di Salvo La Porta

La celebrazione del rito in memoria di san Giuseppe nei saloni di palazzo Lo Sicco fu superba.

Il Commendatore e la moglie Sarina non avevano davvero badato a spese e i fedeli, che avevano assistito erano rimasti commossi ed entusiasti.

L’ artaru più bello e più ricco era; certamente!

Anche la processione con il simulacro del Santo, portato a spalla dai confrati, fu memorabile. Solenne, maestosa!

Per la prima volta, Monsignor Silvestre, che oltre all’Arcipretura manteneva anche la carica di beneficiale della Chiesa di San Giuseppe, presenziava nella qualità di guida spirituale del paese e per la prima volta si videro cose che non si erano mai viste.

Il clero foraneo al completo; sacerdoti, monache e monaci cappuccini, ai quali furono riservati i posti d’onore proprio accanto al Santo, gli facevano da magnifica cornice in una scenografia che, maestosamente ne esaltava la ricca e merlettata cotta bianca, ricoperta dalla mozzetta rossa e adornata dalla ricamata stola arcipretale.

Un’infinità di persone di ogni età, con in mano le torce devozionali dava l’immagine di una marea umana in placido movimento.

Le note della banda musicale cittadina, alternate al Rosario in onore del Patriarca, rendevano ancora più solenne quel sacro e lento incedere.

Alla fine, mirabolanti fuochi d’artificio, che per un buon quarto d’ora con forti botti brillarono in cielo, mentre le madri si accucciavano i più piccoli impauriti e uomini e donne, vecchi e giovani restavano impietriti e con gli occhi sbarrati per lo stupore e la bocca aperta per la meraviglia.

Serafina ed altre donne, purtroppo, avevano dovuto accontentarsi di godersi il passaggio del Patriarca dal balcone di Corso Umberto, perché avevano il loro bel da fare nel cercare di rimettere ordine in tutte le stanze di rappresentanza del palazzo e nelle scale, che aveva visto salire e scendere centinaia di persone.

Avrebbe voluto la ragazza che fossero rimasti Tommaso e l’aitante confratello a darle una mano; ma, al di fuori di ogni ragionevole convenienza, non era possibile che i due giovani seminaristi fossero rimasti estranei ad un evento tanto importante che, oltretutto, vedeva così fortemente impegnato Monsignor Silvestre, amato padrino di Masino

Si diedero, tuttavia, da fare i due forzuti ragazzi a darle una mano (e che mano…), l’indomani a Milocca, dove l’aia, i magazzini e la cucina sembravano i resti di “Gerusalemme distrutta”, a causa della frenetica operosità dei giorni precedenti.

E bisognava vederli come facevano a gara, per dargliela….

Il più delle volte, però, abile com’era nei servizi, era lei a dargliela la mano; proprio nel servizio, nel quale avevano più bisogno di essere aiutati ed incoraggiati.

I ragazzi, abituati in seminario a sbrigarsela da soli, cercavano di opporre resistenza alle insistenti profferte di aiuto di Serafina. Ma non c’era nulla da fare, perché quella era fatta così; correva là, dove riteneva che qualcuno avesse bisogno della sua mano.

Non aveva tregua. Entrava ed usciva dai magazzini tutta scarmigliata, sudata e rossa in viso. Sembrava non stancarsi mai; al contrario dei due che, ad un certo punto, non ce la fecero più e si abbandonarono, stanchi morti e trafelati, sui furrizzi, sugli sgabelli di canne, disseminati disordinatamente sull’aia. Ragazzi erano. Ragazzi abituati allo studio, alla preghiera ed alla riflessione solitaria.

Se ne accorse Pepè di quella loro stanchezza e se ne sentì quasi colpa. Dopo tutto, si erano tanto fiaccati per aiutare Serafina.

Dda santa carusa, nun canusci rizzettu, quella santa ragazza non sa cosa voglia dire riposo!”

Sembrava avere dentro il fuoco di Mongibello e non si stancava mai.

Cosicché, “ caru’, grazie, grazie daveru, pi’ tuttu chiddu ca atu fattu pi’ me’ mugghieri, ragazzi davvero grazie per tutto quello che avete fatto per mia moglie”, si sentì in dovere di dire loro con l’espressione di chi non riesce a tacere i sensi della più profonda gratitudine.

Quelli non poterono fare a meno di trattenere un colpo di tosse, a malapena ricacciando in gola la saliva che gli era salita in bocca e, arrossendo confusamente, (che scherzi fa la timidezza…), si schermirono e, “ma fiurati quali grazii, un piaciri ha stato, ma figurati grazie di che, è stato un piacere”, risposero, evitando timidamente di guardarlo e… di guardarsi negli occhi.

°°°°°

Erano andati tutti via, finalmente, gli ospiti da Milocca. Tutti. Tranne il solito Pilaro e la sorella Leonilde, che non s’avissuru scugnatu mancu ca’ pruvuli, non si sarebbero smossi neppure con la polvere da sparo.

Monsignor Silvestre era andato a fare il solito riposino pomeridiano. “Il riposo del giusto”, pensava soddisfatto dentro di sé, non disdegnando di rassomigliare il suo lavoro a quello del Patriarca lavoratore.

Un silenzio assoluto era calato su Milocca e ciascuno prima di ritornare agli usati mestieri era entrato nella determinazione di godersela un’oretta di sonno.

Silenzio di tomba; un cimitero pareva e persino i colombi, di solito così petulanti, avevano alleggerito il verso del loro tubare, sino a renderlo quasi impercettibile.

Ogni cosa taceva in quel pomeriggio, che mostrava tutti i caratteri della serenità ed uomini ed animali erano andati a trovare rifugio tra le braccia del Morfeo pomeridiano.

Qualcuno, addirittura, era riuscito a coniugare il riposo delle stanche membra con quello dell’affaticato animo e si era lasciato andare ai sogni. I dolcissimi sogni del dopopranzo.

Sino a quando…. sino a quando uno sciame di voci disordinate, alterate e confuse non piombò sull’aia, oltraggiandolo sino a violentare la sacralità di quel silenzio, che aveva permesso a Monsignore di rifugiarsi nel sonno a ristoro dell’immane fatica, alla quale si era sottoposto e di quella che lo avrebbe atteso con gli impegni quaresimali.

Era successo che erano arrivate le bollette del Consorzio di Bonifica dell’Altesina e dell’Alto Dittaino. Erano bollette tanto esose quanto ingiustificate, il cui pagamento avrebbe inciso notevolmente in negativo sul già esiguo bilancio aziendale degli agricoltori.

Qualcosa bisognava fare e, giacché il Sindaco sarebbe rimasto per qualche giorno fuori sede, l’autorità più adatta a dare un consiglio sul modo migliore di esprimere la protesta era l’Arciprete.

Vossia, l’avi a spidugghiari sta’ marredda, lei deve sciogliere questo groviglio”, era il senso di tutte quelle grida, rivolte al povero Silvestre, che si era visto scaraventato giù dal letto.

Si po’ sapiri chi fu? Chi successi? Si può sapere cosa sarà mai successo?”, chiese il poveruomo che si era presentato con la talare sbottonata, i pochi capelli arruffati e le pantofole invertite ai piedi.

Cuomu chi successi? Nenti sapi vossia? Niente sa? Non le è arrivata la bolletta del Consorzio?” risposero confusamente quelli.

Quando la signora Sarina gli mise sotto il naso la bolletta, che aveva ricevuto qualche giorno prima e che non aveva ancora aperto, Silvestre inforcò gli occhiali e non aveva ancora iniziato a leggere, che fu colto da malore, sbiancò in viso e perse i sensi.

Trecentomila lire doveva pagare, “o Matruzza mia!” Che cosa mai poteva giustificare una bolletta tanto salata?”

Quando riprese i sensi e il colore in viso, bevve il caffè zuccherato, che la mamma gli aveva portato per farlo rianimare e si determinò di correre in paese e, visto che suo cugino il Sindaco non c’era, per parlare con una persona che, nonostante i suoi trascorsi fascisti, godeva del rispetto dei leonfortesi, in particolare di quelli che erano stati suoi alunni al Ginnasio “Angelo Majorana”, il Preside Giuseppe D’Alessandro.

In verità Pilaro, subito accorso al vociare e primo a prestare i soccorsi al povero Arciprete, si era prestato ad offrire i suoi buoni uffici, ma Silvestre preferì di no.

“ Grazie, Professore, ma se vuole…qualcuno tra questa brava gente potrebbe darle un passaggio, per rientrare in paese..”.

Pilaro capì l’antifona ed in men che non si dica montò su una macchina insieme alla sorella e fecero ritorno nella casa della salita Musumeci, lasciando quasi un vuoto tra quelli che erano rimasti a Milocca, che nei giorni a venire avrebbero potuto registrare che molte delle pietanze preparate erano rimaste praticamente intatte, essendo venuta meno la presenza dei convitati con maggiore appetito.

Andarono a cercare, quindi, capeggiati dall’Arciprete, il Preside. Lui avrebbe saputo consigliarli per il meglio.

Il Professor Giuseppe D’Alessandro, “Chiantapipi”, come ci racconta Rino Vasta nel suo brillante libro “ Leonforte nel secondo dopoguerra”, oltre ad essere Preside del Ginnasio, fu dal 1938 al 1942 Podestà di Leonforte.

Profondo conoscitore di Dante ed insigne latinista, si considerava uomo delle Istituzioni, per le quali aveva un rispetto sacro.

Legato oltremodo alle tradizioni, consumava scoppiettanti conversazioni con il Farmacista Mazza, con il quale aveva un ottimo rapporto di amicizia e del quale non condivideva un’apertura alle novità, che male sopportava, considerandole espressione di modernismo sfrenato.

Ma il “massone”, a volte riusciva a metterlo alle strette con argomentazioni tanto appropriate e citazioni di personaggi della romanità, che il Preside non riusciva neppure a tentare di confutare, facendolo sorridere sotto i baffi, per la simpatica vittoria sull’amico contendente.

“ Caro Peppino, non sempre si può avere ragione”, obiettava Mazza, “ se rifletti su uno dei discorsi, che l’Imperatore Claudio fece ai senatori romani riluttanti alle novità….ti ricorderai che riuscì a convincerli con un ragionamento semplicissimo; le tradizioni non sono sempre esistite…hanno avuto una loro origine.. quando hanno cominciato ad esistere, erano il nuovo.”

Ma Peppino D’Alessandro non si dava mai per vinto, lui era un uomo delle Istituzioni e le Istituzioni, per rimanere in vita, hanno bisogno di salde radici; le tradizioni, appunto.

Portava questo suo attaccamento allo Stato sino alle estreme conseguenze; a volte sino a sfiorare il ridicolo.

Ricoprendo contemporaneamente il ruolo di Preside e Podestà, si sforzava di mantenere ben distinte le due cariche, raggiungendo una forma di simpatica schizofrenia.

Dal suo studio di Preside del Ginnasio “Majorana” di via Portella, scriveva una lettera di richiesta di interventi urgenti al Sindaco, ovverosia a se stesso medesimo, e mentre leccava la colla della busta per sigillarla, si rivolgeva a don Michele, fidatissimo “collaboratore scolastico” e, “ vuogghiu vidiri, chi m’arrispunni ora stu’ fattu a Sinnicu, voglio vedere cosa mi risponderà questo Signor Sindaco”, sentenziava.

“ Ma signor Preside…”, si permetteva di balbettare timidamente quello, che non riusciva a intendere il motivo di quella disposizione di servizio, “ va porticilla e basta, portagliela”, tagliava corto lui.

Non era ancora uscito quello dal suo studio, che il Preside, alla maniera di Ettore a Troia, fende diritto le piazze e le vie di Leonforte, per farsi trovare seduto alla scrivania di Podestà dal trafelato e claudicante bidello.

Mu’ dammi ca’, dammi questa lettera, chi voli stavota stu’ Signor Preside?”

A don Michele non restava che consegnare la busta che il Podestà apriva brontolandogli addosso, “ ma nun l’ha caputu chistu ca dinari nun ci nni su’, non l’ha capito costui che soldi non ce sono?”

Aveva assolto egregiamente, ai suoi doveri di Sindaco e di Podestà! Poteva essere soddisfatto.

Ma, al di fuori di queste innocenti stranezze, Peppino D’Alessandro era un gran signore ed un ottimo docente.

Aveva un rapporto di grande tenerezza con i suoi alunni. Una tenerezza quasi paterna provava. Lui che non aveva potuto gioire della carezza di un bambino suo, quando era costretto a riprendere un ragazzo indisciplinato, non alzava mai la voce, né lo picchiava come era d’uso in quei tempi, ma mentre quello rimaneva ad occhi bassi davanti a lui (come ancora ci ricorda Rino Vasta), gli sussurrava quasi dolcemente i versi dell’abate Meli, esortandolo a rinsavire, “Un surciteddu di testa sbintata, avia pigghiatu la via di l`acitu e facìa `na vita scialacquata cu l`amiciuna di lu so partitu, un topolino con poco cervello aveva preso una strada pericolosa e conduceva una vita spensierata con amici della sua stessa risma..”

Una volta, organizzò una recita, la conclusione della quale avrebbe fatto imbestialire qualsiasi paziente regista, ma che lui accolse con una bonaria risata: un Marchese, benefattore dell’Umanità era morto assassinato, lasciando nella costernazione più profonda e nel pianto parenti amici.

I giovani studenti filodrammatici erano stati talmente bravi, da portare alle lacrime gli spettatori.

Alla conclusione dell’ultimo atto, però, quando la commozione sembrava fosse arrivata al culmine, a scena aperta e prima della chiusura del sipario, per sancire la grandezza d’animo ed il valore del defunto, fu affidata a Petrino la battuta finale, “ di questi marchesi” (pausa e sospiro profondo) “di questi marchesi non ne nascono più!”

Si sarebbe, quindi, chiuso il sipario e gli attori sarebbero usciti insieme al regista, il Preside Podestà, a raccogliere con gli applausi del pubblico i frutti del loro faticoso lavoro.

Purtroppo, però, Petrino, tutto compreso della sua parte, si portò al centro della ribalta e, “di questi marchesi” (pausa e respiro profondo) di questi marchesi…di questi marchesi..(altra pausa)...non ne naschino più” declamò, suscitando l’ilarità del pubblico, che tosto si lasciò andare a sonore risate, che avevano preso il posto della diffusa commozione e delle lacrime.

Per tutta la serata si ripeté quel tormentone; ed ancora oggi, quando si vuole esprimere un giudizio non proprio lusinghiero su qualcuno, si dice, “ non ne naschino più! ”.