di Salvo La Porta
A Federico Amato e alla
“Giovanni Bruno – Proserpina” di Enna
Luigi Pirandello avverte: “Confidarsi con qualcuno, questo si è veramente da pazzi”. Ma nonostante l’avvertimento, donne, uomini, vecchi e giovani e persino preti si erano confidati con “Monsignor Viberti”; gli avevano spalancato le porte del cuore, si erano praticamente messi a nudo, raccontandogli le loro miserie, i loro progetti, i loro peccati e le loro frustrazioni.
Pochi erano stati quelli che avevano resistito al fascino del falso prelato e tra questi, non sveliamo alcun segreto, i Cappuccini, perché si sa che quelli il bucato se lo fanno sempre in casa e sono abituati a lavarli loro i panni agli altri.
Pertanto, il Padre Bonaventura invitò al convento don Silvestre ( anche lui costernato) per un caffè ed insieme decisero di rattoppare le lacerazioni, che quell’impostore aveva inferto alla comunità leonfortese.
Bisognava procedere per gradi, senza farsene accorgere e senza più mai fare il nome di quell’infame, che aveva estorto i segreti più intimi di un popolo, che si era rivelato credulone.
Don Silvestre non sapeva darsi pace di essere caduto nel laccio di quello; gli aveva detto di Agatina e del suo figlioccio Tommaso e tante altre cosette, che avrebbe fatto meglio a tacere. Ma come si dice? “cosa fatta capo ha”.
Adesso, bisognava porre rimedio…si sarebbe cominciato con i giovani della Gi. Fra. ( Gioventù Francescana).
Un pranzo; si un bel pranzo, al quale sarebbero stati invitati anche Padre La Greca e il Parroco dell’Annunziata, involontari protagonisti di quei fatti da dimenticare.
Alla trattoria di Rapè, troppo piccola per tante persone e troppo esposta alla curiosità della gente, si preferì l’ampio refettorio dei frati, dove si poteva godere un’intera giornata di sana letizia francescana.
Alla cucina, non ci potevano essere dubbi, ci avrebbe pensato un terziario, Carmelino Cannavò.
Carmelino o, come lo chiamavano tutti, Carmillino Cannavò era nato in uno dei più prestigiosi palazzi di via Plebiscito a Catania.
Morto in giovane età l’agiatissimo padre, la numerosa famiglia si era trasferita a Leonforte, paese in cui la mamma vantava diversi parenti.
Era il tempo delle emigrazioni negli Stati Uniti d’America e anche i Cannavò avevano deciso di andare a cercare una migliore fortuna oltreoceano.
Non era facile ottenere il passaporto per l’ America del Nord; tra le altre cose, oltre ad un atto di richiamo da parte di qualcuno, che garantisse per l’ aspirante emigrante, assicurando che quello avrebbe trovato un posto di lavoro, che lo tenesse lontano dalle tentazioni malavitose, era necessario essere in possesso di un attestato di buona condotta e godere di un perfetto stato psico-fisico di salute.
I Cannavò avevano tutti i requisiti richiesti e a tutti fu concesso il nulla- osta, per ricevere l’agognato passaporto.
A tutti. Tranne che a Carmillino, che non fu considerato idoneo, perché soffriva di……………………….. congiuntivite.
Le studiarono tutte, per consentire anche a lui di partire; ma non ci fu verso.
Il ragazzo sarebbe rimasto a Leonforte, affidato alla nonna, nell’attesa e nella speranza che fosse guarito presto; intanto, il resto della famiglia lo avrebbe aspettato lì, in America.
Il racconto che Carmillino faceva della partenza dei Cannavò era struggente.
Si ritrovarono tutti con le loro povere masserizie al Piano di San Francesco, dove sarebbe poi venuta una carrozza, che li avrebbe accompagnati a Pirato, da dove sarebbero partiti per Catania e,infine, alla volta di Napoli, dove si sarebbero imbarcati sul bastimento.
Carmillino non aveva lasciato la mano della mamma neppure per un attimo e, quando si cominciò a sentire più distintamente lo scalpitio degli zoccoli del cavallo, le due mani si intrecciarono al punto da sembrare incollate. La tenaglia ci sarebbe voluta per scollarle!
Arrivata la carrozza, cominciarono i saluti dell’addio; mamma e figlio si abbracciavano e quanta fatica dovevano fare gli altri, per staccarli! Sembrava che si fossero rassegnati e… ………………………………………………………. ancora un abbraccio… un ultimo bacio ancora.
Con il cuore in gola (‘nguttatu), Carmillino decise che almeno sino al treno l’avrebbe accompagnata la mamma; cosicché, quando la carrozza si avviò, balzò sull’asse che raccorda le ruote posteriori della vettura e vi si aggrappò con tutte le sue forze….sarebbe arrivato sino a Pirato.
Lungo la strada, il cocchiere aveva avvertito un peso anomalo e poiché molti monelli solevano lungo il tragitto aggrapparsi in quel posto per farsi carruzziari, pensava si trattasse di uno di quelli e con la zotta frustava il disperato fanciullo, che non mollava seppure lacerato da mille ferite.
Si può solo immaginare il lancinante dolore della madre, quando vide il figlio così allazzariatu e malridotto e si possono solo immaginare le lacrime, le carezze…gli abbracci, che i due si scambiavano, prima che arrivasse il treno. Gli ultimi….non si sarebbero mai più visti.
Nonostante fosse rimasto praticamente solo, il ragazzo condusse sempre una vita esemplare, dimorando in una casetta di piazza San Francesco, il santo del quale per tutta la vita rimase devoto.
Cattolico osservante, la sua devozione era a volte esagerata; non si contavano le volte in cui passando davanti ad una chiesa si segnava. Non si distraeva mai da questa pratica, tanto che per prenderlo bonariamente in giro, gli amici gli dicevano che persino prima di entrare al Banco di Sicilia intingeva la mano, per farsi il segno della croce.
Aveva per amici molti universitari, anche se più giovani di lui e con loro trascorreva le serate, facendo qualche tavulidda (incontro mangereccio), e portando serenate alle ragazze.
Buon suonatore di chitarra, fece subito amicizia con una ragazza più giovane di lui, che amava la musica e suonava la fisarmonica, il mandolino e la chitarra, che le faceva trovare colma dei cioccolatini che, insieme ai dollari ed ai vestiti, gli arrivavano dall’America.
Dal canto suo, la ragazza non tardò ad innamorarsi di lui e aveva trovato un singolare modo per aiutarlo economicamente, quando le rimesse americane tardavano ad arrivare.
Essendo al bancone del panificio paterno, la ragazza aspettava che l’innamorato arrivasse con mille lire, per acquistare il pane; allora, incassava il denaro e posava il pane in un sacchetto, dentro il quale depositava il resto e….le stesse mille lire, che Carmillino le aveva precedentemente dato.
Aveva un’ironia coinvolgente, che rendeva gradevole ogni incontro, anche con i contadini (che la carne la vedevano da lontano), ai quali riusciva a strappare un sorriso con frasi del tipo, “beatu tu, ca ti po’ mangiari a virduredda, mentri iu mangiu carnazza scannata di tri o quattro jorna” (beato tu, che puoi mangiare la verdura dei campi, mentre a me tocca mangiare la carne di animali macellati da tre o quattro giorni).
Mai una parolaccia, elegante, fazzolettino bianco ricamato al taschino della giacca; conosceva tutto il paese e tutto il paese lo conosceva, anche in virtù del lavoro al Consorzio Agrario, dove veniva ammassato il frumento.
Infine, ottimo cuoco, specializzato nel ragù alla bolognesa, che aveva imparato a preparare da militare nella cucina del Circolo Ufficiali.
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L’appuntamento tra l’Arciprete ff e Carmillino era fissato per le nove, davanti la casa dell‘Auzzinedda, di fronte il negozio di scarpe di Turiddu Lammiru.
Era una casa che sembrava di zucchero, alla quale si accedeva da un portone signorile di via Algozzino ( con due zeta), con la facciata rosso borbone e i balconi, che si affacciavano sia sulla stessa via, che sul Corso Umberto.
Erano tanto bassi quei balconi, che i ragazzi vi si appendevano alle ringhiere e si lasciavano dondolare e, poiché Carmillino tardava qualche minuto, anche Lo Sicco fu più di una volta tentato di fare lo stesso, a ricordo della sua spensierata fanciullezza.
Finalmente e per fortuna, Carmillino arrivò ed insieme si diressero alla macelleria, per acquistare il Capuliato per il ragù; gli altri ingredienti li avrebbero presi dall’orto o dalla cucina dei frati. Ma con il capuliato non si poteva scherzare. Doveva essere carne di prima qualità…, due terzi di vaccina e un terzo di maiale.
Stavano per entrare, quando don Silvestre si bloccò dinanzi l’ingresso come se avesse visto il diavolo in persona. Fece segno all’altro di fermarsi ed entrambi si posizionarono all’angolo della porta, per potere osservare non visti quello che succedeva all’interno della carnezzeria.
In assenza del proprietario, un corpulento giovane di bottega si intratteneva con il figlio del cavaliere Schinocca, mentre un distinto signore giocherellando con il suo bastonetto da passeggio dal pomello d’argento, rimaneva appartato in attesa di essere servito.
L’uomo, don Emilio, dava l’impressione di non avere fretta, anche se si capiva che subiva infastidito la conversazione tra quei due.
Di solito, quando si incontravano con l’Arciprete, entrambi si profondevano in saluti ossequiosi e riverenti; ma, in verità, il sacerdote, scorgendolo da lontano pur di non incontrarlo, imboccava la prima traversa e se la dava a gambe.
Meglio non averci a che fare con quel massone, un mangiapreti senza Dio e nemico giurato del Santo Padre, che in chiesa entrava tirato dai cani e, quando non ne poteva fare a meno in occasione di matrimoni o di funerali, sedendo sempre ingrugnito e in disparte. Chi poteva metterci la mano sul fuoco che in quel maledettissimo imbroglio di “ quel signore” non avesse anche lui avuto la sua parte?
E dire che sembrava tanto una persona dabbene, invece…..
Invece, era il Maestro Venerabile di una loggia massonica, la “Tavi risorta”, alla quale erano affiliati molti suoi degni compari e tanti altri illustri insospettabili personaggi; tanto insospettabili che (roba da non crederci) la domenica andavano a Messa con moglie e figli e si accostavano anche alla Comunione. Roba da pazzi!
Intanto, Carmillino stanco di aspettare si allontanò con la scusa di avere dimenticato di prendere qualcosa al Consorzio, lasciando solo il buon prete, che distrattamente rispose al “sabbenidica” di una vecchietta magra ischeletrita, che entrava in bottega.
Aveva questa in testa un fazzoletto nero sbiadito, più sbiadito del nero e logoro abito, che indossava. Sembrava nel timido incedere volesse scusarsi di esistere, ma vinse sé stessa e riuscì ad entrare; “ vulissi ‘na fidduzza di carni”, balbettò con un filo di voce al grasso giovane, “ma tennira mi l’ha dari, pirchì e pi malati” (vorrei una fettina di carne, ma che sia tenera, perché deve mangiarla una persona ammalata).
Il ragazzaccio girò dietro il bancone e, volgendosi con una grassa risata di complice intesa al giovinastro, affilò i coltelli e prese un pezzo di carne dura, la più dura che c’era, cominciando a ritagliarla, per ricavarne una fettina, che avvolse in un foglio di pesante carta.
“ Ecco qua” disse alla poveretta, lanciando il misero involto sul piatto della bilancia per farlo pesare di più “ chista squagghia ‘nta vucca, fa arriveniri i muorti” ( questa si scioglie in bocca, fa resuscitare i morti). E giù a ridere, a ridere sgangheratamente insieme a quell’altro bel tomo; tutte e due felici di quella bella impresa.
Don Emilio, però, non la pensava allo stesso modo. Anzi, pensava che i due avessero superato ogni limite e, pur senza perdere la calma, si avvicinò al bancone e posò il pomello del suo bastonetto sulla mano del macellaio, che stava per porgere la carne alla donna e, “ no, questa non va bene per la signora… è troppo tenera; mangiala tu” gli disse con un sorriso.
Quindi,sempre sorridendo, prese l’involto dalle mani di quello e lo porse al figlio del cavaliere sussurrandogli, “anzi, sai che ti consiglio? portala alla mamma, lei è più abituata a queste prelibatezze…per la signora ci vuole altro…un chilo di fettine di primo taglio. Pago tutto io. Salutami i tuoi genitori e tu”, rivolto al giovane di bottega,“ salutami il principale.”
Aspettò che la signora incredula fosse servita, l’accompagnò alla porta e, dopo avere pagato il dovuto, andò via, lasciando di stucco i due sciagurati.
Silvestre, meravigliato ed umiliato, fece un resoconto dettagliato del fatto a Carmillino, che nel frattempo era tornato, ed entrambi dovettero convenire che, in fondo, don Emilio era una buona persona.
Comprarono la carne e considerato che già da un pezzo i ragazzi aspettavano, si precipitarono al convento e in cucina Carmillino tenne la sua lezione sul ragù.
“Per prima cosa, fare rosolare sul fuoco la carne ( tre quarti di vaccina ed uno di maiale) sino a quando si asciuga e diventa granulosa. Niente olio e pochissimo sale. Quindi, toglierla dal fuoco e posarla in un piatto. Nello stesso tegame, fare soffriggere cipolla, carota e prezzemolo (rigorosamente tritati con la mezzaluna) posare di nuovo la carne nel tegame, per farla ancora rosolare insieme al soffritto e sfumare con un bicchiere di vino rosso. Aggiungere una cucchiaiata di doppio concentrato di pomodoro e una passata di pomodoro, uno spicchio d’aglio e un gambetto di sedano. Lasciare, infine, cuocere lentamente e a fuoco bassissimo, sino alla cottura, completando (se piace) con una spolverata di pepe nero, noce moscata e qualche chiodo di garofano”.
L’odore si era sparso sino al refettorio e sino al chiostro ed i ragazzi si erano già messi in allegria, raccontando barzellette, prendendosi affettuosamente in giro e ridendo del fatto del Monsignore, che alla fine bisognava perdonare come ci ha insegnato il Signore.
Il “maestro di ragù” sembrava troppo impegnato a cucinare, tenendosi estraneo a quella gioviale conversazione.
Ma quando uno dei ragazzi ricordò che “ ‘u Signuri dissi, ama il prossimo tuo come te stesso”, non riuscì a trattenersi e sentenziò, “ ‘u Signuri dissi, ama il prossimo tuo come te stesso…si, veramenti buonu è stu prossimu… ca daveru si fa amari!” e qui una fragorosa risata generale.