di Salvo La Porta

Fracchitedda si mise a raccontare per filo e per segno tutti i burrascosi particolari, che avevano investito i due malcapitati come se fosse stato lì presente; e, in verità, appariva chiaro che erano stati proprio i picciddata e l’abbondante zucchero nel caffè, che aveva offerto la signora Sarina, a provocare la tremenda crisi iperglicemica alla signorina Petronilla e al Parroco di Assoro.Una notte insonne e travagliata avevano trascorso, fitta di incubi e di strani presentimenti; non riuscivano a poggiare le spalle sul doloroso giaciglio, che di corsa dovevano alzarsi per andare in bagno, a svuotare gli orinali, che tenevano sotto i letti. L’arsura li divorava e non c’era acqua che gli bastasse. Il povero Parroco non poteva fare a meno in uno degli incubi più ricorrenti di sentirsi come il “ ricco Epulone”, che invano implorava il Padre Abramo, perché gli mandasse Lazzaro con il dito intinto anche di una sola goccia nell’ acqua. Alternava le preghiere della buona morte rivolte a santa Prizzita, Brigida, a quelle del transito di san Giuseppe, perché finissero quei tormenti e, se proprio doveva morire, gli fossero perdonati i peccati e fosse condotto in Paradiso.“ Prizzita santa, addinucchiuni stava, davanti a un Crucifissu, ca’ ciancia, santa Brigida stava inginocchiata davanti a un Crocifisso e piangeva”, non cessava di ripetere in preda agli sbalzi della temperatura corporea, implorando l’aiuto della Santa e poi, “ Patriarca San Giuseppi, li vostri razii sunu setti, datiminni una a mia, co’ pirmissu di Maria, Patriarca San Giuseppe, voi fate sette grazie al giorno, datene una a me con il permesso di Maria”. Ma niente. Sembrava che nessuno in Cielo si curasse di quel povero Parroco, che tanto bene aveva seminato tra gli assorini e chiedeva solo di potere lavorare in pace ancora per molti anni nella vigna del Signore.Anzi! Anzi, sembrava che San Giuseppe lo guardasse quasi con una specie di corruccio, mentre si appoggiava al Suo bastone , rinfacciandogli e rimproverandogli di essersi lasciato andare ad alcune considerazioni al limite della blasfemia a riguardo, appunto, della “Verga Fiorita” e di avere lasciato intravedere la volontà di addebitargli una forma di egoistica avarizia, quando gli capitava di affermare, “ San Giuseppi, prima a so’ varba si fici, prima pensò ai fatti suoi.”Che soffrisse, quindi. Soffrisse, pregasse e offrisse la sofferenza in penitenza, perché dalla sofferenza potesse ottenere il perdono ed essere ammesso in Purgatorio. Che non avesse l’ardire di parlare di Paradiso, per carità! Non se ne doveva neppure parlare! Il Purgatorio per lui avrebbe potuto ottenere. E neppurein uno dei posti migliori.Dal canto suo, la povera signorina Petronilla, nonostante fosse abituata a raccomandarsi alle preghiere del fratello sacerdote, si rese subito conto che quello per se stesso doveva pensare e che non poteva obiettivamente fare nulla per lei.Si mise, allora tra un lamento e l’altro e trascinandosi dal letto al gabinetto, a recitare tutte le giaculatorie in onore di Santa Rita e di Sant’Antonino di Padova, ricordando alla prima tutti i giovedì offerti in suo onore, al secondo le innumerevoli“ tredicine”, che nel mese di Giugno puntualmente ogni anno gli tributava. Rassicurava, inoltre, i due santi che non ce l’aveva con loro, per il fatto che non si erano sufficientemente prodigati a farle trovare uno straccio di marito; tanto è vero che accendeva sempre candele ai loro altari, che non mancava mai di decorare con i fiori più profumati.Ma anche in questo caso, sembrava che a nessuno importasse dei lamenti di quell’attempata “verginella”.Forse che Sant’Antonino ce l’avesse con lei, per quello che aveva detto quando si parlava del ratto della Sua statua, che quei “liunfurtisazzi sarbaggi”, durante una processione con la scusa di esserne devoti si trascinarono a Leonforte?Ma lei non diceva sul serio…non aveva fatto altro cheripetere quello che dicevano gli assorini, tutti gli assorini,“ si nun è mulacciuni torna sulu, se non è un mulo torna da solo”.“Ma daveru, bedda Matri,” lo aveva detto senza malizia… davvero…”Sant’Antuninu, munacheddu finu, ‘mbrazza tiniti a Gesù Bamminu; tridici grazii faciti di continuu, facitini una a mia, Sant’Antoninu”.Intanto, la campana della Chiesa degli Angeli suonava un tocco, che martellava ossessivamente nella testa e che sembrava un “mortorio”; tutti e due ci stavano lasciando la pelle. Tutti e due. Se non fosse stato per l’immediato accorrere della domestica che, richiamata dai sempre più insistenti lamenti, si era alla meno peggio ‘ntrusciata, avvolta, nella logora mantellina nera e precipitata prima nella camera della donna, quindi in quella del sacerdote di santa vita, sarebbero stati alle “sogliole”dell’Altro Mondo”. Ma che notte! Quando il diavolo ci mette la coda…Non ti va ad inciampare quella povera donna nell’orinale di Petronilla, abbandonato a due passi dal letto, lì in mezzo alla casa?Fracchitedda evitò di raccontare i dettagli di quel maleodorante inconveniente, ritenendo di doverli tacere, essendosi avveduto che la signora Sarina era diventata bianca come la cera, sentendogli solo dire, “ cu’ rispiettu parrannu….parlando con rispetto.”“ Daveru rossa ‘a cumminaiu sta’ vota, davvero grossa l’ho fatta stavolta”, pensava la signora Sarina. Ma chi avrebbe mai potuto immaginare che un innocente dispetto sarebbe potuto andare a sfociare in un guaio così grosso? Davvero era dispiaciuta. Davvero e molto. Non le restava che pregare per i due fratelli, della sventura dei quali era stata involontaria artefice, ed andare a confessarsi, rassegnandosi di dovere sottoporsi ad una penitenza esemplare prima di essere assolta.Ma a chi chiedere l’assoluzione? A Silvestre? Per carità, meglio tenere all’oscuro quel santo figlio. Si; si risolvette infine, si sarebbe confessata la sera con Padre Varano. Non chiedeva indulgenza, ma comprensione.Non se la fidava proprio di restare lì sull’aia, troppo era dispiaciuta; per cui, chiese a Serafina di preparare altro caffè per i presenti, mentre lei sarebbe andata a disbrigare una qualche incombenza domestica.Come capita spesso, quando gli uomini rimangono da soli, il discorso va a cadere sempre sul calcio, sulla politica o sulle donne.Di calcio nessuno dei presenti era un esperto; di politica meglio non parlarne, atteso che Fracchitedda era un inguaribile comunistazzu e si sarebbe sicuramente arrivati alla lite; non rimaneva che parlare di donne, anzi di “fimmini”.Salvo Ganà e Gennaro marinai erano e in ogni porto, in cui attraccava la loro nave avevano una donna, Marcello Rao (che continuava a mantenere il comportamento serio e distaccato dell’accademico) era, come si dice, un cultore della materia e Fracchitedda dava l’impressione di saperla troppo lunga.Nel frattempo Serafina, messa la caffettiera sul fuoco, se ne stava ad origliare, fingendo di essere affaccendata in mille servizi.La leggerezza dell’argomento intavolato cominciava a sciogliere i ritegni e fece si che tutti si sentissero amici di vecchia data, tanto da entrare in confidenza e consentire a Fracchitedda di esprimere una sentenza, alla quale era giunto dopo diversi incontri amorosi e lunghissime riflessioni.“ Ora, cu rispiettu parrannu, criditi a mia, più brutta una donna è, più sa essere femmina. Voi mi capite. Una donna bella, quando giace con un uomo è come se gli facesse un favore, fa la stufficusa, la difficile; mentre quella brutta, consapevole di essere tale, si lascia andare, perde ogni pudore…fa la fimmina e adoperandosi in tutti i modi, per dimostrare la propria gratitudine, vi fa sentire veri uomini, masculi.”“ Veru è; è vero”, convennero ridendo rumorosamentegli altri.Intanto, Serafina, che non si era persa una parola diquell’appassionato ed eccitante simposio, arrivando con il caffè, simise a servire Gennaro e accostandogli all’orecchio il tintinnio del cucchiaino sulla tazzina, lo guardava con gli occhi languidi e sussurrava, “ pi tia sugnu bedda o brutta?”Quello non poté fare altro che abbozzare un imbarazzato sorriso di circostanza e ribattere, “ bella sei; certo che sei bella”, per sentirsi ancora bisbigliare con una voce che gli arrivava sino a dentro i calzoni, “ grazie, più tardi se vuoi, ti faccio vedere che so “midenna”, anche, essere brutta…”Il suono improvviso della voce della signora Sarina, che richiamava Serafina in cucina, consigliò agli uomini di cambiare registro; a casa Lo Sicco certi argomenti non era neppure immaginabile sfiorarli e, poiché di qualcosa bisognava pure parlare, anche in virtù del racconto di Fracchitedda circa i guai del Parroco di Assoro, il discorso scivolò inavvertitamente sull’esistenza di Dio.Fracchitedda si affrettò subito ad affermare che Dio non esiste, esponendo a modo suo le teorie sull’ateismo, che aveva sentito nella sezione del Partito.Ma il tema era troppo serio, per lasciarlo liquidare in una maniera tanto semplice e, diciamolo pure, tanto rozza da uno che, praticamente, non era abituato (ovvero aveva volontariamente rinunziato) a pensare con la sua testa.Tanto più che ci si trovava ospiti in casa del prossimo Arciprete di Leonforte.Fu Salvo Ganà, come sempre quando le discussioni prendevano una certa piega, ad esporre in maniera estremamente chiara la sua teoria, per la quale non è neppure concepibile, su basi serie, potere affermare che Dio non esiste.Lui lo aveva capito durante le lunghe traversate, quando il mare era calmo e quando i flutti sembravano inghiottire la nave.Lo aveva intuito, scrutando le stelle, osservandone il movimento; lo aveva carpito al sorgere del Sole ed al suo tramonto. Ne aveva parlato nelle interminabili notti insonni con la Luna.Tutto era troppo perfetto, per potere essere ascritto solo al caso. Perfetto! Troppo perfetto, perché si potesse escludere in quegli spettacoli, così “kantianamente” sublimi, l’opera di un Regista, a Sua volta Sublime nella Sua perfezione.Cosciente della Sua perfezione e della limitatezza di tutti, che da Lui provengono, si manifesta a ciascuno nel modo più conveniente, per essere conosciuto. A ciascuno di noi, la volontà e la maniera migliore, per coglierlo e conoscerlo.Sia Marcello che Gennaro, il quale peraltro aveva molte volte sentito parlare in modo tanto appassionato l’amico e collega, “testicolavano”evidentemente approvando; Fracchitedda, però, pensando che quello stesse approfittando della sua scarsa cultura, posizionò con la mano destra tra l’ascella e il braccio sinistro le copie del quotidiano dei comunisti e si partì, congedandosi bruscamente.Tano Fracchitedda, al secolo Gaetano da Fiore, non era sempre stato comunista e neppure ateo; era stato, anzi, uno dei responsabili dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento, dalla quale era scappato via, a seguito della scoperta di un rapporto di totale, fiducioso, innocente, mistico abbandono della moglie con il beneficiale della Chiesa di San Giuseppe, don Nenè Delonghis.Tano scambiò quella buona e religiosa amicizia per un’infame tresca e, senza volere sentire ragione, da angelo che era “diavulu addivintau” e che razza di diavolo mangiapreti!Non volle sentire parlare più né di Chiesa, né di Santi, né di monaci, né di parrina. “ Un Cifiru, un Lucifero, addivintau”.Non poteva stare, tuttavia, senza darsi anima e corpo ad una Chiesa ed alla Chiesa del “glorioso” Partito Comunista Italiano andò, anima e corpo, a consegnarsi, divenendone in men che non si dica “ capo cellula” e abilissimo venditore de “l’ Unità”, organo ufficiale del Partito.Aveva perso l’avambraccio sinistro ed era rimasto monco non si era mai capito come. I suoi compagni dicevanocolpito da una granata o molto improbabilmente nella guerra di Spagna; gli avversari, malignamente, andando a finire in una trappola per le volpi, perché scoperto mentre rubava olive.Era il “fractotinu”, il tuttofare della sezione, ma si era ritagliato per sé il ruolo di apostolo de l’Unità, della quale riusciva a vendere un numero considerevole di copie.“ A tia, ‘nfamuni, accattati l’Unità….tronquillu, sta tronquillu ca nun ti succedi nenti”; riusciva ad essere anche simpatico e una copia del giornale la vendeva anche a persone che con i comunisti non avrebbero voluto mai averci a che fare.Il suo eroe era Fortebraccio, Mario Melloni, brillantissima penna anche lui transfuga dalla Democrazia Cristiana al “Partito Glorioso”, ma non sapeva leggere; per cui, i famosi elzeviri dell’acuto giornalista andava a farseli leggere nella sartoria del Sindaco Nino Rubino di via Oglialoro, dal nipote di questi Nello Sciuto.Doveva avere, però, la pazienza di aspettare, perché prima della lettura del giornale, che poi commentava, il compagno Nino doveva sviluppare ad amici e compagni i sistemi della schedina della SISAL, che tutti riuscivano a vincere tranne lui stesso che li sviluppava.Mentre Nello leggeva, Tano andava in estasi ed alla fine della lettura esplodeva, battendo la mano sul lungo tavolo da lavoro per plaudire, “ evviva, evviva il gloriosu partitu cumunista ‘talianu!”Ah, volete sapere come avesse perso la mano Tano? Pare che un altro comunista, avversario del Sindaco, candidatosi in non so quale elezione gli avesse chiesto una volta, “ Tanu’, ma’ duni ‘na manu pi’ sta campagna elettorali? Tano, me la dai una mano per la campagna elettorale?” Tano Fracchitedda, improvvidamente, gliela diede e fu mano che non vide più.