di Gaetano Algozino

Dalla Settimana Santa annullata (2020-2021), causa la diffusione globale della pandemia Codiv-19, alla Settimana Santa mutilata (2022), causa l’emergenza sanitaria post Covid-19. Entro questi termini e in nome dell’unico, indiscutibile dogma della pandemia, anche a Leonforte si consuma quest’anno, tra il tragico e il farsesco, l’epilogo dei secolari riti della Settimana Santa. Si, perché proprio di epilogo o punto di non ritorno bisogna parlare nel caso delle radicali trasformazioni che saranno apportate ai riti della Settimana Santa dal Rev. Sac. Filippo Rubulotta, Parroco dell’Unità pastorale Maria SS. Annunziata – S. Giuseppe – S. Giovanni Battista – S. Stefano. Riti che hanno conosciuto un lento e variegato processo di formazione secolare dalla fondazione del principato di Leonforte (1610-1614), alla istituzione delle prime confraternite (la più antica è l’Arciconfraternita del SS. Sacramento fondata nel 1628), dal loro consolidamento e splendore nel tessuto storico-sociale del principato dei Branciforte tra XVII e XIX secolo, fino al primo declino negli anni delle soppressioni ecclesiastiche (1861-1866), da una rinascita plateale durante l’epoca fascista fino al secondo declino, con conseguente crisi irriversibile, negli anni dell’industrializzazione e dell’emigrazione massiccia (’60-’70) dei leonfortesi al Nord Italia, in Germania e in altri paesi europei, fino alla vigorosa rinascita e rilancio, verso la fine degli anni ’80 del secolo scorso, grazie agli interventi mirati dell’illuminato arciprete Mons. Benedetto Pernicone, che da sociologo provetto seppe rispettare le profonde istanze del popolo.

Si parlava all’inizio di epilogo dei riti popolari, perché di certo a questo hanno portato sia una situazione contingente (la pandemia con le sue mille, discutibili e controverse narrazioni) che anche gli interventi mirati del reverendo P. Rubulotta volti, a nostro avviso, alla semplificazione, scarnificazione e trasformazione degli stessi riti. La logica ecclesiale sottesa a questi cambiamenti epocali, o miglioramenti/adattamenti pastorali che dir si voglia, risiede nell’adeguamento degli stessi  riti ai dettami inflessibili di una liturgia fredda e legalistica da uffici curiali, la cui rubricistica inflessibile non vedrebbe di buon occhio tutte quelle processioni od espressioni della pietas popolare che non rientrino negli schemi della lex orandi vigente della Chiesa. Nonostante i lodevoli tentativi messi in atto dai sommi pontefici Giovanni Paolo II, con la pubblicazione del Direttorio su pietà popolare e liturgia (2002), di Benedetto XVI, con la liberalizzazione della Messa e del Rito romano antico (Lettera apostolica Summorum Pontificum, 2007) mai formalmenti aboliti da nessun concilio o motu proprio di altri pontefici, e alcuni pronunciamenti di papa Francesco sulla pietà popolare come “sistema immunitario della Chiesa”, di fatto nelle diocesi italiane da anni si assiste ad una lotta senza quartiere contro riti, espressioni devote, liturgie che si ispirino alla veneranda tradizione “tridentina”, vero bersaglio di un’annosa battaglia interna.

D’altronde questa lunga querelle tra progressisti e conservatori, per usare termini riduttivi ma che danno l’idea della contrapposizione dei due fronti, trova il suo punto di origine nel periodo turbolento del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) e del pontificato di Paolo VI (1963-1978), quando clero, teologi e laici impegnati su vari fronti elaborarono a tavolino un progetto di rigenerazione-palingenesi ecclesiale di riti, liturgie, pratiche di pietà popolare, dogmi e visioni etico-morali per renderli più conformi alla “pristina” purezza di una presunta comunità cristiana delle origini, in perenne e fruttuoso dialogo con il mondo contemporaneo. Questa tentazione “archeologica” di volere riportare la chiesa alle origini (quali origini?), in nome del versetto di Ap 21,5 “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”, nel corso degli anni ’80-’90 del secolo XIX, portò di fatto ad una crisi irreversibile dell’istituto ecclesiale e del suo sistema educativo, dei suoi millenari dogmi di fede e delle sue venerabili liturgie, sostenuti, resi efficaci e credibili dalla massiva partecipazione dei fedeli a tutte le pratiche liturgiche, sacramentali e devozionali della Chiesa, quali messe, quarantori, processioni, novene, tridui, digiuni e penitenze.

Nulla togliendo al nobile principio dell’adeguamento della Sacra Liturgia (e per converso della Chiesa) e dei riti popolari più ai tempi dello Spirito che allo spirito del tempo, è pur vero che nel caso di Leonforte i riti della settimana santa, frutto di secolari stratificazioni e cambiamenti sostanziali, avevano raggiunto nel corso degli ultimi cinquantanni un livello di sedimentazione accettabile tale da renderli una consuetudo accettata unanimente dal consenso dei fedeli. Ed è proprio partendo dal concetto di “consuetudine”, oggetto dei canoni 26-28 del Nuovo Codice di Diritto Canonico (1983) attualmente in vigore, che vorrei partire per mettere in discussione le posizioni riformatrici messe in atto dal sac. Rubulotta. I canoni citati sono inseriti all’interno del Titolo II del Codice dedicato alla consuetudo. Il canone 26 precisa con chiarezza adamantina che «una consuetudine contraria al diritto canonico vigente o che è al di fuori della legge canonica, ottiene forza di legge soltanto se sarà stata osservata legittimamente per trentanni continui e completi; ma contro una legge canonica che contenga la clausola che proibisce le consuetudini future, può prevalere la sola consuetudine centenaria o immemorabile».

Inoltre, in questa paventata “riforma”, ci sia lecito affermare che non si coglie nessuna garanzia di stabilitas futura, dettata come è dall’emergenza del triste momento post-pandemia e dalla premura ingiustificata di un piano pastorale di ristrutturazione e revisione profonda. Per cui sarà pur lecito chiedersi: tutte queste misure restrittive e trasformistiche della cesoia clericale sono da considerarsi “normative” solo per il corrente anno 2022 o assurgeranno a “nuova tradizione” da tramandare negli anni a venire? Se il progetto di ridimensionamento e riadattamento dei riti popolari ai rigidi schemi della  lex orandi vigente della Chiesa dovesse prendere corpo in questo e negli anni a venire, si potrebbe concludere dicendo che il concetto di Traditio non veicolerà più il genuino messaggio della consegna (tradere) di qualcosa a qualcuno ma del tradimento di esso. Parafrasando papa Francesco, in maniera del tutto paradossale, da Traditionis custodes si diventa Traditionis negatores, sempre in nome e per conto della stessa Tradizione. Si reinventa la tradizione tradendo o annullando ciò che ci precede. Si distrugge, si ricrea, si sovrappone perché vi è un progetto di riscrittura e di ricostruzione ideologica e simbolica per rimuovere la memoria collettiva. E a pensarci bene, è sempre auspicabile che un rito secolare e millenario muoia di implosione interna che non che si trasformi in un prodotto diverso, alterato o nuovo che non rispecchi più l’intentio originaria di chi lo creò con grande rispetto del sentimento e della devozione del popolo di Dio.

Dopo questa indispensabile premessa, entriamo nel caso specifico dei singoli riti e delle processioni presi di mira da questi interventi riformatori, analizzandone il contenuto storico-devozionale e socio-etnografico. La prima festa a subire il colpo violento della scure riformatrice del reverendo Rubulotta, è la Domenica dell’Ecce Homo, che si celebra a Leonforte dalla prima metà del secolo XIX nella V Domenica di Quaresima. Ciò che appare discordante con la liturgia ufficiale e rinnovata della Chiesa romana è la celebrazione di una festa devozionale, collocata nella V Domenica di Quaresima, in cui si fa espressamente e visivamente memoria della passione di Cristo. Secondo il calendario del rito romano antico –  il venerabile Vetus Ordo mai ufficialmente abolito dalla S. Sede – la V Domenica di Quaresima viene denominata  ancor oggi “Domenica di Passione”. Per antica tradizione al canto dei primi Vespri della Domenica, celebrati il sabato pomeriggio, aveva luogo il rito della velatio, consistente nell’occultamento di statue, tele, crocifissi e quadri con un drappo violaceo, che si protraeva fino al Sabato Santo. La velatio e il canto del maestoso inno Vexilla Regis aprivano il periodo di passione, che precedeva immediatamente la settimana santa. Tutta la settimana di passione, che aveva il suo inizio nella V domenica di Quaresima e il suo compimento solenne nel Venerdi di passione, ultimo venerdi di quaresima che precedeva il Grande Venerdi della settimana santa, era incentrata sulla meditazione affettiva, mistica ed etico-morale dei dolori di Cristo e della sua Madre addolorata. Esiste in tal senso una cospicua letteratura mistica che dal XVI secolo in poi, ad opera della scuola francescana, sviluppò il tema dei dolori mentali della passione di Cristo che venivano contemplati e analizzati con il metodo introspettivo dell’orazione mentale. Gli esempi più elevati di questa tradizione mistico-affettiva, divulgati a Leonforte dai frati cappuccini e dai frati “scalzi” del Terz’Ordine regolare della Madonna del Carmelo, sono i trattati Dei dolori mentali della passione di Cristo (1488) della B. Camilla Battista da Varano (1458-154) e Pratica dell’orazione mentale (1584) del frate cappuccino Mattia Bellintani da Salò (1535-1611).

In questa temperie mistico-devozionale nacque e si sviluppò in Leonforte il culto all’Ecce Homo con la fondazione della Chiesa-oratorio di Maria SS. della Mercede (1684), in un legame indissolubile con la Venerabile Compagnia degli agonizzanti, che annoverava tra i suoi componenti e benefettori i membri della nobile famiglia dei Gussio, il cui palazzo sorgeva non molto distante dalla suddetta chiesa. Da un’iniziale culto privato della compagnia alle cinque piaghe del Cristo, connesso anche alla memoria dei sette dolori della Vergine Maria, la compagnia degli agonizzanti, divenuta poi agli anizi del ‘700 Confraternita di Maria SS. della Mercede, trasformò la devozione dell’Ecce Homo in festa pubblica. E ciò dovette avvenire non prima della del 1830-40. La scelta non casuale della V Domenica di Quaresima si giustifica con lo zelante desiderio di clero e popolo di solennizzare l’annunzio del tempo di passione con la processione del Cristo flagellato alla colonna e della Vergine Addolorata.

Cosi facendo, incosciamente o volutamente, si creò un unicum nel calendario cerimoniale siciliano (e forse anche italiano) perché in nessuna diocesi viene celebrata con culto pubblico la festa dei dolori della passione di Cristo con una settimana di anticipo rispetto all’inizio della grande settimana santa di morte e risurrezione del Signore. L’Ecce Homo ha costituito dunque, almeno per quasi duecento anni, l’arco di apertura o, se vogliamo usare un’espressione più solenne, il portale di ingresso nel tempo di passione preannunciando, non in maniera sincronica ma diacronica, il Venerdi Santo. Passione anticipata, preannunzio e prefazio alla tragedia del Dio morto del Grande Venerdi di passione. Chi da anni ha pensato di abolirlo o di trasferirlo ad una altra data più consona, ha addotto la superficiale e infondata motivazione dell’incongruenza storico-cronologica degli eventi della passione di Cristo, sicché agli occhi di codesti benpensanti ha sempre costituito una contraddizione logica la processione pubblica della flagellazione di Cristo alla colonna nella domenica precedente al suo trionfale ingresso a Gerusalemme. Tutto l’anno liturgico della Chiesa ha più una connotazione simbolica e mistagogica che non cronologico-narrativa della celebrazione del mistero di Cristo, sicché spesso non si possono ravvisare congruenze logiche o storico-narrative di sorta nelle feste e solennità del calendario cattolico. Il discorso è molto ampio e complesso, se si consideri che nella stessa Domenica delle Palme la chiesa romana ha sempre celebrato due eventi cronologici e distinti della vita terrena di Cristo, ossia il suo ingresso trionfale a Gerusalemme e la condanna a morte e crocifissione del Nazareno con la lettura pubblica del Passio, mentre la chiesa ambrosiana di Milano, più fedele alle antiche celebrazioni pasquali dei cristiani della Terra Santa, fa memoria solamente dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme senza alcuna menzione alla passione.

La “riforma” liturgica messa in auge dal reverendo Rubulotta, se da un lato ricolloca la festa dell’Ecce Homo nel suo apparente contesto liturgico rinnovato della Domenica delle Palme-Domenica di Passione, dall’altro finisce con l’arrestare drammaticamente quel flusso continuo e ininterrotto della consuetudo locale che, come detto, se non contraria al diritto divino, ha la stessa normatività e forza di legge canonica. Oltre a questo aspetto giuridico di non poco conto, il danno maggiore risiede nell’amputazione ingiustificata di un elemento di forte impatto simbolico-misterico: il preannuncio della Passio Christi che costituisce il carattere precipuo, unico e distintivo di tutto il ciclo misterico e della stessa colonna vertebrale della settimana santa leonfortese. Con il trasferimento della festa dell’Ecce Homo dalla tradizionale data della V Domenica di Quaresima alla Domenica delle Palme, si opera, a nostro giudizio:

  1. Una rottura profonda e insanabile del messaggio sacro codificato sapientemente dai nostri antenati;
  2. Uno svuotamento della pietas popolare, che non vede più riconosciuto un suo diritto sacrosanto di consuetudine consolidata;
  3. Un arbitratio e ingiustificato inserimento di un elemento nuovo che va più in direzione della creazione/invenzione di una nuova “tradizione” che non nel rispetto profondo di una radicata devozione popolare.

Si reinventa la tradizione a proprio uso e consumo, tradendo o annullando ciò che ci precede, appoggiandosi, a nostro modesto avviso, alle argomentazioni dell’adattamento liturgico-conciliare o della situazione d’emergenza sanitaria post Covid-19. D’altronde è proprio questo il nodo critico della questione, che non è solo “paesana”, ma tragicamente ed estensivamente ecclesiale. Qui non si mette in gioco solo la sopravvivenza o meno di una processione secolare, ma si mina la base stessa della continuità ininterrotta della tradizione della Chiesa, che come insegna il teologo francese Yves Congar, è una storia fatta di tradizioni, una tradizione intessuta di tradizioni particolari. L’ermeneutica della continuità ecclesiale con le forme, i linguaggi, i riti e le pratiche liturgico-devozionali della tradizione cattolica mai negati o aboliti dalla costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia Sacrosantum Concilium, fu d’altronde il cavallo di battaglia dell’intero pontificato di Benedetto XVI, che cercò di trovare una via mediana tra i paladini inflessibili e arroganti del Novus Ordo e i cultori più umili e dimessi del Vetus Ordo sostenendo con autorevolezza che i due riti, ordinario e straordinario, non si annullano ma si completano e si illuminano a vicenda. Più che di scissioni e rotture con la millenaria tradizione, la Chiesa avrebbe bisogno di riconciliazioni, di ritorni e di riappacificazioni.

Qualora la festa dell’Ecce Homo venisse celebrata permanentemente la Domenica delle Palme, questo certo creerebbe un guazzabuglio o “conflitto di interessi” con altri due eventi importanti della Settimana Santa leonfortese: la sacra rappresentazione della Ramaliva, che dagli anni ’60 si svolge nel pomeriggio di quella Domenica e la processione eucaristica serale, che annuncia le Quarantore di adorazione in Matrice (Lunedi Santo-Martedi Santo-Mercoledi Santo), un tempo solennizzate a dovere e ora ridotte a una manciata di ore di esposizione eucaristica pomeridiano-serale. Quest’anno 2022, annus terribilis per i riti popolari della Settimana Santa, vedrà annullata anche l’antica rappresentazione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme nota a Leonforte come Ramaliva che si svolgeva, dal XIX secolo fino alla metà degli anni ’60, nel suggestivo quartiere extra moenia della Crucidda la mattina della Domenica delle Palme. La stessa rappresentazione, che nel corso del XVIII e XIX secolo aveva tutti i connotati tipici della casazza (drammaturgia sacra con personaggi in costume), non godendo tra l’altro di buona salute e sottoposta a pesanti rimaneggiamenti e trasformazioni nel corso dell’ultimo ventennio, quest’anno è stata mandata in soffitta o messa in quarantena. Così facendo, come per miracolo, si distruggono tre tradizioni secolari in un sol colpo: la festa dell’Ecce Homo, la Ramaliva e la processione eucaristica serale della Domenica delle Palme, che preannunziava l’inizio delle solenni quarantore.

Il Venerdì Santo è l’altra data solenne del calendario liturgico-popolare leonfortese che subirà gli effetti devastanti di questa “riforma” sperimentale pianificata a tavolino. Qui si sferra un attacco violento nei confronti della processione più antica finora documentata a Leonforte, che fin dal 1650, in forme progressive, ha assunto tutta quella solennità e bellezza che le sono riconosciute unanimente da devoti, pellegrini, studiosi e visitatori stranieri. La ragione prima, alquanto opinabile, del taglio netto del percorso processionale, che a differenza degli anni passati si limiterà ad un semplice ed “ordinato” corteo lungo il Corso Umberto dalla Chiesa Madre alla Chiesa di Maria SS. della Catena, risiede ancora nell’ottemperanza alle norme sanitarie di contenimento post-Covid che imporrebbero limiti di tempo alle manifestazioni esterne al fine di evitare assembramenti. Motivazione alquanto debole, visto che se da un lato si pensa che accorciando il percorso e smaltendo le file di confrati e popolo, si raggiunge il fine prefisso, ossia il mancato contagio dei partecipanti, dall’altro si strumentalizza, a nostro avviso, una “norma” sanitaria per ergerla a dogma unico e indiscusso. Il buon senso ci ha pure insegnato, in questi due anni di pandemia, che nella misura in cui vi è assembramento di persone, pur con i dovuti distanziamenti sociali e indossando le mascherine protettive, non è esclusa la libera circolazione del virus pure in soggetti con tripla dose di vaccino. Per cui la motivazione del reverendo non sta né in cielo né in terra, perché se si volesse evitare il contagio, allora non vi sarebbe altra soluzione che quella di cancellare ancora una volta la processione. E per certi versi, per quanto drastica la soluzione possa apparire, avremmo preferito veder “morire” quest’antica e venerabile processione, piuttosto che vederla ancora una volta trasformata in qualcosa di snaturato e di insensato che non ha nessun fondamento nella storia di Leonforte.

La drastica riduzione del percorso processionale, al di là della sua motivazione sanitaria più o meno opinabile, toglierebbe altresì alla stessa quel carattere estensivo di massiccia manifestazione corale di popolo che abbraccia tutto il tessuto urbano di Leonforte, dai quartieri più antichi, abbarbicati alle pendici del palazzo Branciforte, alle ultime emergenze architettoniche riunite attorno alla chiesa parrocchiale della Catena. ‘U Signuri mortu visita tutti li chiesi do paisi, pirchì murì ppi tutti: questa è la splendida, chiara e profonda spiegazione riferita da un’anziana donna della Favarotta quando le fu chiesto la motivazione di una processione così lunga. L’affannoso trasporto del Mulimentu (da monumentum=sepolcro), l’elegantissima e sofisticata urna barocca in legno rivestita di oro zecchino che custodisce al suo interno il simulacro del corpo esanime del Cristo dalle braccia snodabili, per secoli copriva l’intero arco di quasi due giorni, dal momento che iniziava subito dopo la predica delle sette parole e la deposizione dalla croce, in un orario compreso tra le cinque e le sei post meridiane, e si protraeva fino alle prime luci dell’alba del sabato santo.

Un immenso, fluviale e per certi versi labirintico percorso che setacciava meticolosamente quasi tutte le strade del paese per poi sostare in tutte le chiese, al fine di dare il privilegio a chi ne fosse impedito, ossia ai malati e agli anziani, di poter vedere ‘U Signuri mortu e la Bedda Matri Addilurata passare sotto l’uscio, la finestra o il balcone della propria casa. Un grandioso funerale di popolo che aveva anche i suoi simboli espressivi di una potenza inaudita: dalle luminarie, cataste di legna, paglia e canne disposte a forme di cilindro con in cima una bandiera rossa, che illuminavano il percorso del Cristo morto e dell’Addolorata, alle truoccole, battole di legno dal suono tetro che rievocavano le ossa dei morti risvegliati dalla visita di Cristo nelle voragini degli inferi, dal canto del lamientu, sorta di nenia arabo-bizantina che narra con versi di forte impatto poetico ed emotivo la passione di Cristo, all’eloquenza della fonte muta, la spettacolare Granfonte che arrestava il getto di acqua delle sue ventiquattro cannelle come a segnare l’arresto della natura di fronte al dramma cosmico della morte dell’Uomo-Dio. Tutti elementi altamente scenografici che scompariranno quest’anno per dar vita ad un patetico, spettrale corteo di clero e confrati in mascherina che, attenendosi scrupolosamente ai dettami sanitari dell’emergenza post-Covid, celebreranno sia la morte di Cristo che la sepoltura di una secolare tradizione, che si avvia inesorabilmente verso la via del tramonto. Ancora una volta, col beneficio del dubbio, non sappiamo se questo drastico intervento che impone la riduzione del percorso processionale del Venerdi Santo sia una decisione irrevocabile, che avrà effetti postumi sulle future modalità celebrative della festa, oppure se sia frutto di un esperimento temporaneo “imposto” dalla situazione contingente.

In ambedue i casi, ci si permetta di osservare che dietro a questo gigantesco tentativo di forzata “riforma liturgica” dei riti pasquali, vi è a nostro avviso una malsana e perniciosa visione illuministico-razionale del Sacro che presume di ricondurre tutte le più genuine e spontanee manifestazioni della pietas popolare nell’ambito gestibile, chiaro e pianificabile dell’auctoritas clericale, che nei suoi complessi e ben congegnati piani pastorali non riserva spazio alcuno alla conservazione e valorizzazione delle antiche tradizioni religiose popolari. Secondo noi, così facendo, si svuoterà di contenuto e di senso riti che hanno una struttura ben precisa e che attendono solo di essere valorizzati e conservati secondo la vera logica ecclesiale dell’accoglimento senza riserve del raffinato e coltissimo arciprete Mons. Benedetto Pernicone, il quale durante una nostra intervista del 2012, dichiarò: “Il popolo di Dio prima di ogni cosa, le tradizioni popolari prima di ogni piano pastorale, la fede arcana e genuina del nostro popolo prima di ogni arrogante pretesa clericale di trovare inutili spiegazioni teologiche in ogni cosa”.

A mo’ di conclusione, non trovo parole più autorevoli e pregnanti se non quelle di George Orwell per descrivere il processo in atto di epurazione-mutilazione-cancellazione degli antichi riti popolari della settimana santa, che hanno scandito, tra alti e bassi, per quasi quattrocento anni il ricco e affascinante percorso storico della comunità di Leonforte.

<<Tutti i documenti sono stati distrutti o falsificati, tutti i libri riscritti, tutti i quadri dipinti da capo, tutte le statue, le strade e gli edifici cambiati di nome, tutte le date alterate, e questo processo è ancora in corso, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. La storia si è fermata. Non esiste altro che un eterno presente nel quale il Partito ha sempre ragione.>>

Londra, 08/04/2022

(La foto è di Giuseppe Guagliardo – Venerdì Santo 2018 a Leonforte)