di Salvo La Porta 

A fine novembre la mamma di Silvestre, donna Sarina, non voleva sentire ragioni e piantava “baracca e burattini” a Milocca, per trasferirsi sino a dopo l’Epifania nel palazzo di Corso Umberto. Il marito, il commendatore Peppino Lo Sicco di Tramontana, lo sapeva e senza battere ciglio e prima ancora che la moglie parlasse disponeva, perché tutto fosse organizzato a puntino.
A lui, certo, sarebbe costata un po’ di fatica, poiché avrebbe dovuto fare la spola dalla tenuta, perché “u beni di Milocca veni”, il bene veniva da Milocca.
Ma la moglie non transigeva; prima che cominciasse la novena dell’Immacolata doveva essere a Leonforte.
Sino all’otto di dicembre, ogni giorno si recava al convento dei buoni frati Cappuccini e partecipava alla Santa Messa sempre con l’intenzione di impetrare la grazia della salute e della pace per tutta la famiglia e ogni giorno di novena lo dedicava al componente, che secondo lei aveva maggiore bisogno di protezione.
Il primo giorno immancabilmente lo dedicava al nipote Salvo Ganà, ché quel santo ragazzo non aveva sentito ragioni e si era imbarcato su una nave da crociera, conducendo la sua vita tra i pericoli della “ stranìa” e quelli dei capricci dei flutti.
Ora, le aveva scritto che stava per imbarcarsi e che tra qualche giorno sarebbe arrivato nell’America del Sud, in Colombia.
Mille pensieri faceva…ma alla fine, la Madonna Immacolata lo avrebbe protetto, si rasserenava.
Per tutto il periodo della novena si adoperava, perché la Festa fosse solennizzata nel migliore dei modi e, già due o tre giorni prima, si organizzava insieme a Serafina e alle altre donne di casa, per preparare e friggere le scorze dei cannoli, che la  mattina dell’otto dicembre lei stessa avrebbe riempito di una delicatissima crema di ricotta fresca.
A tutti piacevano i cannoli; don Silvestre ne andava matto e il commendatore, che di solito era molto “liscio” per i dolci, non si faceva pregare e, a volte, anche due ne mangiava.
A tavola, durante la conversazione del dopopranzo, uno tirava l’altro; ma quella che era più ghiotta era Serafina.
Poggiava il gomito del braccio destro sulla tavola e con la mano sinistra ne afferrava uno, che subito posava sulla destra e cominciava a divorare il primo, il secondo, il terzo cannolo. E come se lo gustava quel cannolo!
Non è che lo mordesse come fanno tutti i cristiani, no; prima ne succhiava quasi voluttuosamente la crema di ricotta e solo quando la scorza era rimasta vuota cominciava a mordicchiarla. Tommaso la guardava, rosso in faccia ed estasiato e allo stesso tempo indeciso nel dubbio di dove mettere le mani senza che altri se ne accorgessero.
Inutile dire quanto fosse indispettito Pepè, mentre quel manigoldo di Nino Lo Sicco si divertiva a mettere in imbarazzo quelli che gli venivano a tiro.
“ Serafi’”, bisbigliava alla birichina mentre faceva segno con l’indice verso un altro cannolo, “ te lo vuoi dividere?”
“No”, rispondeva sfacciata quella, “ Iu ‘u miu mi lu mangiu sanu.
Si vuoi, ni spartimu ‘u to’” ( Io il mio lo mangio intero. Però, se vuoi, ci dividiamo il tuo). Agguantava, quindi, il cannolo che le aveva indicato Nino e con una risata delle sue, se lo ammuccava allo stesso modo di come aveva fatto con gli altri.
Sparecchiata la mensa, ognuno andava per la sua strada, mentre a donna Sarina il cuore diventava come una nucidda, perché sapeva che da lì a poco suo figlio Nino si sarebbe imboscato al Casino dei Nobili, dove sarebbe rimasto sino a tarda notte a bere liquori e a giocarsi i soldi a “giretto”, ovvero a chemin de fer. Sino a dopo l’Epifania sarebbe durato quel Calvario.
Sia fatta la volontà di Dio.
 
Già dall’indomani della festa dell’Immacolata, cominciavano a fervere i preparativi per il tredici dicembre, festa di Santa Lucia, che era solennizzata in Chiesa Madre e coinvolgeva l’intera famiglia Lo Sicco, poiché Silvestre rivestiva il delicato ruolo di Arciprete ff. e non poteva fare cattiva figura.
Nessuno avrebbe dovuto trovare da ridire. La Matrice doveva specchiare, le sedie dovevano essere spolverate per bene, ma la cosa più importante era che le cotte dei chierici e i camici dell’Arciprete dovevano essere perfettamente lavati e stirati, perché sarebbero serviti anche per la notte di “Gibedonne” (Iube Domine benedicere) la vigilia di Natale.
I paramenti, infine, dovevano essere quelli donati dal Principe, rossi per la Santa protettrice degli occhi, oro zecchino per la notte di Natale.
Un Vescovo doveva sembrare Silvestre, ma quale Vescovo? Un Cardinale! E, perché no Papa? Papa Silvestre I, fantasticava donna Sarina. Ma c’era stato un Papa Silvestre? Boh?
Magari avrebbe cambiato nome. Chissà?
Intanto da Milocca era arrivato il frumento per la Cuccìa, il grano bollito, e ne era arrivata una quantità tanto considerevole da richiedere, oltre l’opera di Serafina e delle donne di casa, l’aiuto delle devote di Santa Lucia per poterlo “annettare”, pulendolo dalle scorie.
Un pomeriggio, si sentì bussare dal portoncino di via Collegio con una certa insistenza; era la signora Salmà, anche lei devotissima della Santa siracusana, che si prestava a venire in aiuto sia per la pulitura del grano, che per la sua preparazione e distribuzione.
La sua collaborazione era estremamente gradita, poiché proveniva da Nicosia ed era molto esperta nel confezionare i dolci e nell’accompagnare la presentazione della cuccìa oltre che tradizionalmente condita con olio, sale e pepe, servita con un’infinita varietà di creme e di ricotta all’arancia e alla cannella.
Tutti gli amici sarebbero stati serviti e tutto il vicinato sarebbe stato invitato a mangiare in onore di Santa Lucia.
Donna Sarina e la signora Salmà andavano molto d’accordo e capitava che nei momenti di pausa si scambiassero le loro confidenze e si consolassero a vicenda per gli inevitabili dispiaceri, che la vita riserva a tutti.
L’una lamentava la scapestrataggine del figlio Nino e l’indolenza di Mario; l’altra diceva dei suoi figli di come in particolare Fiorentino, vigile urbano, trascorresse le notti in cerca di donne, tanto da guadagnarsi al suo passaggio una parodia delle parole del Tango delle Capinere, “ a mezzanotte va’ l’amato Fiorentino…”. Era sicura che qualcuno, prima o poi, gli avrebbe spaccato la faccia, si lamentava.
Un altro aveva sposato una donna del nord; “ma chi mancavunu fimini a Nicuscì?” ripeteva.
“Ma com’è? Com’è? Sta’ carusa?” chiedeva Sarina, “ma che taia dì….parra talianu (parla in italiano)” si sentì rispondere, mentre le stringeva la mano e la guardava negli occhi.
Aveva detto tutto!
Conclusasi la recita dell’Angelus, dopo le cinque di sera del quindici dicembre, donna Sarina esplodeva nella recita di una preghiera di gioia, che coinvolgeva gli altri, “ Alligrizza, alligrizza, o piccaturi; già, s’incumincia la Ridenzioni. Mentri l’Angilu, chinu di splinduri, a Maria annunzia la Ridenzioni. La saluta diciennu Ave Maria, o chi giubilu porta all’anima mia!”
L’indomani, sedici dicembre, sarebbe cominciata la Novena di Natale e alle quattro del mattino tutti sarebbero dovuti essere già in piedi, per preparare gli scarfatura (scaldini), che si sarebbero portati per riscaldarsi durante la Messa delle cinque.
Almeno dieci minuti prima delle cinque, tutti i Lo Sicco erano davanti l’acquasantiere, depositavano gli scaldini, le donne si velavano il capo e recitavano, “ iu trasu ‘nti ‘sta chiesa papali, ca dintra c’è lu santu Gibiliu; tu, nesci fora, piccatu mortali, lassimi diri li cosi di Diu”.
Entrando nel Tempio, tutte le profanità dovevano essere lasciate fuori; erano zavorre, che ostacolavano il colloquio intimo con Dio.
Quant’era bello Silvestre, mentre celebrava sull’altaremaggiore e che cose belle che diceva! Che bella predica!
“ Non ne naschino più, non ne naschino più!” ripeteva donna Sarina.
Finita la Messa, tutti rientravano a casa e si dedicavano alle innumerevoli attività preparatorie alla Notte Santa e al Grande Giorno.
Bisognava scacciare le mandorle, sgusciarle, macinare i fichi e fare quanto altro occorresse per la preparazione dei picciddati (buccellati). Silvestre adorava quelli di fichi.
C’era da mondare i cardi dalle spine e da controllare che il baccalà messo a bagno cominciasse a spugnarsi bene.
La notte di Gibedonne, la Notte Santa, tutta di magro doveva essere la mensa.
Il ventitré sera, tutto era già pronto; il broccolo (quello viola) era già stato cotto affucato e fritto, i cardi fritti con la pastetta, le arance nelle fruttiere, i picciddati nei canestri. Solo il baccalà doveva essere fatto, ché quello si prepara all’ultimo. Fritto, alla ghiotta, bollito con olio, limone e prezzemolo.
In cucina si davano da fare per cucinarlo e ognuno che entrava esprimeva la sua preferenza e diceva la sua. Proprio mentre Serafina dichiarava la sua propensione per quello fritto con il contorno di olive nere, entrò Nino Lo Sicco.
“ Ciao, Ninuzzu”, lo salutò la birbantella con malizioso sorriso, “ e a tia ‘u baccalaru, cuomu ti piaci?”.
“ Cuomu mi piaci?”, ribatté pronto quello, “ avvicinati ca ti lu dicu…” e bisbigliando all’orecchio della ragazza, sibilò, “ stinnicchiatu (adagiato), alla francesa!!!!”