di Salvo La Porta

“ Cuomu fu, cuomu non fu”, ad ogni buon conto, Ninicchio la materia riuscì a prendersela.

Quel giorno, fu l’unico a superare l’esame, anche se in maniera…volante.

Mentre rispondeva alle domande, che il professore Schiaccianoci gli poneva distrattamente, gli altri due “cucchi” pensavano ciascuno ai fatti loro.

L’assistente, che somigliava a Cita la scimmia di Tarzan, aveva tirato fuori da una borsetta consunta una forbicina e si era disinvoltamente lasciata andare ad un’accurata “manicure” di entrambe le mani, soffermandosi a raschiare lo smalto rosso, residuato sulle unghia ed alzando di tanto in tanto il capo come se fosse interessata all’interrogazione.

L’altro, con i capelli impomatati da una brillantina al mallo di noci, che avrebbe dovuto nasconderne l’incipiente grigiore, alternava la funzione del dito indice della mano destra una volta sturandosi l’orecchio, un’altra nel pulire le camere di entrambe le narici, lasciando scivolare le caccole con lo schioccare dello stesso dito indice e del pollice sotto il tavolo.

Dal canto suo, Schiaccianoci, assorto nei suoi pensieri, non la smetteva di grattarsi la testa quasi calva, riempiendo di forfora la superficie del tavolo e solo quando gli parve, mentre ancora Ninicchio parlava, lo interruppe,

“ basta,basta così, lo vuoi un diciotto volante?”

Il ragazzo, che aveva disperato già sul buon esito dell’esame, tirò un respiro di sollievo e anche se non aveva capito che cosa mai si potesse intendere per “volante”, senza pensarci su due volte, “ si, si… certo, come vuole lei”, si affrettò a balbettare.

Fu proprio allora che il Professore, senza neppure guardarlo in faccia, scrisse “diciotto” sul libretto, che fece “volare” sulla testa degli stupefatti studenti, che avevano assistito agli esami, e cantando a squarciagola “vola colomba bianca, vola” ,

 

la canzone di Nilla Pizzi, “curri, vola, va’ pigghitillu stu’ diciottu, corri, vola va’ a prendertelo questo diciotto”, gli gridò come un forsennato.

Ninicchio non se lo lasciò ripetere la seconda volta e…giù per le scale, con il fiato grosso e ringraziando in cuor suo Pilaro per i suoi buoni uffici.

Se avesse riflettuto soltanto un po’, il caro ragazzo avrebbe ricordato che Schiaccianoci ai suoi saluti aveva prontamente e sgarbatamente protestato che quel Signore non lo aveva mai visto e che non sapeva neppure della sua esistenza.

Ma così siamo gli uomini; a volte, la verità ci si presenta improvvisamente, magari schiaffeggiandoci con inaudita virulenza, ma noi ci ostiniamo a non volerla riconoscere, ritenendo più comodo abbandonarci ad una falsa verità, che altri per proprio tornaconto e a nostro danno hanno preconfezionato per noi.

Se Ninicchio, che poi nel tempo si rivelò essere un professionista serio e coscienzioso, avesse avuto maggiore contezza delle sue indubbie capacità e avesse avuto maggiore fiducia in se stesso….

Ma, alla fine, quello che contava era che gli esami li aveva superati e, leggero come una libellula, aveva cominciato ad organizzarsi mentalmente, per correre alla stazione e fare ritorno a casa.

Si accorse, però, che era già tardi e che l’ultimo treno era partito già da un pezzo e non gli rimaneva che trascorrere la notte a Palermo.

Si ricordò che molti universitari leonfortesi, principalmente di Ingegneria e Architettura, stanziavano in una casa, le cui camere venivano date in affitto a studenti e a lavoratori, che trascorrevano diversi giorni della settimana in città.

Si determinò, pertanto, di andare a bussare al secondo piano di quello che era stato il palazzo del Principe di Castelnuovo, in Vicolo Castelnuovo, proprio alle spalle di Piazza Bologni.

Il palazzo era fatiscente e presentava sulla facciata

 

accanto al portone una lapide marmorea a ricordo del “ Principe di Castelnuovo, di Palermo e d’Italia onore e vanto.”

Si chiese Ninicchio per qualche minuto che cosa mai avesse potuto fare il Principe, per essere tramandato ai posteri come onore e vanto dell’Italia intera; ma, nonostante avesse cercato di frugare tra i suoi ricordi scolastici di storia, non riuscì neppure a ricordare chi mai fosse stato l’illustre personaggio.

Assorto nei suoi storici pensieri, non si era accorto dell’arrivo di un giovane uomo, che portava al guinzaglio un cane e che, vedendolo, “ Ninicchio, ma tu non sei Ninicchio?” con voce compiaciuta lo salutava.

Riconobbe nel giovane Marcello Rao, il professore di Agraria, che aveva conosciuto a Milocca e con il quale aveva da subito fraternizzato ed il suo cane Dago che, scodinzolando e mugolando di gioia, gli saltò addosso, abbandonandosi a leccargli il viso, senza dargli la pur minima possibilità di schermirsi da quelle inaspettate, e non molto gradite, effusioni di affetto.

Insieme salirono gli scomodi scalini e si ritrovarono a bussare alla porta della casa, che li avrebbe ospitati per quella notte.

Ad aprire fu Pippo, un giovane promettente studente di Architettura, che li fece accomodare subito in una cucina ampia e affumicata, dove insieme ad altri ospiti stavano consumando una frittata di melanzane, che i padroni di casa avevano malaccortamente dimenticato, prima di partire per il loro paese e che loro avevano ben pensato di non fare andare a male.

Accettarono l’invito a mangiarne un po’, ma non avevano ancora finito di gustarne l’ultimo boccone, che si sentì girare la chiave nella toppa della porta d’ingresso; era il signor Coletti, accorso a salvare la ghiotta pietanza, quando era oramai troppo tardi.

Entrarono nel panico, ma Coletti fu di spirito e con un sorriso benevolo, “buon pro vi faccia”, augurò ai giovani; quindi, rivolto ai nuovi arrivati, chiese se intendessero trascorrere la notte e li introdusse in un’ampia camera con due letti, le cui lenzuola a

 

Ninicchio non parvero proprio fresche di bucato. Ma non era l’Hotel delle Palme, pazienza.

Trascorsero ore bellissime, prima di andare a dormire; le ore che i giovani universitari trascorrono tra frizzi e lazzi, a parlare di donne, di calcio, di politica e di Università.

Ciascuno raccontava la sua esperienza e tutti a sbellicarsi dalle risa tra un bicchiere e l’altro di vino e immersi nell’azzurro fumo delle sigarette Nazionali, le più economiche.

Ovviamente, Ninicchio raccontò la sua esperienza, fresca fresca, evitando prudentemente ogni riferimento a Pilaro e da lì, la stura per altri incredibili episodi, riguardanti la bizzarria del comportamento dei cattedratici.

Marcello Rao raccontò un episodio, che lui giurava e spergiurava esser vero, che mise a dura prova lo stomaco degli altri, rischiando di richiamare in gola la frittata, che avevano indebitamente divorato.

Raccontò di un professore di Catania, docente di anatomia che, avendo condotto i suoi allievi a Palazzo Ingrassia per un’autopsia, volle saggiarne la capacità di sapere affrontare la professione medica.

“Per esseri dei buoni medici”, disse mentre procedeva con il bisturi al taglio della pancia del cadavere, “ occorre avere forza di stomaco e occhio clinico” e, così dicendo, intinse un dito nella parte e se lo portò succhiandoselo in bocca; “chi tra voi sarebbe capace di fare quello che io ho appena fatto?”

I ragazzi, chi stava per svenire, chi per vomitare. Tranne uno; il solito lecchino, che senza indugio si lanciò a compiere l’operazione, che il professore aveva appena eseguito.

“ E bravo, bravo davvero”, fece il docente, “ quanto a stomaco ne hai da vendere; occhio clinico, però, zero tagliato…perché, se fossi stato più attento e se non fossi stato divorato dal desiderio di apparire, ti saresti accorto che io ho intinto l’indice della mia mano nella pancia del cadavere, ma mi sono portato in bocca l’anulare; tu, invece…”

 

Alle cinque del mattino , il nostro amico era già in piedi, svegliato dal canto “a vuci di testa” di “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”, con il quale un anziano ferroviere, anche lui ospite della casa, avvertiva che l’unico bagno (si fa per dire) era occupato.

Ninicchio aspettò pazientemente il suo turno, si diede una spruzzata d’acqua in faccia, scese di corsa le scale e con quattro sgambettate fu alla stazione ferroviaria, dove avrebbe preso un caffè(anche questo volante..) e sarebbe salito sul treno per Pirato, per potere essere, a Dio piacendo, a Leonforte in mattinata.

Giunto a Pirato, fu investito da un gran vociare di gente, che inveiva contro Giovanni, il proprietario del piccolo bar- emporio, che si affacciava sul piano della stazione.

Era successo che il povero Giovanni teneva sul bancone una cesta di uova sode, gli avventori per sfizio, o per fame, meccanicamente ne prendevano uno, lo battevano vigorosamente su un tavolo, lo liberavano dal guscio e, dopo averlo spruzzato di sale, lo divoravano.

Quella mattina, quel solito mattacchione di Nino Mobilia aveva sostituito le uova sode con quelle fresche; per cui, è facile immaginare la reazione di quelli che improvvisamente si ritrovavano con le mani imbrattate di rosso e bianco d’uovo…povero Giovanni!

Ma, alla fine, tutto si risolse con una risata e con una bicchierata di vino, ovviamente offerta da Nino.

Erano le undici, quando Ninicchio depositò la sua valigetta nell’androne del portone di casa di fronte al Casino dei Nobili, senza nemmeno avere il tempo di salire su in casa.

Li davanti, infatti, c’era il Professore Pilaro, che confabulava con alcuni giovani dell’Uomo Qualunque e del Movimento Sociale Italiano.

Non poté fare a meno di fermarsi ed unirsi alla compagnia, che sembrò non accorgersi della sua presenza.

Da quello che gli fu dato di sentire, capì che si stavano

 

preparando per disturbare “in contraddittorio” un comizio che il repubblicano ennese Renato Farina era venuto a tenere a Leonforte in nome della C.G.I.L.

A Farina avevano “surriatu”, soffiato che “i fascisti” avrebbero cercato di provocare disordini; per cui, aveva ritenuto opportuno venire a Leonforte in forze, facendosi precedere da una cinquantina di “compagni”, che erano arrivati su due camion, prudentemente posteggiati “ ‘a Carrivarizza”, alla Cavallerizza,in piazza Branciforti e questo non poteva andare giù ai fascisti, che si sentivano provocati.

Intanto, nella Piazza Margherita gli altoparlanti gracchiavano l’Inno dei Lavoratori, “ su fratelli e su compagni, su venite in fitta schiera”, mentre “i fascisti” cantavano “Italia proletaria, non avrai bandiera rossa”.

La tensione si tagliava con il coltello e le Forze dell’Ordine si erano infiltrate tra le gente, cercando di fare da cuscinetto tra le opposte fazioni. Carabinieri a cavallo perlustravano discretamente la Piazza e le vie adiacenti.

Quando sembrava che il buonsenso fosse prevalso, Farina prese la parola; ma non aveva ancora profferito il consueto incipit, “ Compagni, lavoratori,” che qualcuno, rassicurato che l’ordine era stato ristabilito, alzò la saracinesca del suo negozio, interrompendo il silenzio a fatica raggiunto con un suono metallico, che molti scambiarono per…una sventagliata di mitra.

Ne seguì un tafferuglio senza precedenti, uno spingere, un correre disordinato, un urlare convulso, un alzare di mani che si levavano sin sotto il balcone del dottore Musumeci, dal quale l’oratore avrebbe dovuto tenere il suo comizio, che concluse con alcune parole, che ancora oggi i più anziani ricordano,

compagni, a li camii, a li camii, la nostra patria è Ghenna, ai camion, ai camion, la nostra patria è Enna!”

‘U fuiri è vriogna, ma è sarbamientu di vita, fuggire sarà pure una vergogna, ma ti salva la vita!”