di Salvo La Porta 

Al mio amatissimo compare Pino Di Salvo, che ha voluto ricordarmi un episodio, ripreso poi da un noto barzellettiere.

 

 Il “Sabatino delle Gentildonne”……ve ne ho parlato altre volte? Boh?

Comunque, confido nel vostro garbo nel non farmi sentire rincoglionito del tutto e nell’illusione che vi possiate soffermare a leggere, sperando di scoprire qualcosa di interessante e che non vi abbia mai detto….

Il Sabatino delle Gentildonne, dicevo, era ed è celebrato il secondo sabato di Quaresima in onore di Maria SS. del Carmelo.

La tradizione risale agli anni in cui la Santa Patrona di Leonforte, ‘a Matri ‘o Carminu, veniva solennemente festeggiata il primo Mercoledì dopo Pasqua.

Per cinque “ Sabatini”, le categorie cittadine si susseguivano nel porgere alla Madonna la devota offerta dell’intero popolo leonfortese, grato per essere stato salvato dalla peste e per la costante protezione da tutti i pericoli.

Il primo Sabatino era solennizzato dal Clero; il secondo, appunto, dalle “Gentildonne”, mogli e figlie dei soci del Casino dei Nobili.

La Festa aveva inizio a mezzogiorno del Venerdì precedente ed “entrava” con lo sparo di nove salve di cannone.

Nel pomeriggio, sfilava la Banda Cittadina che, diretta dal Maestro Giovannino Lo Gioco (mio cugino), sostava a suonare alcune marce sinfoniche dinanzi l’ingesso del Casino, le cui imposte venivano spalancate, per mostrare in tutta la loro bellezza gli splendidi saloni illuminati a giorno.

Dalle prime ore del Sabato, per tutta la giornata, ancora salve di cannone, sfilate della banda cittadina e imposte del Circolo spalancate al suo passaggio.

Nel tardo pomeriggio, alla “Matrice”, la recita del Rosario Carmelitano, (d’unni vinni st’abitinu di lu Carminu divinu? E li razii su’ a funtana, Vergini bedda la Carmelitana!), che richiamava e richiama la predilezione divina per il Carmelo e l’abbondanza delle grazie, che la Madonna riversa “a fontana” su i suoi figli.

Sapete che mi succede quando parlo della mia, della Madonna dei leonfortesi? Non riesco a trattenere la commozione e mi si stringe la gola. Chiedo scusa; fatemi schiarire la voce prima di continuare.

Ad organizzare era donna Raziedda Scelfo, nata Celso, moglie di don Adolfo, vecchio squadrista fascista, e datasi adesso alla politica, rivestendo ruoli di rilievo, in virtù della sua amicizia con Mario Scelba e con Corrado Terranova.

Fu Presidentessa del locale C I F (Centro Italiano Femminile) ed anticomunista convinta, accanita e tanto coraggiosa ed imprudente da andare ad installare proprio alla “Chianotta”,in Piazza Giulia , allora cuore del comunismo anticlericale cittadino, un’edicola con una statuetta del Sacro Cuore di Gesù.

Di solito, a celebrare la solenne Messa veniva invitato un Padre Carmelitano del Convento della vicina Enna; quell’anno, però, in grazia della nuova nomina, non poteva che essere l’Arciprete Silvestre Lo Sicco, ormai Monsignore, il celebrante.

Vestito dei paramenti sacri delle solennità importanti ed al centro tra Padre Varano e il Parroco d’Assoro (la cui presenza era stata fortemente caldeggiata dalla Signora Sarina), che concelebravano, Monsignore pareva un Arcangelo, in barba alla voce fioca e alla esilità del corpo; un Arcangelo pareva.

Presenti i soci del Casino con consorti, figli e figlie, i posti d’onore erano stati occupati dal Presidente, dalla di lui moglie, da donna Raziedda, che fungeva da grande cerimoniera, da….Pilaro e dalla sorella Leonilde.

Bisognava vedere con quanta devozione Pilaro partecipasse al Sacro Rito; com’era compunto, come rispettava i tempi , come si inginocchiava, come giungeva le mani nel raccoglimento della preghiera. Un vero e proprio modello da seguire!

Cuomu po’ essiri accussì farsu, come può essere così ipocrita”, pensava biasimandolo il farmacista Mazza, mentre la moglie gli faceva un dettagliato resoconto di quel comportamento.

Quando fu l’ora della processione Eucaristica, il Professore era stato pronto nell’accaparrarsi l’ombrellino, sotto il quale l’Arciprete si sarebbe posizionato con in mano l’artistico ostensorio d’argento finemente lavorato; ma donna Raziedda fu più svelta di lui e glielo tolse dalle mani, consegnandolo al Presidente, al quale per tradizione quel privilegio competeva.

Ma non si perse d’animo Pilaro ed andò ad imbracciare la prima delle sei lunghe aste del ricchissimo baldacchino ricamato in oro zecchino, conquistandosi comunque un posto di preminenza nel sacro corteo.

Anche quella sera, alla cerimonia religiosa seguì un rinfresco offerto dal Presidente e dai Soci nel Salone degli Specchi del Casino.

Sulla carambola, ricoperta da una bianca tovaglia damascata, i fattorini ed alcuni camerieri avevano sistemato cibi, bevande e dolci, forniti da don Saro Rodilosso; intanto, nel salone un’orchestrina diffondeva le note di “ Grazie dei Fior”, di “Caminito” e del valzer della “Vedova Allegra”, al cui suono i giovani (e anche gli altri) avevano cominciato a danzare.

Mentre le mamme accomodate sui divani di velluto rosso, tra un ipocrita complimento ed un sommesso pettegolezzo, si sforzavano di non perdere di vista le giovani figlie, quelle in un batter d’occhio fingevano di capitolare alle insistenti avances dei giovanotti e si perdevano, seppure per il tempo di un breve giro di valzer, dietro la colonna che divide in quattro il salone, nel sospiro di un fuggevole brivido d’amore.

Quanti amori ho visto nascere dalla complicità di quella colonna!

Di uno, la cui struggente storia serbo gelosamente custodita nel cuore, per fare fede ad un segreto generosamente confidatomi, forse vi racconterò un giorno; forse, vedremo.

Davanti al buffet, intanto, Giovanni e Leonilde Pilaro non si scugnavanu, non si smuovevano neppure a colpi di legno; “hic manebimus optime, qui staremo benissimo” sembrava volessero dire, richiamando la storica frase riportata da Tito Livio.

Soltanto quando sentì donna Sarina rivolgersi sottovoce ad alcune signore per invitarle a visitare l’ artaru di san Giuseppi , che da lì a qualche giorno avrebbe allestito a Milocca, per grazia ricevuta dal Patriarca, il Professore abbandonò la postazione. Cacciò frettolosamente in bocca, spingendolo con la mano l’ultimo morso di un cannolo, che stava divorando e con la giacca blu, innevata dallo zucchero a velo, come se avesse inteso che l’invito fosse stato rivolto a lui, “ certo che verrò; con mia sorella verremo il giorno prima, per dare una mano d’aiuto… è nostro dovere aiutare i poveri”.

La signora Sarina rimase basita da tanta sfacciataggine e stava per ribattere,” scusassi, ma a lei cu è ca l’ha ‘nvitatu, scusi, ma chi lo ha invitato?”

Era la mamma dell’Arciprete, però, e non era più donna Sarina, ma la “signora” Sarina Lo Sicco Tramontana, nata Lammiru.

Decise, quindi, di tenere a freno la lingua e, sforzandosi di essere quanto più affabile possibile, “ cu’ piaciri, veramenti cu’ piaciri, ni vidimu pi san Giusè, con piacere, con vero piacere, ci vediamo il giorno di san Giuseppe a Milocca”.

Pilaro si sentì incoraggiato al di sopra di ogni aspettativa e, “senza cirimonii, si avi necessità, si c’è di munnari finuocchi, carduna….senza cerimonie, se c’è bisogno di mondare cardi, finocchietti…di friggere, noi siamo a disposizione”.

La signora Sarina abbozzò un nuovo sorriso e l’indomani Giovanni e Leonilde Pilaro si presentarono a Milocca.

Per parlare degli “artara” di San Giuseppe, ci vorrebbe un libro intero e, forse, non basterebbe.

Noi ci limiteremo a ricordare che la tradizione di allestire quelle tavolate nasce dal desiderio di venire in aiuto ai più.