di Salvo La Porta 

Scesi dal podio gli oratori, il Professore fu letteralmente ingoiato dal tripudio generale, tanto da non riuscire a divincolarsi dall’abbraccio fisico della folla grata e riconoscente che, dimentica della caduta del Fascismo, rivedeva in lui una sorta di Duce, costruttore di opere pubbliche e di………………………………………………….. acquedotti.

Con il braccio destro alzato e la mano aperta in un militaresco saluto romano, giovani, anziani, donne e bambini si erano lasciati andare ad intonare, “ Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza…”, improvvisando un festoso corteo, aperto da alcuni tra i giovani più robusti ed intraprendenti, che si erano caricati Pilaro in spalla, portandolo in trionfo per le vie della cittadina, sotto lo sguardo tra il dubbioso e l’attonito dei Carabinieri.

Erano tanto presi quei giovani dal loro entusiasmo, da non accorgersi che, sollevando sulle spalle il loro eroe, qualcuno lo aveva preso per un testicolo, provocandogli un dolore che solo i maschi conoscono.

Invano, il poveretto gridava, “ mi avete preso per un coglione”, chiedendo pietà; quelli, ritenendo che la sua fosse un’espressione di pudica gratitudine, gli ribattevano a gran voce, “ nonsi, prufissu’, vossia è ranni, no Professore, lei è un grande uomo”.

Intanto, continuavano a stringere e quello ad urlare dal dolore, rintronato dai canti e soffocato da una selva di saluti romani.

“ E per il professore Giovanni Pilaru”, incitava uno, “ Italia, Italia, Italia”, mentre sollevava la mano nel saluto; “ Italia, Italia, Italia”, rispondevano all’unisono gli altri alla stregua dei catanesi devoti di Sant’Agata e sollevando, a loro volta, la mano destra nel saluto romano.

Dovette intervenire l’ignaro Sindaco che, acchiappatolo letteralmente da sotto le ascelle, se lo trascinò all’aria pura, lontano da quella calca, che rischiava di soffocarlo.

Come Dio volle, raggiunsero la macchina, che quella brava gente si era premurata di caricare sino all’inverosimile di

vuasteddi, pani di casa” spennellati col rosso d’uovo e ricoperti di semi di papaverina, verdure selvatiche, salami, caciotte, fasceddi, fuscelle di ricotta e uova fresche e tante altre prelibatezze.

Al suono della campana dell’Ave Maria, scandito dall’orologio della chiesa di San Giuseppe, furono alla scalinata Musumeci, ai piedi della quale si era fatta trovare la signorina Leonilde, che tanto somigliava a Rosina Anselmi e amatissima sorella del Professore.

Al fermarsi della vettura, la signorina come se le parlasse il cuore, si affrettò ad aprire il cofano, trattenendo a stento un urlo di compiaciuta sorpresa; sfoderò un sorriso, che ravvivava il porro, che le spiccava sulla gota destra della faccia di bronzo e, con la sua solita melliflua gentilezza, si rivolse ai ragazzi, chiedendo che la aiutassero a portare tutto quel ben di Dio a casa, alla sommità della scala.

Non le era neppure balenata l’idea che di quella abbondanza avrebbero potuto e dovuto godere anche gli altri; in fondo quella roba a suo fratello l’avevano donata.

Caru’, adeja ‘na manu l’unu acchianamuli supra sti cosi, ragazzi, svelti, una mano ciascuno saliamo sopra queste cose”, aveva detto ai ragazzi. Ovviamente, le mani dovevano essere soltanto quelle dei ragazzi, che proprio per essere ragazzi e nella loro ingenuità, si stavano già dando da fare.

Fu Gaetano a fermarli, “ un mumentu carusi, un momento ragazzi…” e rivolto a Pilaro, “ Prufissù, ci fussi ddu cunticieddu da’ binzina e da’ tratturia di sistimari, Professore ci sarebbe quel conticino della benzina e della trattoria da sistemare”.

Pilaro fece come se trasalisse, dandosi una manata sulla fronte, il debito gli era davvero passato lontano dalla mente, e assicurò che presto tutto sarebbe stato saldato.

Rispondendo, quindi, ad uno sguardo d’intesa della sorella, che lo esortava a non perdere altro tempo, si rivolse ai ragazzi e, “ caru’, damuni da fari, ragazzi diamoci da fare”.

Non avevano quelli neppure cominciato a svuotare la macchina che, ancora una volta, intervenne Gaetano Lavitola, “ Prufissù, ma tutta sta’ razia di Diu cuomu vi l’ati a mangiari sulu vossia e so’ suoru, tutta questa grazia di Dio come potete mangiarla da soli lei e sua sorella?” e, incalzando, “ apo’, sta’ ricotta nun si gnasidisci, poi la ricotta non diventa acida? Tutta sta’ virdura, cuomu a fari a munnalla dda’ puuredda, tutta questa verdura come farà a mondarla quella poveretta?”

Ma vidi chi carogna, ma guarda che carogna!” disse tra sé e sé di Tano; quindi, cercando di mascherare quanto fosse indispettito e allargando le braccia verso la sorella, come per dirle che avesse pazienza, perché lui non poteva farci niente, tirò un sospiro e “cuomu si ci cadissi ‘na pinnaredda di fighitu”, come se gli cadesse un pezzetto di fegato, “ chiddu ca è giustu è giustu, quel che è giusto è giusto…spartimu, dividiamo!” e cominciò a fare le parti, riservando per sé quella migliore, giustificandosi con un “quia sum leo!”

Ma di saldare il conto a Gaetano non ne parlava neppure; anzi, “ Tanù, o venniri di prima matina, venerdì di prima mattina dovresti accompagnarmi a Pirato, perché con Sarino dobbiamo andare a Palermo”.

Sarino scoprì al momento di essere stato precettato e Tano non poté fare altro che assicurare che il venerdì mattina avrebbe fatto il viaggio per Pirato.

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Alle prime luci dell’alba del venerdì, Pilaro scese i gradini con in braccio una radio “ Phonola” di quelle che si tenevano sui mobili. Avrebbe dovuto portarla a Palermo per farla riparare; ci teneva proprio Leonilde a quella radio.

La consegnò, quindi, a Sarino, che se la sistemò sotto il braccio, per dare inizio al suo Calvario palermitano.

Alla stazione Palermo, fece come per chiedergli consiglio, “ Sari’, chi dici, ‘a pigghiamu ‘na carrozza, la prendiamo una carrozza?”

Cosa avrebbe potuto rispondere Sarino, specie con quell’imbarazzo sotto il braccio? “ ‘nca, si!

Prima di montare, il ragazzo sistemò la radio su una poltroncina dietro le spalle del cocchiere; quindi, dopo avere aiutato il suo amico ad accomodarsi sulle poltroncine di fronte a quella della radio, salì egli stesso.

Un colpettino di frusta ed il cavallo cominciò a muoversi di buon passo.

All’altezza di un palazzo della via Maqueda, “ aspettaci qui”, fece il Professore al cocchiere e, rivolto a Sarino, “Pigghia ‘sta radiu”. Sarino ubbidì e sotto il peso di quell’apparecchio così ingombrante, finalmente muto, si inerpicò sino al secondo piano.

Venne ad aprire una donna sulla quarantina, che li introdusse nella penombra di un lunghissimo salone, all’ingesso del quale era sistemata una sgangherata poltroncina, sulla quale fece sedere il ragazzo, che si pose la radio sulle gambe, carezzandola, quasi fosse un animale domestico.

Preso, quindi, confidenzialmente l’altro per mano, lo condusse nella parte opposta al salone, dove si accomodarono su un divano, dando l’impressione a Sarino, che non smetteva di sbirciare, che stessero fornicando.

Conclusa la “conversazione”, Pilaro si presentò rosso in viso, “cuomu s’avissi ardutu ‘u furnu”,come se avesse acceso il forno e, “andiamo” intimò quasi al ragazzo, congedandosi frettolosamente dalla donna.

Sarino riprese l’apparecchio radiofonico sotto il braccio e…di nuovo in carrozza, sino ad un negozietto di Corso Calatafimi, dove venne finalmente a prenderlo in consegna un uomo, che avrebbe dovuto ripararlo.

Ultima fermata, quasi alla fine del Corso, presso l’Istituto Santa Rosa, davanti al portone d’ingresso nel quale il Professore congedò il cocchiere, consegnando al giovane un’ accorata raccomandazione, “ Sari’, nun ti fari futtiri, nun ci dari chiù di centu liri,non farti fregare non dargli più di cento lire.

Venne ad aprire una suorina, che li accompagnò nello studiolo della Superiora Suor Maria Egidia, nei confronti della quale aveva vomitato durante il viaggio in carrozza tutto il solito veleno riservato al clero ed ai cattolici.

Alla presenza della religiosa si profondò, inchinandosi sino al pavimento ed afferrandole la mano per baciargliela, mentre quella fingeva di ritirarsela.

Parlarono un po’ (non riuscì a capire di cosa Sarino), quindi, fecero per accomiatarsi l’uno di fronte all’altra e mani nelle mani, “ Professore”, sibilava lamentosamente a denti stretti Maria Egidia, “ cosa ne pensa di tutto questo malcostume, della pornografia…che ne sarà dei nostri giovani e di noi stessi?” “Madre”, tentava di consolarla Pilaro, stringendole di più la mano, sul cui dorso strofinava disinvoltamente il pollice, e con gli occhi languidi, “ siamo peccatori; ma se perseveriamo nella preghiera e nel digiuno il Signore ci perdonerà”.

“ Com’è vero, Professore, com’è vero!” sospirò la suora, “mi raccomandi nelle sue preghiere”, concluse.

“Indegnamente…vostra maternità, mi raccomandi lei nelle sue” concluse Pilaro.

Una volta fuori, sbuffò tutta l’aria che aveva nei polmoni sul suo accompagnatore e, “ Sarino, andiamo a mangiare qualcosa e poi torniamo a Leonforte. Domani è il Sabatino delle Gentildonne… n’hai dinari, ne hai soldi?”