stessi di non essere “ sticchi di santi”…..
Come di regola, il Monsignore avrebbe dovuto prendere alloggio presso la canonica dell’Annunziata, ma in considerazione dell’ immediata individuazione di un’affinità elettiva con l’ Arciprete ff. e con padre Varano (con i quali aveva scoperto di condividere il particolare carisma della consolazione delle vedove), decise di posarsi al palazzotto dei Lo Sicco in corso Umberto.
Anche i giovani della Gi. Fra (Gioventù Francescana) partecipavano tutti con grande trasporto agli incontri di preghiera, anche perché con quel simpaticone avevano fatto amicizia e non temevano di raccontargli i loro segreti più intimi; praticamente, era diventato uno di loro, tanto che la sera, si davano appuntamento alla taverna di via Noto di proprietà di Peppino
 
Rapè, lontano parente di Agatina Rappè mamma del “figlioccio” di don Silvestre , al cui padre per un errore dell’Ufficiale
d’ Anagrafe era stata attribuita una “p” in più nel cognome.
Il soggiorno del giovane prelato si prolungò per più di un mese tra l’entusiasmo generale….fuorché di uno, di quel fascistone di Padre La Greca (Padre Efungidda), che avvertiva l’odore di un comunista a distanza di chilometri.
I comunisti non gli andavano proprio giù a Padre Efungidda e mai ne aveva fatto mistero e, inoltre, i modi del Viberti, oltre ogni misura disinvolti, lo infastidivano notevolmente.
“ No. C’è qualcosa, che non mi convince”, si era detto più volte e, senza dare scandalo , aveva deciso di spiare da vicino le mosse del confratello, il quale nel frattempo si era messo a fare domande indiscrete del tipo se i sacerdoti erano contenti del loro trattamento economico, se andavano d’accordo con il Vescovo, di quali rapporti intrattenessero con le monache e se non pensavano che, finalmente, era giunto il momento che si abolisse l’obbligo del celibato per i preti.
Padre Efungidda decise di non mollarlo e, non visto, cominciò ad osservarlo financo nel modo di dire la Messa, nel corso della celebrazione della quale il Monsignore finalmente gli si palesò per quello che in realtà era, un impostore, avendo saltato il passaggio essenziale della celebrazione eucaristica, la consacrazione del pane e del vino.
Padre La Greca sobbalzò dall’orrore, ma non se ne fece accorgere da nessuno; i suoi sospetti erano fondati!
Corse in sagrestia e (rosso in viso, con gli occhi fuori dalle orbite, con le narici che gli fumavano e con la voce che gli straripava disordinatamente balbettando dalle protuberanti labbra) cominciò a strattonare l’ignaro parroco, che sedeva alla sua scrivania, accusandolo di essere un coglione, che non aveva perso il pessimo vizio di fidarsi del primo venuto.
Non sappiamo e non sapremo mai cosa si siano detti i due preti veri e il falso prelato, quando questi rientrò in sagrestia; di fatto nessuno in paese ebbe più notizie del sedicente Monsignor
 
Antonino Viberti, che portando via con sé i segreti più intimi di costernati e improvvidi confidenti si rivelò essere un cameriere di Rapallo, emissario del glorioso partito comunista italiano, inviato per scompigliare il clero del Vicariato Foraneo di Assoro, Leonforte e Nissoria.
I giovani francescani furono quelli che subirono la delusione più cocente e, more solito quando c’era da porre rimedio a qualche danno o bisognava leccarsi qualche ferita, andarono a cercare rifugio tra le braccia di San Francesco.
Ogni pomeriggio erano lì per pregare, per giocare, per…dimenticare e quando si faceva sera, a ranghi sparsi e rassegnati, facevano ritorno alle loro case.
Salvo e Leo, due inseparabili compari, che si erano meritati l’appellativo di “ il gatto e la volpe”, scendevano sempre dalla scalinata, per raggiungere prima il Corso e ogni sera dovevano sorbirsi la maliziosa presa in giro di due donne, mamma e figlia.
Affacciate ad un balcone alla destra della prima rampa di gradini, le due fingevano di non vederli e, facendo con subdola ironia riferimento alla loro uscita dalla chiesa, chiudevano ed aprivano le narici ripetutamente, come per annusare un improvviso profumo, sino a quando, l’una diceva all’altra,
“ ‘u sienti? ‘u sienti ‘stu ciauru d’inciensu” (Lo senti questo odore d’incenso?).
Questo, ogni sera. Sera per sera. Finché, sulla cristiana sopportazione delle persone moleste prese il sopravvento la giusta ribellione da parte di Leo che, senza che Salvo sospettasse nulla, si fermò, lo prese sotto braccio e procurando di farsi sentire bene dalle due donne, che sarebbero rientrate sorprese e allibite, gli chiese, “ cumpà, cumpà, ‘u sintiti? ‘u sintiti chi fietu di buttani?”