di Salvo La Porta

Il Parroco di Assoro la faccia?… di bronzo ce l’aveva. Le parole di donna Sarina non l’avevano neppure scalfito; anzi, aveva avuto persino la sfrontatezza di aggiungere le sue di rampogne contro quegli sprovveduti, che avevano sparso tanto veleno nei confronti del povero Silvestre, ché nessuno meglio di lui sarebbe stato capace di rivestire la carica di Arciprete, carica che di fatto aveva sino a quel giorno egregiamente esercitato.

Nessuno meglio di lui poteva fare il Vicario Foraneo e a nessuno più che a lui sarebbe potuto essere stato conferito il titolo di Monsignore.

La sorella… poi, “ ah, la grannissima buttana”, pensava tra sé e sé la signora Lo Sicco, “ cu quali curaggiu si vinni a prisintari? Donna Sarina di ca’, donna Sarina di dda’…Ancora cu sta’ donna Sarina! Nun lu voli capiri ca’ sugnu la Signora Sarina Lo Sicco Tramontana, nata Lammiru e matri di l’Arcipreti?”

Ma zitta. Zitta doveva stare, doveva fare la “curnuta pacinziusa”, fare come i cornuti che non possono dare scandalo e si comportano come se la moglie fosse il più preclaro fiore di purezza e onestà coniugale.

La presenza del Vescovo in casa le consigliava, inoltre, un comportamento prudente e signorile; proprio come si conviene alla mamma di un sacerdote di santa vita come suo figlio che, solo per il desiderio di servire con obbedienza assoluta la Santa Chiesa, stava per sobbarcarsi il peso immane di una carica tanto onerosa.

Riservò, pertanto, ai due ‘nfami fratelli tutte le “civilizze”, di cui era capace; stese sul tavolinetto una delle tovaglie più belle che avesse, uscì le tazzine di porcellana e la zuccheriera d’argento e ordinò che si ravvivasse il fuoco, per mettere su la caffettiera napoletana, mentre lei cominciava ad intavolare la più amabile delle conversazioni. Intanto,“i vudedda”, le budella le si attorcigliavano nello stomaco, mentre

con il più serafico dei sorrisi presentava il vassoio d’argento colmo di picciddati all’assorino ed alla di lui sorella, entrambi malati di diabete.

“ Ne prenda uno di fichi, Signorina Petronilla”, faceva porgendo il dolce alla donna, “ e, vossia, Patri Epparrucu, sulu uno si nni sta mangiannu? Chi fa? Chi avi un uocchiu sulu? Dui, almenu dui si ni devi mangiari…tranni ca nun ci piacinu” e qui tirava fuori il più mellifluo dei sorrisi.

“ Non vorremmo abusare”, fingevano di protestare quelli, “ e poi, con il nostro diabete…”

“ Ma quale diabete?”, incalzava lei, “mangiate tranquillamente, ca’ sulu i lignati fanu mali” e appena Serafina ebbe servito il caffè, volle lei stessa zuccherarlo e “arriminallu “ nelle tazzine.

Chiese, quindi, quanto zucchero ci volessero, per sentirsi rispondere che un po’ meno di un cucchiaino sarebbe andato bene; come se non avesse sentito, ne caricò due bei cucchiaini abbondanti e si affrettò a mescolare e, “ vilenu, vi devono fare”, non poté fare a meno di pensare, mentre i due si accingevano a sorbire.

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A cena, oltre alla famiglia Lo Sicco, della quale erano parte integrante le sorelle Rappè e Tommaso, al Vescovo e al suo Segretario ( un bel ragazzo di poco più di vent’anni da poco ordinato sacerdote) rimasero solo pochi intimi, Padre Efungidda, Padre Varano e, ultimo ma non ultimo, il farmacista Mazza che, nonostante la scomunica che gli pesava sul capo, era molto caro a Silvestre.

Fu una cena molto semplice, anche se sostanziosa. La “signora” Sarina, che non mancava di rivolgere le sue attenzioni particolari a Sua Eccellenza ed al suo Segretario, fece in modo che la tavola non fosse meno ricca di quella del pranzo, preoccupandosi, però, che non fosse ripresentato il cibo rimasto prima.

Non si sarebbe mai dovuto dire che a casa Lo Sicco si

fosse tirato sulla spesa. Tuttavia, anche in considerazione delle delicate funzioni dell’organismo del Vescovo, dispose che come primo piatto per tutti fosse servita la sua famosa minestra maritata, a base di scarola amara, finocchietto e borraggine, povera di sale, sempre per garantire la salute degli ospiti, e ricca di abbondante olio extravergine d’oliva, l’olio di Milocca. L’indomani il Vescovo non avrebbe avuto problemi….

A tavola, non c’erano posti assegnati, ma era ovvio che quello d’onore non poteva essere che riservato all’Illustre Ospite, alla cui destra aveva preso posto il Commendatore Peppino Lo Sicco Tramontana, mentre alla sinistra si era accomodato il dottore Mazza, che assistette in piedi ma silente alla preghiera di benedizione della mensa, senza neppure farsi il segno della Croce.

La signora Sarina e Serafina continuavano a fare la spola tra la cucina e la tavola, indaffaratissime nel servire, tanto da non riuscire quasi a sedersi.

A quest’ultima, a Serafina poveretta, come sempre era toccato il posto più scomodo. Proprio quello che la stringeva tra Tommaso e il giovane sacerdote, per cui quando doveva fare per accomodarsi, era costretta a scomodare ora l’uno, ora l’altro e, chiedendo scusa e rossa in viso, a sballottare il prosperoso seno sotto gli occhi e il naso di entrambi che, a loro volta rossi come il fuoco, non potevano evitare (giovani erano e il sangue gli bolliva) di scambiarsi un’occhiata di imbarazzata intesa, nella speranza che nessuno si accorgesse di quei movimenti.

Ad accorgersene, invece, fu Padre Varano, che non poté fare a meno di sorridere, invidioso di quei due sia per l’età, sia per le belle occasioni, che il caso aveva loro riservato.

Il Vescovo era un ottimo conversatore e, come sappiamo, il farmacista Mazza non era da meno; per cui, a tenere viva la conversazione, che era diventata un dialogo, ci pensavano loro. Mentre agli altri convitati non rimaneva che abbassare la testa in segno di approvazione a tutti e due. Proprio come quei due cugini muti, dei quali il Manzoni non riporta i nomi, che sedevano alla mensa di don Rodrigo, mentre il povero fra’ Cristoforo

aspettava di essere ricevuto da quel malandrino.

In verità, motivi di “grande dissenteria”, per dirla con Pepè, non ce ne erano. Come e chi avrebbe potuto mai dissentire dall’affermazione, secondo la quale l’uomo deve agire in maniera tale da non fare ad altri quello che non vorrebbe gli altri facessero a lui? “Non solo”, arrivarono a convenire i due protagonisti della conversazione, “non solo l’uomo non deve fare quello che non vorrebbe gli fosse fatto; egli ha il preciso obbligo di fare tutto ciò che vorrebbe che gli altri facessero a lui nel momento della necessità.”

In pratica, l’Alto Prelato e il Massone la pensavano alla stessa identica maniera ed esprimevano con argomentazioni tanto convincenti quelle verità lapalissiane, che a tutti i convitati non rimaneva, sempre per dirla con Pepè, che “testicolare”, chinando ed alzando la testa in segno di tacita approvazione.

D’altronde, Sua Eccellenza stessa aveva invitato, magari senza volerlo, al silenzio, sentenziando che il Signore ci ha dato due orecchie e una sola bocca, per invitarci ad ascoltare il doppio di quanto parliamo.

Quindi tutti rimanevano zitti e taciti consenzienti, “ qui tacet, consentiri videtur”. Tutti e più di tutti …Tommaso e il giovane Segretario, che avevano capitolato allo strofinio della coscia di Serafina sulla loro e, di tanto in tanto, allungavano la mano sotto il tavolo, imbarazzatissimi di scontrare l’uno quella dell’altro.

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La cerimonia di insediamento di don Silvestre era stata fissata per il giorno dell’Epifania, il sei di gennaio e, poiché le giornate erano veramente tiepide, ché sembrava primavera, Sua Eccellenza si degnò di chiedere al Commendatore la cortesia di essere ospitato a Milocca, sino a quella data.

Al Commendatore ed alla sua gentilissima Signora non parve neppure vero ricevere un onore così grande ed inaspettato, per cui si sprofondarono in mille ringraziamenti e organizzarono, perché l’indomani mattina tutto fosse pronto, per ricevere

degnamente un Ospite così di riguardo ed il di lui Segretario.

Lungo il tragitto, Sua Eccellenza espresse il desiderio, che per tutti era un gradito dovere, di passare a fare visita a Nino Mobilia, suo amico degli anni giovanili ed anche lui frequentatore assiduo, insieme a Nino Lo Sicco, a fra Maria Angelico ed allo stesso Vescovo, dei salotti di via Trieste.

Trovarono quello zuzzerellone sull’aia del suo giardino nei pressi di Pirato, mentre contrastava con due villani sul prezzo delle uova, che quelli avevano portato dentro un paniere.

All’arrivo dell’Alto Prelato, Nino si illuminò in volto, alzò la metà del baffo del sorridente labbro superiore destro (proprio come fanno i cani da caccia quando fanno festa ai loro padroni), lasciò di sasso quei due e gli si precipitò ai piedi, per afferrargli la mano e baciargli l’anello.

Rivolto, quindi, ai due villani, certo di avere trovato un insospettabile complice per la buona riuscita della “tragedia”, dello scherzo che aveva appena imbastito, “ spiatici ‘o Vispicu, chiedete al Vescovo…”.

Ma il Vescovo, conoscendo bene Nino ed intuendone le ilari intenzioni, non diede il tempo di farsi porre domande e dopo essersi concesso al bacio della mano, benedisse tutti e con la scusa di dovere recitare l’Ufficio quotidiano si appartò, lasciando a Nino Lo Sicco e a fra Maria Angelico il compito di coadiuvare l’amico.

Il Frate esplose nella sua solita fragorosa e grassa risata e senza neppure sapere di cosa si trattasse, sentenziò, “ veru è!”

Proprio vero era che la Nasa andava per le campagne alla ricerca di uova di galline ruspanti, purché fossero fecondate dal gallo, e la contrada di Pirato dava garanzia di serietà estrema, poiché quelle uova dovevano servire per i primi segreti esperimenti e forse inviati nello spazio. Ma, per carità, che si tenesse l’acqua in bocca….

Per cui, in una stanzetta buia e sotto lo sguardo vigile dei due villani, le uova furono esaminate uno per uno alla controluce di una candela, per accertarne la positività al requisito, ma neppure uno risultò idoneo all’accurato esame di fra Maria

Angelico e ai poveri malcapitati, delusi ed amareggiati, non rimase che abbandonare quella che avevano creduto una preziosa mercanzia, perché fosse data in beneficenza.

A Milocca, intanto, tutto era pronto per ricevere adeguatamente gli ospiti e Serafina ed alcune altre ragazze si erano potute finalmente riposare nell’ampia cucina, dove erano accorsi a fare loro compagnia Tommaso e il giovane Segretario, al quale scappò di proporre di ingannare piacevolmente il tempo con il gioco della “mosca cieca”.

La proposta fu accolta da tutti entusiasticamente e i giovani cominciarono a giocare nell’allegria generale. Serafina, quando le toccava il ruolo della mosca, era bravissima, insuperabile; in men che non si dica, riusciva ad acciuffare i due ragazzi, capitandole sempre di afferrarli per una bottiglia di gazzosa, che quelli custodivano dentro i calzoni.

Mentre in cucina ci si dava ai “garruli trastulli”, si sentì il suono della tromba della macchina di Gaetano Lavitola.

Tutti accorsero, per vedere arrivare Salvo Ganà, proveniente da una crociera che aveva toccato anche la Nuova Guinea.

La signora Sarina, come se il cuore le parlasse, accorse con le lacrime agli occhi; veramente la Madonna l’aveva “esaurita”. Che grande gioia potere abbracciare quel nipote, che davvero amava come un figlio!

Vi furono regali per tutti. Regali di vero pregio, costosi. “ Santu figghiu, quantu spinnisti, quanto hai speso!?” non allentava di dire mentre ammirava il bel bracciale, che il nipote le aveva messo al braccio.

Regali veramente belli; ma il più bello fu quello per Serafina, un cappellino con le piume “dell’uccello del paradiso”, che vola nella Nuova Guinea. Il regalo più adatto a lei, che…. aveva il culto degli uccelli.