di Salvo La Porta
Tra la gioia per l’inaspettato arrivo dalla Nuova Guinea di Salvo Ganà, i frenetici preparativi in vista della fatidica data del sei gennaio (quando finalmente don Silvestre sarebbe diventato Arciprete, Vicario Foraneo e Monsignore) e l’eccitazione per l’attesa dell’Illustre Ospite, nessuno si era accorto che, appoggiato sulla fiancata della macchina di Gaetano Lavitola, era rimasto un giovane. Nessuno, proprio nessuno se ne era accorto; neppure Serafina, di solito tanto attenta e premurosa al solo apparire di un paio di pantaloni. Era Gennaro, un bel ragazzo, il quale oltre che collega era diventato inseparabile amico di Salvo, per rimanere imbarcato insieme a lui sulle navi da crociera per buona parte dell’anno. Molto garbato, il giovane era di quelli che, pur di non bussare, rimanevano fuori dalla porta; e lui, il povero Gennaro, anche se quasi sopraffatto dalla stanchezza del lungo viaggio, assetato e praticamente divorato dalla fame, era rimasto lì impalato, abbandonato sulla macchina con accanto la valigetta, che Gaetano Lavitola gli aveva deposto ai piedi. Furono proprio i ripetuti saluti di Gaetano, il quale non ci pensava neppure di andarsene senza ricevere la giusta mercede al suo lavoro di autista, che richiamarono l’attenzione su quella discreta e silenziosa presenza. Quando se ne avvidero, tutti si diedero a presentare le loro scuse e protestare la loro mortificazione, per l’involontario sgarbo, riservato ad una persona che, per essere amica e collega di Salvo e che, per essere stata da lui condotta a Milocca, avrebbe dovuto godere della migliore delle accoglienze. La Signora Sarina gli si avvicinò tosto e, stringendogli dolcemente la mano tra le sue, rivolse un bonario rimprovero al nipote, “ chi cummini, figghiu miu? Mu lassisti ca’ ‘stu carusu, chiantatu cuomu ‘na rasta di vasilico? Che cosa mi combini, figlio mio, ti sei dimenticato di questo ragazzo, piantandolo come un vaso di basilico?” Quella donna aggiungeva agli altri innumerevoli pregi quello di riuscire a sdrammatizzare anche nelle situazioni più spinose; non che quella una situazione spinosa fosse, ma certamente era stato molto imbarazzante dovere constatare che a casa Lo Sicco Tramontana, a Milocca, un ospite non fosse stato trattato con il dovuto riguardo. Si diede, dunque, subito da fare per colmare quella involontaria lacuna nella tradizionale ospitalità della casa. “ Ma che cosa facciamo qua, in piedi e come i mammalucchi? Assittamuni e cuntatini, sediamoci e raccontatteciqualche cosa dei vostri viaggi..” I ragazzi non se lo fecero ripetere due volte e, tra la curiosità e lo stupore generale, cominciarono a raccontare delle lunghe traversate, dei pericoli dei flutti, dell’allegra vita di bordo,dell’eleganza e delle bizzarrie dei viaggiatori, dei porti presso i quali la loro nave era attraccata, dei bellissimi posti che avevano potuto visitare, della moltitudine di persone, che avevano potuto conoscere, delle loro tradizioni, dei loro costumi, delle loro usanze e delle loro stranezze. Il racconto procedeva interessante e ricco di particolari, per cui sembrava che tutti si trovassero sulla nave e tutti fossero scesi nei porti, rimanendo coinvolti in quei viaggi che sembravano di fiaba. Si era, intanto, chiesta la Signora Sarina se i due avessero fame e se avessero bisogno di rifocillarsi e, quasi per farsi perdonare, “ Gennarù, figghiu, chi hai fami?” chiese a Gennaro come se lo conoscesse da sempre e desiderando che quello si sentisse accolto come se fosse a casa sua. Ora, chiedere a Gennaro se avesse fame, era come chiedere ad un uomo da tre giorni rimasto senza acqua nel deserto, se avesse sete; il ragazzo aveva sempre fame. Sempre! Di tanto in tanto, per una forma di civetteria, cercava di mettersi a dieta; non che fosse grosso. Per carità, grosso non era. Ma il desiderio di potere indossare al posto della divisa abiti civili, con i quali potere impressionare meglio le ragazze, gli consigliava di sottoporsi a qualche sacrificio. E, infine, anche la salute ne avrebbe tratto profitto. Il fatto era, però, che dopo i primi sacrifici e i primi digiuni, i morsi della fame lo assalivano con una virulenza, che gli faceva dimenticare ogni buon proposito e vanificava tutti gli sforzi compiuti. Come per rispondere ad una richiesta, che da quando era arrivato si era aspettato impazientemente di sentirsi fare, “ grazie, signora” rispose, “ qualcosa la prenderei volentieri; in verità, un certo languorino allo stomaco me lo sento.” “ Ma che signora e signora!!!!” obiettò la donna, “ iu sugnu ‘a zia Sarina, io sono la zia Sarina! Tu e Salvu nun siti cuomu i frati? Iu sugnu ‘a zia di Salvu e… sugnu to’ zia! Ti preparu du’ ova a zabaglioni”. Senza perdere altro tempo, quindi, si rivolse a Serafina, perché andasse a vedere se nel pollaio vi fossero uova fresche e ne prendesse almeno due, le più calde, da battere con lo zucchero e innaffiare con il marsala. Serafina sembrava esitare alquanto, “zia Sarì, vossa nun si siddia, ma iu ‘nto puddaru nun ci vaiu sula..l’atra vota, ddu addu masculu m’avia assaccatu; avia partutu pi l’uocchi…o chi scantu!” Non se la sentiva proprio di andare nel pollaio da sola; l’altra volta, il gallo aveva cercato di assalirla, agli occhi si era diretto, quasi per volerla accecare…che paura! Gennaro (vuoi per senso di cavalleria, sempre militare era, vuoi perché il pensiero di restare solo con Serafina lo intrigava un po’) si prontò per farle compagnia e, prima che la zia potesse impedirlo, insieme alla ragazza si diressero al pollaio. “ E tu, Salvuzzu, nun hai fami?” fece, quindi, al nipote Sarina, “ no, zia, nun haiu fami”, rispose quello. “ Mangia, mangia, ca’ ‘a carni sta bedda e atti, la carne fa sembrare bello un gatto ben pasciuto e anche se non hai fame…metti ‘u pani ai denti, ca a fami si senti, l’appetito vien mangiando”°°°°° Aveva ragione Serafina a non volere andare da sola nel pollaio; sembrava che il gallo l’avesse proprio con lei. Infatti, non ebbero neppure il tempo di entrare nel recinto che le galline cominciarono a carcariare, ad emettere vigorosi versi di paura e a svolazzare nel recinto, mentre il variopinto maschio dalla lunga e rossa cresta cominciava a lanciare i suoi “chicchirichì” e ad arruffare le piume, per ricordare al mondo intero che lì il padrone era lui. Era appena andata Serafina a vedere se nel paniere vi fossero uova, che con un balzo le saltò addosso quel maledetto bipede, dirigendosi proprio agli occhi con il deliberato intento di accecarla. Se non fosse stato per la presenza di spirito di Gennaro, che si mise a roteare un marruggio, un nodoso bastone appoggiato in un angolo, la povera ragazza se la sarebbe vista proprio brutta. Ma avvenne che il roteare del bastone, piuttosto che spaventare il gallo, si dirigesse proprio ad un palmo dal naso di Serafina che, teneva alcune uova con i lembi del grembiule e sempre più impaurita, cominciò a scivolare, dando l’impressione di cadere in malo modo; cosicché Gennaro, affrettatosi a cercare di evitarne la caduta, scivolava a sua volta, trascinandosi la ragazza ed andando con una giravolta a finire proprio sopra di quella. E’ inutile dire che nella caduta Serafina fu costretta a lasciare i lembi del grembiule e le uova andarono a scafazzarisi, a strapazzarsi, andando a finire proprio sui calzoni del povero Gennaro. La ragazza, finalmente rialzatasi, cercava in tutti i modi di rimediare a quell’involontario inconveniente, invitando il marinaio a toglierseli quei calzoni, che lei stessa avrebbe cercato di pulire alla meno peggio, ma a quello non venne agevole farlo. Avrebbe fatto come avrebbe potuto; e stava, appunto, cercando di togliere almeno il grosso delle uova, quando la zia Sarina, insospettitasi accorse, trovandosi di fronte a quella imbarazzante scena, alla quale come suo costume mise fine con il più innocente dei sorrisi. Fortunatamente, a casa le uova non mancavano; certo, non erano calde calde, ma niente ci faceva e Gennaro poté sorbirne due a zabaglione con il marsala, riprendersi….dalla disavventura e… cambiarsi con libertà i pantaloni. Ma quella era pro prio una giornata particolare; le visite si susseguivano una dopo l’altra e la caffettiera napoletana era sempre pronta sul fuoco. Ad onor del vero, per riprendere un modo di dire tipico degli ospiti marinai, “ Milocca, sempre un porto di mare era stato” e la gente andava e veniva, chi per lavoro, chi per una visita, chi per chiedere una cortesia; non si può dire che a Milocca si soffrisse la solitudine. Gennaro non aveva ancora finito di sorbire le due uova a zabaglione e di pulire la tazzina con qualche altra goccia di marsala, che mandò giù tutto di un fiato, quando si sentì la tromba di una macchina campagnola, che si fermò nell’attesa discreta che qualcuno della casa andasse ad accoglierne gli occupanti, i quali si era ben guardati dallo scendere non tanto per discrezione, quanto per la paura dei cani, che non la smettevano di latrare e digrignarei denti contro di loro. Accorse subito Salvo che, acquietati i cani, incoraggiò i nuovi arrivati ad accomodarsi nell’aia, nonostante non avesse riconosciuto alcuno. Ci si aspettava la visita guidata di alcuni studenti della Facoltà di Agraria dell’Università di Catania, ma nessuno sapeva se e quando quegli studiosi fossero venuti. Tuttavia, proprio di loro si trattava ed il Commendatore era stato informato di quella visita, che era stata concordata con lui in tutti i particolari, ma della quale a causa degli innumerevoli accadimenti, che si erano così vertiginosamente susseguiti uno dopo l’altro, si era completamente dimenticato. Strano, per lui sempre così attento. Molto strano; ma capita. “Cosi ca’ capìtinu!” si affrettò a giustificare un giovanotto della compagnia in dialetto nicosiano. Come da usanza della Casa, i ragazzi e il professore Marcello Rao, che li guidava furono subito accolti, messi a loro agio e invitati a bere il solito caffè “Buni”, gustando le giammelle, le savoiarde, appena sfornate dalla Signora Sarina che, sempre a detta del giovane spiritoso ragazzo nicosiano, non avevano nulla da invidiare a quelle di “ Nicuscì”. Intanto, che mangiassero e si rifocillassero; ci sarebbe stato tempo, per visitare l’azienda e per parlare delle pregiate sementi di frumento tra poco, appena sarebbe venuto il Commendatore, che presto sarebbe arrivato. Tra una parola e l’altra, sia Salvo Ganà che Marcello Rao cominciarono a rendersi conto che qualcosa li accomunava; non riuscivano a capire cosa, ma qualcosa in comune era certo che l’avessero. Già entrambi, al momento di salutarsi, avevano avuto la sensazione di essersi già visti. Ma dove? Ma quando? Per una forma di giusto e prudente pudore, avevano preferito non fare seguire alla stretta di mano iniziale un fortissimo fraterno abbraccio; proprio di quegli abbracci che ci si scambiano tra fratelli, della cui esistenza ciascuno sa, ma che nessuno ha mai né incontrato, né visto. A sancire la veridicità di questa fraterna sensazione fu una citazione di Gibran, che Marcello Rao lanciò lì nel discorso,“ Ci vuole un minuto per notare una persona speciale, un’ora per apprezzarla, un giorno per volerle bene. Ma tutta una vita perdimenticarla.” Non c’erano dubbi, avevano tante, tantissime cose in comune; si sarebbero potuti abbracciare come fratelli. Il Commendatore tardava ad arrivare; cosa che non era mai successa e la moglie Sarina, pur senza farsene avvedere, cominciava a preoccuparsi, quando da una straula, un carretto senza ruote che i buoi e i muli trainavano sulla terra, scese Tano Fracchitedda, il quale avvisava che il Commendatore era dovuto correre ad Assoro insieme al Vescovo e a fra Maria Angelico; il Parroco e la di lui sorella Petronilla nel corso della notte, che seguì la visita a casa Lo Sicco Tramontana a Leonforte, erano stati colti da una crisi iperglicemica e stavano per lasciarci la pelle. “Bedda matri”, fece ipocritamente addolorata la zia Sarina, “ non cridu ca ci pottiru fari mali i picciddati e ‘u cafè!?” “ Nuautri, auguramu cosi buoni pi’ tutti…, noi auguriamo cose buone per tutti”, concluse poi non potendo trattenere una specie di sorriso mefistofelico.