di Salvo La Porta

Ristabilito l’ordine pubblico, sulla Piazza Margherita e sulle vie ad essa adiacenti era piombato un silenzio di tomba.

I negozi erano rimasti, tuttavia, chiusi e solo i bar avevano alzato a metà la saracinesca.

Davanti al Caffè Impero di Agatino Vasta, all’angolo tra la piazza ed il marciapiede alla destra di chi scende il Corso, un gruppetto dei giovani “fascisti”, che praticamente avevano innescato i disordini, si intratteneva a discutere con il professore Pilaro, commentando compiaciuto la precipitosa fuga di Farina e dei suoi compagni ennesi.

Seduto poco distante con l’aria di quello che vuole far credere di volere badare solo ai fatti suoi, il libraio in pensione Pippinu Larzianu, che i coetanei chiamavano “cucinu” e i più giovani “ziu Pippinu”; da nessuno lo sentii mai chiamare “ Signor Larzianu”.

Non gli sfuggiva nulla di quello che accadeva sino a dove il suo occhio riusciva a vedere e l’orecchio a sentire.

Era stato sottoposto a non si sa quante operazioni chirurgiche ed era stato capace tanto egregiamente di fingere di essere vivo, che le persone che gli stavano accanto, tale lo ritenevano e lui stesso medesimo aveva finito per credersi in vita.

Riusciva a stare per ore intere, quando c’era il sole, lasciato andare su una sedia del Caffè, senza mai cedere alla tentazione di una seppure minima consumazione, per la simpatica disperazione di Agatino.

Come riuscisse ad aggrovigliare la gamba sinistra con la destra, formandone una specie di impenetrabile blocco marmoreo, era rimasto un mistero per tutti.

Come misterioso era rimasto un susseguirsi di gesti, che qualcuno interpretava come segnali d’intesa o di ammiccamento.

 

Gli occhietti vispi, i radi capelli tra il bianco e il grigio-topo tirati all’indietro, le gambe aggrovigliate l’una sull’altra, fissava quanti gli capitavano a tiro dritto negli occhi. Si strofinava, quasi ad artiglio, l’indice della mano destra sul dorso del naso, facendo poi scivolare la mano intera a stringere il mento, per aiutarsi ad aprire metà della rugosa bocca, da cui lasciava uscire un puntino di lingua.

Quando qualche giovinotto gli veniva a tiro, o tra sé e sé o ammiccando a chi gli sedeva accanto, biascicava, “ s’abbersa, si sistema”, ovvero “sa come sistemarsi”, affidando alla libera e discreta interpretazione di chi gli stava vicino l’allusiva espressione che, il più delle volte, avrebbe voluto fare riferimento a particolari inclinazioni sessuali del malcapitato.

Aveva appena finito di constatare che un giovanottone biondo polentone, in compagnia di un uomo più maturo, si sarebbe saputo “abbirsare, sistemare”, che questi gli si avvicinò per chiedergli se quel signore maturo, che animatamente chiacchierava con quei giovani, fosse il professore Pilaro.

Troppo tardi, “ ‘u cucinu Pippinu” capì che si trattava di due carabinieri in borghese che, a seguito dei disordini appena conclusi, volevano avere le idee più chiare sull’accaduto.

Quando se ne rese conto, riuscì a malapena a ritirare quella punta di lingua, che gli era sfuggita dalla bocca, ad inghiottire (quasi soffocandosi) la saliva, che gli era salita su e ad emettere un suono inarticolato che, accompagnato da una leggera flessione del capo, inequivocabilmente voleva significare, “ si, iddu è, si lui è”.

Il Polentone ringraziò e discretamente si avvicinò a Pilaro, al cospetto del quale si qualificò, invitandolo a seguire lui ed il suo muto collega, presso la Caserma di via Nicoletti.

Dinanzi al portone d’ingresso, quando si dice il caso, si trovava Padre Varano che, in considerazione delle ipocrite attestazioni di stima di Pilaro, si era sentito in dovere di accompagnarlo, garantendo per lui, “ come se fosse la sua stessa persona”.

 

In considerazione di una garanzia tanto prestigiosa, l’incontro tra il Professore e i Militari dell’Arma assunse presto i toni di un cordiale colloquio, nel corso del quale Pilaro non ebbe alcun ritegno nel disegnarsi come il più devoto figlio della Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana e un probo cittadino, onesto e riconoscente nei confronti dell’Arma dei Carabinieri; tanto da tenere in considerazione la giornata del ventuno novembre, festa della Virgo Fidelis, poco meno del Santo Natale e della Santa Pasqua.

Conclusosi l’abboccamento, Pilaro formulò le sue più “sincere” grazie al Sacerdote, protestandogli di essere sempre a sua completa disposizione ed insistendo vivacemente, per accompagnarlo in Matrice, da dove poi si sarebbe recato in visita al suo amico, il farmacista Mazza.

Entrambi, quindi, a braccetto cominciarono a claudicare, soffermandosi di tanto in tanto, raffigurandosi a chi li avesse osservati come il punto e la virgola di quelli che scrivono. Punto, virgola, punto e virgola….e ancora, virgola, punto e virgola, punto, sino alla Matrice, dove si separarono come due buoni amici; i migliori degli amici.

Giunto alla Farmacia di Mazza, l’ineffabile Pilaro raccontò dettagliatamente la visita alla Caserma dei Carabinieri, non omettendo l’inaspettato aiuto, che aveva ricevuto da Padre Varano, verso il quale (per tutta gratitudine e come suo solito) riversò le ingiurie più spregevoli e i vituperi più originalmente malauguranti, figli del suo livore anticlericale.

Mazza ascoltava, ma non profferiva parola, lasciando intendere al suo sprovveduto, ipocrita interlocutore che non apprezzava per nulla, anzi disapprovava (forse, sarebbe meglio dire, deplorava) quel suo modo di fare, che riteneva oltraggioso per la persona di Padre Varano e in stridente contrasto con l’etica massonica.

Ma non soltanto il Farmacista era infastidito dal racconto di Pilaro; anche altri tre “fratelli”, che erano soliti stanziare in farmacia, essendo Mazza il loro Maestro Venerabile, non facevano mistero di provare una certa ripugnanza per la rozza ingratitudine di quell’uomo che, lungi dall’essere “libero e di buoni costumi” si palesava essere nient’affatto buono e certamente di “liberi costumi”.

Chiesero, quindi, che cosa avessero da spartire con Colui, consideratone il disinvolto comportamento.

Mazza rispose che nessuno è perfetto e che la fratellanza ha ragione di essere solo se si è capaci di “coprire con il grembiule della tolleranza” i difetti del fratello, operando in modo che, attraverso il buon esempio, egli possa riuscire ad imboccare e perseguire il cammino, che glorifica il Grande Architetto dell’Universo, attraverso il bene dell’Umanità, che si raggiunge nel rispetto di ogni singolo Uomo.

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Bisogna, tuttavia, constatare che per coprire i difetti di Pilaro il “grembiule della tolleranza” sarebbe dovuto essere ampio come un lenzuolo di un letto matrimoniale!

Come abbiamo avuto modo altre volte di dire, Pilaro si stabilì a Leonforte, poiché era il più qualificato esponente del “Fronte dell’Uomo Qualunque” nella giovanissima Provincia di Enna.

Si trattava di un movimento, solo in seguito trasformatosi in Partito politico, fondato a Roma dal giornalista Gugliemo Giannini.

Il Movimento fu il prototipo dell’antipolitica e, in polemica con tutti e con tutto, faceva leva sulle istanze della media borghesia, che cominciava a sentirsi oppressa e “torchiata”.

Proprio un torchio, infatti, era quello che oggi chiameremmo il logo dell’Uomo Qualunque; un torchio, che stritolava un uomo magro come uno scheletro.

“Abbasso tutti”, molto simile al “vaffa..” del comico genovese, era la proposta politica, che veniva strombazzata dagli altoparlanti sulle macchine, “ cittadini, unitevi all’Uomo Qualunque, all’uomo della strada, all’uomo che non ha un nome”.

 

Di tale Movimento “dalle solide basi culturali e politiche”(che si professava antifascista, ma che nei fatti aveva finito per costituire il rifugio dei nostalgici del Fascismo) era esponente e campione Giovanni Pilaro.

Il Professore, le cui peculiari caratteristiche non saranno sfuggite al paziente lettore, trovò subito ottima accoglienza da parte di un gruppetto di giovani persone per bene, pulite e sinceramente legate ai più nobili ideali che, non trovando altre sponde di partecipazione alla vita politica, a causa del peccato originale di non avere abiurato al Fascismo, si scoprirono essere bene accette in un raggruppamento, in cui tutti potevano essere accolti; tutti, anche i fascisti.

Al canto di “ fuoco di Vesta, che fuor dal tempo irrompe, con ali e fiamme la giovinezza va..” si infuocavano, sinceramente convinti di operare per difendere l’onore della Patria.

Ma Pilaro….Pilaro era Pilaro!

Aveva programmato si direbbe oggi il “tour” politico della piccola Provincia e aveva stabilito, non ne fu mai chiaro il motivo, di iniziare il giro dal Comune di Sperlinga.

Sulla macchina di Gaetano Lavitola (che una lira di benzina non la vide mai) di buon mattino, oltre il Professore, presero posto alcuni giovani, tra i quali Michele Sinardi, che sarebbe poi diventato apprezzatissimo Direttore Didattico di Leonforte, al quale fu affidata la custodia di un valigione, che conteneva una vecchia macchina per scrivere “Olivetti”.

A che cosa sarebbe, poi, servita una macchina per scrivere? Boh? Ma servì… come vedremo, servì!

Alle porte di Sperlinga, il Professore sentì un languorino; per cui, avanzò la proposta, favorevolmente accolta da tutti, di fermarsi per un boccone in una trattoria.

Prima di cominciare a mangiare, però, “ Michè”, fece a Michele Sinardi, “ va pigghia a machina da scriviri, va’ a prendere la macchina per scrivere”.

Michele ubbidì e in men che non si dica la macchina era già fuori della sua custodia e collocata su un tavolo dellatrattoria.

A questo punto, il Professore tirò fuori da una carpetta un foglio e consegnatolo a Michele, “scrivi”, intimò.

Si trattava di un foglio di carta intestata “ Repubblica Italiana. Ministero dei Lavori Pubblici. Il Ministro Segretario di Stato”.

Michele non aveva neppure avuto il tempo di sbirciare l’intestazione della carta, che si sentì ripetere,”scrivi”!

“ Caro Pilaro, a seguito delle tue molteplici segnalazioni e premure, ho il piacere di comunicarti che, in data odierna, ho firmato un decreto, che prevede lo stanziamento di un milione di lire, per la progettazione dell’acquedotto di Sperlinga. Felice di esserTi stato utile, credimi sinceramente Tuo. Il Ministro Segretario di Stato. Data.”

“ Dammi cca’, dammi qua”, disse quindi a Michele appena quello ebbe finito di scrivere e, piegato il foglio di carta, lo ripose nella tasca interna della giacca.

Ora, bisogna sapere che per troppo tempo il Comune di Sperlinga soffrì il problema della mancanza dell’acqua; problema, presentato a tutti gli esponenti politici, che si recavano in visita alla graziosa città, risolto solo per la buona volontà e capacità professionale del Geometra Nino Campo, e che Pilaro aveva sbrigativamente pensato di risolvere nel modo appena narrato.

Adesso, si poteva mangiare. Arrivarono in tavola maccheroni di casa al ragù e agnello alla brace e tutti mangiarono di gusto.

Quando fu ora di pagare, Pilaro chiese il conto, sobbalzando alla richiesta del Trattore, che riteneva esosa, e con gli “occhi di bragia”, “ vergognati e ringrazia il Cielo che non ti denunzi, ammazzarici a matri, uccidere la madre all’agnellino…vergognati, pecora mi hai dato e pecora ti pago”, gridò all’esterefatto poveruomo.

Rivolto, quindi, a Gaetano Lavitola, “ Ta’, nun ci dari chiù di ‘na mità, apo’ facimu unicu cuntu… Tano, non dargli più di metà di quanto ci ha chiesto, poi facciamo un conto unico!”

Rassegnato al suo destino, il povero Gaetano pagò ed accompagnò la comitiva a Sperlinga.

Ad aspettare Pilaro all’ingresso del paese, si fecero trovare il Sindaco, che cingeva la fascia tricolore, il Parroco e…la banda musicale.

Appena la macchina si fermò, il Sindaco corse ad accoglierlo e, senza neppure salutarlo, gli chiese con trepidazione,” Professore…l’acqua?”

Pilaro non rispose, ma sfoderò il più luminoso dei sorrisi e con la mano gli fece segno che aspettasse con fiducia; quindi, si toccò la tasca della giacca, dove aveva riposto il foglio e….”andiamo”, disse.

Sul palco, il Sindaco, dopo i rituali saluti, cominciò a rappresentare l’accorata richiesta del suo popolo, mentre il Professore continuava con un rassicurante sorriso a toccarsi la tasca della giacca e a fare segnale con la mano di avere pazienza.

“ La parola al professore Pilaro”,concluse il primo cittadino, pensando di avere detto tutto.

Pilaro, allora, si aggiustò il bastone del microfono, si schiarì la voce e con i toni di chi sta per comunicare una notizia straordinaria, “ caro Sindaco, tu mi chiedi notizie dell’acquedotto del tuo paese”, fece; quindi, solennemente sfoderò fuori la lettera, che poco prima Michele Sinardi aveva scritto alla trattoria e, “…ebbene eccoti l’acqua!”

L’ingresso di quella che un tempo fu la caserma dei carabinieri a Leonforte