di Lucio Sergio Catilina

Credete voi che io non abbia un’esperienza tanto vasta in materia di invasioni ed una conoscenza tanto profonda delle motivazioni, che nei secoli hanno indotto alcuni popoli ad avventarsi come belve feroci su altri, sino a condurli all’esasperato abbandono degli affetti più cari e a ridurli nel peggiore stato di prostrazione morale, politica e fisica?

Ne ho viste di invasioni; eccome se ne ho viste e…vissute!

Quindi, per favore, consentitemi di dire la mia su quello che sta succedendo in questi giorni dalle vostre parti. Un giovane giornalista e saggista, Alex Minnisale, scrive su un giornale on-line, che si chiama “Strade”, una riflessione molto attenta e dettagliata sulla tragedia, che si sta consumando in Ucraina.

Dall’incipit di tale riflessione, appunto, desidero iniziare un improvvisato, e forse improvvido, esame di quelle tragiche vicende.

Dice Alex, “la stragrande maggioranza degli ucraini ha di noi, noi europei, un’idea della quale non siamo all’altezza”. Proprio da questo miraggio, effimero e falso come tutti i miraggi, prendono il via i guai del popolo dell’Ucraina, a cui è stato fatto credere che l’Occidente in generale e l’Europa in particolare fossero il vero e unico modello di vita da raggiungere. L’Europa è l’Eden, a cui tendere con tutte le forze; il riscatto dalla soggezione russa, palese o subdola. Sulla spinta di queste fortissime e legittime aspirazioni e seguendo la moda populista, imperante e dilagante nel Vecchio Continente, gli ucraini decidono di cambiare rotta ed affidare la realizzazione dei loro progetti non più ad uomini politici, che nel tempo si sono magari rivelati incapaci, corrotti ed agli ordini di Mosca, ma ad altri.

Il 20 maggio del 2019 viene, infatti, eletto Presidente della Repubblica dell’Ucraina il signor Volodymyr Zelenskyj, di professione attore, che aveva interpretato con successo tale ruolo nella serie televisiva “Il servitore del popolo”. Aveva interpretato tanto bene le istanze dei suoi concittadini nella finzione scenica, che quelli finirono per credergli; tanto da eleggerlo. Ora, per carità, nessun preconcetto su attori e comici. Le loro intenzioni sono spesso più buone e oneste di chi sceglie la politica per professione o per proprio esclusivo tornaconto. Il fatto è che attori e comici finiscono spesso di confondere la loro reale persona con il personaggio, che sono abituati ad interpretare e che li ha condotti al successo. Confondono spesso la realtà con l’interpretazione della stessa ; vero si è che non di rado il Presidente, nel rivolgersi all’Occidente ed al mondo cosiddetto libero mentre mostra le macerie della sua terra e la tragedia dei suoi concittadini, chiedendo aiuto contro l’invasore, ripete, “non è un film”. Ricordandolo agli altri, probabilmente, lo ripete a se stesso, “ non è un film…”

Veramente, non è un film; ma una delle sciagure più dolorose e lancinanti, a cui un popolo potrebbe essere mai sottoposto. Paragonabile solo alle grandi trasposizioni sceniche di tragici avvenimenti, alle quali gli antichi assistevano, alla ricerca della loro interiore catarsi. Alla fine dei film, quasi sempre, quando la situazione appare ormai senza sbocco e gli eroi stanno per soccombere, arrivano i nostri. In questo caso, però, il nostro improvvisato ed imprudente “eroe” dovrebbe prendere atto che “i nostri” non arriveranno mai e se non si consiglierà con qualche suo sereno e lucido concittadino, che conosce l’arte della “politica”, quella vera e con la “P” maiuscola, rischia di portare veramente il suo popolo al macello. Dovrebbe cominciare a chiedersi cosa sarà della sua gente, quando finirà la spinta emozionale, che in gara di una solidarietà (qualche volta pelosa) impegna gli uomini di buoni sentimenti.

Qualcuno dovrebbe, anche sommessamente, fargli capire che nessuno è pronto a soccorrere un popolo, unito si da un forte sentimento nazionale ma, praticamente, alla deriva; nessuno, specie l’Europa. Non so se e a quali studi si sia mai dedicato Volodymyr e non mi interessa saperlo; non so, neppure, se gli abbiano mai detto che nel 1956 i carri armati del mostro sovietico invadevano l’Ungheria e che un giovane, Jan Palac, nel 1969 si diede fuoco, per la libertà del suo popolo, mentre l’Occidente, tutto l’Occidente stava a guardare.

Rischia di rimanere vittima del suo stesso personaggio, oramai costretto ad interpretare il ruolo dell’eroe nella speranza, che presto si rivelerà vana, di mantenere intatto il suo successo. Un successo che ha voluto costruire e mantenere in barba alle più elementari regole di prudenza, comportandosi come quel padre di famiglia, che in gita allo zoo con la sua bambina, che piangendo gli chiede di entrare nella gabbia del feroce leone rimasta aperta, le consente di avventurarsi, provocando l’atroce aggressività dell’animale.

Non c’è molto tempo, per evitare la catastrofe totale, dalla quale l’Europa vuole tenersi, giustamente, fuori. Consegni la resistenza alla diplomazia; la diplomazia vera e non come quella di Di Maio. Magari dalle macerie delle città ucraine potrebbe sorgere un nuovo Stato, i cui governanti, guardandosi intorno con intelligenza ed opportunismo politico, riuscirebbero a garantire ai suoi cittadini (non telespettatori) pace e prosperità.

Avrà, forse, finito di interpretare il suo ruolo per sempre; ma avrà salvato la sua gente dal baratro della catastrofe.

Lucio Sergio Catilina