di Salvo La Porta
Al mio amico, giovane francescano di Ragusa, Guido Cappello.
Lo sposalizio tra il ragù di Carmillino e i maccheroni co’ purtusu, che erano arrivati da Milocca, non poteva essere più felice. Inoltre, don Silvestre aveva portato anche qualche fiasco di vino di quello buono delle sue vigne ed il pane di casa appena uscito dal forno e tanto altro.
All’arbicedda si erano alzate le donne per fare il pane, che doveva essere particolare. Un dolce doveva essere; altro che le solite vastedde! Pupiddi (piccoli panini) bene impastati e rimpastati, sui quali prima di infornarli avevano passato il rosso d’uovo battuto e i semi della papaverina.
Avevano preparato anche le fruate cotte davanti la bocca del forno, che facevano venire solo a vederle l’inquilina in bocca.
Per il dolce ci avevano pensato pure a Milocca, ciotole di biancomangiare e i famosi biscotti scanati, che piacevano tanto ai frati e che donna Sarina aveva imparato a fare da una sua cugina, suora in un convento di Naro.
Li preparava lei stessa e gli ingredienti erano poverissimi, farina, zucchero, saimi (strutto), lievito madre, semi di finocchio e acqua….francescani erano.
Al pranzo partecipava tutta la gioventù serafica; tutti i giovani, nessuno escluso. Ma solo i maschi, però. Perché si sa, le femmine non potevano superare i primi tre gradini della scala, che portava alle celle dei frati e, men che meno, addentrarsi nelle stanze della cucina e del refettorio. Pena la scomunica, si diceva.
I ragazzi… ragazzi sono e sono sempre allegri di natura; amano scherzare tra di loro e, quando alzano un po’ il gomito, anche con quelli con i quali sarebbe più opportuno tacere e mantenere un comportamento mai sconveniente.
Ma ragazzi erano e non pareva loro vero lasciarsi andare a qualche battuta un po’ più salace nei confronti dei monaci e dei preti. In particolare, avevano preso di mira Padre La Greca, con il quale mantenevano sempre un conto in sospeso, per via dell’eccessivo rigore dei suoi metodi educativi (che mani pesanti aveva Patri Efunfidda).
A lui erano riservati le battute più pungenti e i doppisensi ai limiti della volgarità.
Ma era troppo accorto il prete per mostrare di infastidirsi e non tardò tra una risatina e l’altra, che si lasciava maliziosamente sfuggire dalla piccola protuberanza delle labbra, a rendere la pariglia, offrendo altri e più ghiotti bersagli di ilarità ai convitati.
Nino e Pippo Lammiru, entrambi cugini di don Silvestre, avevano un po’ esagerato con gli scherzi; ma lui sapeva come metterli simpaticamente in riga e riacquistare il prestigio, che gli competeva.
“ Ninuzzu, cuntini quannu to’ papà arrivau all’improvvisu a Catania e tu, appena indossato il pigiama, ti sei fatto trovare con il libro aperto sottosopra, per non fargli scoprire che ti eri appena ritirato da una notte di bagordi..cuntinillu.”
“Ma come diavolo sapeva?” pensò Ninu Lammiru; ma che poteva fare? Abbozzò una risatina ed affondò la faccia nel piatto, mentre gli altri si scalmanavano a ridere.
Manco a dirlo, quello che rideva più sgangheratamente era Pippo Lammiru; ma Patri Efungidda aveva pensato anche a lui, “ Pippuzzu, arridi..arridi. Ora cuntinu tu, quando ti sei fatto dare i soldi da tuo padre, per pagare la tassa sul Teorema di Pitagora”.
La risata fu generale ed il pranzo continuò e si concluse in fraterna e francescana letizia.
Mentre si salutavano con la speranza e la promessa di incontrarsi ancora e presto, ad imboccare il piano dei Cappuccini si presentò don Cicciu Tagghialiami Grimaldi, che arrancando si accostò deferentemente all’Arciprete ff, per consegnargli un telegramma, proveniente da Catania.
Don Silvestre rispose cordialmente, ma con una certa inquietudine al saluto e ringraziò. Quindi, cercando di non farsi avvedere di come gli tremassero le mani, si fece da parte e mentre leggeva, “ urge tua presenza riguardo Tommaso stop Mariangelico”, sbiancò in viso e con un saluto frettoloso si congedò dalla compagnia e, “ Sirbestru, dumani a Catania” si disse.
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Non ce la fece ad aspettare l’indomani; salutò di nuovo distrattamente il Padre Bonaventura, i frati e quanti erano rimasti e di corsa si diresse a casa di Gaetano Lavitola.
Gli aprì la porta la moglie Maricchia, bellissima ed avvenente donna che, stranita per quell’insolita visita e a quell’ora insolita, lo invitò ad entrare.
Silvestre declinò garbatamente l’invito, scusandosi per il disturbo e pregando la donna che gli chiamasse il marito.
“ Tanù”, sussurrò quella rientrando, “ c’è l’Arcipreti ca ti voli parrari…a st’ura…boh? Sarà qualche cosa di urgenti”.
In men che non si dica, Gaetano fu al cospetto del Lo Sicco, che con lo stesso cipiglio con il quale si può presumere che Garibaldi si rivolgesse a Bixio gli intimò in strettissimo italiano, “Gaetano, tra un’ora si parte per Catania. Mi accompagnerai alla Casa del Clero e tu andrai a dormire in via Coppola. Può darsi che ritorneremo dopodomani. Svelto!”
Tano non voleva proprio lasciare la moglie per due giorni (…o forse no); ma il pensiero che per ben due notti sarebbe rimasto in compagnia delle “signorine” di via Coppola prese il sopravvento e in un battibaleno preparò una valigetta e si presentò in Matrice, pronto ad ubbidire agli ordini del suo “generale”.
Fece tanto in fretta che dovette aspettare un po’ l’Arciprete ff., che prima di partire si era premurato di lasciare alcune consegne a Padre Varano, pregandolo che non facesse parola con alcuno del suo improvviso viaggio.
Finalmente in macchina, si diressero a Milocca, dove avrebbero caricato come sempre la macchina di ogni ben di Dio e
da dove sarebbero partiti alla volta di Catania.
“ Chi successi? Perché questa partenza così improvvisa?” gli chiedeva costernata la mamma. “ Nenti, nenti mamà” la rassicurava Silvestre, “ mi vuole parlare l’Arcivescovo”. Quella faceva finta di credergli, ma in verità sapeva in cuor suo che doveva trattarsi di qualcosa di serio che interessava Tommaso. Ad una mamma non si può nascondere nulla; neppure quando si sta zitti. Come abbiamo detto altre volte, “ sulu a mamma capisci ‘u figghiu mutu…”.
Arrivarono a Catania a sera inoltrata; quasi notte, ma in tempo ancora per una breve visita in casa Rappè, per depositare le vettovaglie portate da Milocca e bussare alla porta della Casa del Clero, dove dopo una certa ora non aprivano il portone neppure al Papa. In via Coppola, invece, Lavitola era di casa e la porta per lui (ma anche per altri) era sempre aperta.
Alle prime luci, don Silvestre era già in piedi, lavato, sbarbato e pettinato, pronto per affrontare con forza e vigore la giornata.
Aveva deciso che, prima di incontrare fra Maria Angelico, si sarebbe recato in via Vittorio Emanuele, presso la chiesa degli Agostiniani, dove avrebbe acceso una candela a Santa Rita, la santa dei casi impossibili, affidandole il destino di Tommaso.
Qualche minuto prima delle sette, era già in sacrestia e poté conversare un po’ con Padre La Paglia che, essendo sul punto di dire Messa, lo invitò a concelebrare.
Quando fu sulla scalinata della chiesa, ebbe un tuffo al cuore nel sentire le stesse note dello stesso organino, che Teresina sempre con lo stesso vestito verde e ancora più curva e malconcia si trascinava dietro, dopo averlo faticosamente uscito da uno dei portoni di fronte.
Un distinto signore, dall’aria buona e dal vestire elegante, le aveva appena dato qualche soldo (lo faceva ogni giorno, per aiutarla), perché gli facesse ascoltare le note della sua canzone preferita.
Teresina intascò grata il denaro e uscì fuori da una sudicia borsa un cartoncino forato, che andò a deporre in un apposito spazio dell’organino, girò la manovella e subito nell’aria cominciarono a diffondersi le note di “Vipera”, che quel signore tra il sorridente e l’assorto si mise a canticchiare.
Non ci volle molto, perché Silvestre riconoscesse subito in lui il suo vecchio amico Salvo Barbagallo, con il quale aveva diviso negli anni passati molte giornate, cariche di quel sentimento di profonda amicizia, che neppure lo scorrere inesorabile del tempo riesce a scalfire.
Anche Salvo lo riconobbe subito e di corsa andò per abbracciarlo; fu come se tutti quegli anni non fossero passati, come se si fossero lasciati la sera precedente.
Insieme passarono a salutare il cavaliere Spalletta e la signora Marietta, sua moglie, che avevano dato in sposa una bellissima figlia ad un cugino del sacerdote e a piedi si avviarono pian pianino al Convento di San Domenico, dove si separarono con la promessa che si sarebbero rivisti presto, quando Silvestre sarebbe andato ad acquistare un paio di comode scarpe nell’elegante negozio, che Barbagallo aveva aperto nella zona nuova di Catania.
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Come se si fossero dati appuntamento, fra Maria Angelico era già davanti al portone e di subito don Silvestre fu richiamato al motivo vero di quella sua precipitosa gita a Catania.
Per filo e per segno, il frate gli raccontò della vita del convento e senza mezzi termini gli spifferò che il giovane Tommaso (ebbene,si!) era fermamente intenzionato a prendere i voti domenicani.
Qualche cosa aveva subodorato Silvestre, ma aveva sempre pensato che si fosse trattato di un’infatuazione mistica, forse dovuta al desiderio del ragazzo di emulare il padrino.
Convennero che sarebbero andati in via Gisira a casa Rappè e magari, fermandosi per il pranzo, avrebbero potuto tastare la reale volontà di Tommaso, con il quale si sarebbero potuti appartare in discreta amichevole conversazione.
Così fecero e dovettero registrare che Tommaso, nonostante la totale disapprovazione della mamma, della zia e della stessa domestica Vicinzina, era proprio determinato; quei voti li voleva prendere.
Ma il ragazzo era troppo giovane e non conosceva nulla del mondo, come poteva Silvestre permettere che a cuor leggero andasse ad assumere un impegno tanto gravoso, che lo avrebbe impegnato per la vita e che si sarebbe potuto rivelare più grande di lui?
Bisognava essere certi; certi della reale portata di quella vocazione.
“ Fra Maria Angelico”,chiese confidando nell’amico, “ pensaci su, studia tu qualcosa, dobbiamo sapere…”.
In verità, fra Maria Angelico ci aveva già pensato senza studiarci troppo su e sapeva da un pezzo ciò che si poteva fare; per cui, si sentì di rassicurare con uno sguardo furbetto l’amico che, anche lui, senza studiarci troppo sapeva cosa si poteva e doveva fare.
Il buon frate conosceva tutti gli ambienti catanesi. Tutti, proprio tutti. Non gli risultò, quindi, difficile chiedere in assoluta discrezione un colloquio con una signora che, diciamo così, dava generosa ospitalità ad avvenenti signorine che, dietro pagamento di una somma di denaro, si prestavano con la compiacenza e la complicità dello Stato a consolare le pene d’amore degli uomini, che ne facessero richiesta.
Lui stesso era stato più volte ospite della casa; non certamente per lo stesso motivo di tutti gli altri, ma per portare il messaggio evangelico anche in quel luogo. Almeno, così diceva..
La casa amministrata dalla Signora Ninedda era in via Maddem, nel quartiere San Berillo, e oltre che da un maestoso portone d’ingresso vi si accedeva da una porticina laterale molto riservata, alla quale fra Maria Angelico era solito convenzionalmente bussare, per entrare non visto e in tutta riservatezza a svolgere il suo “ministero”.
La “ Signora” lo accolse con il calore riservato ad un amico di vecchia data, ben disposta ad ascoltarlo e subito pronta a sottoporgli un piano, che sicuramente avrebbe ben risposto alle sue esigenze. L’indomani, dopo le sette di sera, una distintissima “signorina” si sarebbe resa disponibile per intrattenersi con Tommaso. A lui il compito di accompagnare il ragazzo, senza metterlo in sospetto.
Non lo capiva Tommaso perché fra Maria Angelico si fosse presentato in abiti borghesi in casa sua. Boh..?
Ad ogni buon conto, fu ben felice d’accompagnarlo a disbrigare le faccende, di cui gli aveva vagamente detto, perché la gioviale compagnia del frate e la sua fragorosa risata lo coinvolgevano piacevolmente.
Salirono per la via Etnea e si addentrarono dietro il monumento a Bellini, alla Porta Aci.
La conversazione era allegra, spensierata, quasi spumeggiante.
Giunti al palazzotto di via Maddem, arrestarono un po’ il passo. Più di una volta, Tommaso si era fermato ad osservarlo con una certa curiosità ritenendo che, a causa delle imposte sbarrate, vi fossero ospitate suore di clausura. Non parendogli vero quella sera di potere soddisfare finalmente una sua legittima curiosità, chiese candidamente al suo accompagnatore a quale Ordine appartenessero le suore in quel luogo ospitate.
Fra Maria Angelico non rispose, quasi non avesse sentito, e in maniera disinvolta svoltò all’angolo, per trovarsi davanti la porticina di servizio, a cui decisamente bussò tre colpi del battente di ferro.
Venne presto ad aprire la stessa Ninedda, che gli rivolse un saluto, che a Tommaso parve molto confidenziale, “Oh, Pippinu, tu si? Ti stavamo aspettando .Questo bel giovanotto è tuo nipote?” e, così dicendo, li fece accomodare in un salottino, mentre cominciava a tastare il corpo del ragazzo, che diventava sempre più perplesso e imbarazzato; anche perché, da quel poco che aveva potuto osservare, aveva notato che non si intravedevano
immagini sacre alle pareti. Vi erano, invece, appesi quadri raffiguranti donne vestite in maniera disinvolta e la stessa signorina, che gli presentò la donna ( anche lei dal comportamento strano), seppure vestita di scuro, aveva qualcosa che tradiva il suo non essere proprio una religiosa. Le unghia lunghe e dipinte di rosso, le labbra rosse…rosse come il divano di velluto, su cui era stato invitato a sedere accanto alla giovane donna. E poi, perché quella aveva chiamato il frate con il nome di battesimo e non con quello da religioso? E, il profumo? L’odore di tabacco?
Trovò risposte a tutte le domande, quando Peppino Lagati (alias fra Maria Angelico) uscì, dicendo che sarebbe tornato presto e che lui restasse lì con quella bella compagnia.
Per farla breve, Tommaso quella sera fu iniziato all’amore profano, nell’esercitare il quale fu talmente bravo e sagace da non accorgersi neppure del passare delle ore e di essersi risvegliato esausto in un letto, che non era il suo.
Di buon mattino, fu richiamato alla realtà, quando fu risvegliato dalla fragorosa risata dell’amico e, dopo una buona colazione, fece rientro in casa.
Trascorse tre notti insonni, prima di decidere di confessare tutto al suo Padre Spirituale, fra Luciano da Padula, che il mondo lo conosceva bene e che lo avrebbe consigliato per il meglio.
Abbandonare la vocazione religiosa o perseverare?
Fra Luciano lo ascoltò serio e attento, non mancando di indignarsi per il comportamento leggero di fra Maria Angelico, portandosi la mani ai capelli mentre Tommaso raccontava e asciugandosi il sudore, che quel racconto gli provocava.
Non lo interruppe neppure una volta; finalmente, quando scese il silenzio, chiese se quell’avventura fosse piaciuta e se pensava di averne delle altre.
Si sentì rispondere, “ certo che mi è piaciuta e ci voglio tornare pure”.
Chiese ancora fra Luciano se il giovane sentisse sempre forte la sua vocazione religiosa ed ebbe per risposta che la sentiva più forte di prima.
Ci fu qualche attimo di silenzio, quindi, “caro Tommaso” sentenziò, “tutti siamo peccatori e non dobbiamo scoraggiarci, per i nostri peccati…persevera pure nella strada della tua vocazione, perché per dirla con Dante – la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei-”.
Si alzò, allora, per congedare il giovane e risollevato penitente, giungendo tra sé e sé alla considerazione che, alla fine dei conti, “ cu futti futti, Diu pirduna a tutti…”.