di Salvo La Porta
Com’era facile da prevedere, la risposta del Preside D’Alessandro fu che le bollette del Consorzio di Bonifica dovevano essere pagate.
E figuriamoci se quello avrebbe mai potuto dire diversamente.
Lui, che aveva un concetto della Pubblica Amministrazione e dello Stato, che avrebbe fatto impallidire Tommaso Hobbes e che aveva fatto sua la teoria che qualsiasi autorità procedesse direttamente da Dio. Figuriamoci!
Le bollette andavano pagate e basta; non c’era nulla da fare. Proprio nulla.
Monsignor Lo Sicco, allora, spinto da alcuni tra i più notabili, pensò bene di convocare una specie di assemblea cittadina, presso i locali della Matrice.
All’incontro, oltre gli agricoltori interessati, avrebbero dovuto partecipare il Sindaco, che come sappiamo era fuori sede, i rappresentanti dei partiti politici e i sindacati. Si sarebbe dovuto, inoltre, insistere per assicurarsi la presenza del Segretario del Consorzio, cavalier Casimiro Santangelo e del Presidente della “Bonomiana, Coltivatori Diretti” cavalier Mario Platania.
Alle diciassette, nella sala di via Trentatrè non c’era più spazio neppure a stringersi come le sardine. I posti a sedere erano stati tutti occupati e la gente continuava ad arrivare.
Arrivavano singolarmente o a gruppi di tre o quattro.
Spingevano, concitavano, imprecavano contro quelli del Consorzio e contro il Sindaco che, mentre loro cercavano una soluzione qualsiasi al loro problema, era assente e “ cu sapi unni ci lucinu l’uocchi, chissà dove si trova”, sussurravano, per non irritare la suscettibilità di Silvestre, cugino del Primo Cittadino.
Il fumo e l’odore di una sigaretta dopo l’altra, accanitamente accesa ed avidamente respirata, andava a frammischiarsi all’odore aspro e lavorato di quelle persone, molte delle quali avevano dichiarato guerra aperta all’acqua e lotta senza quartiere al sapone.
Più passavano i minuti, più la stanza si avvolgeva di un’azzurra e maleodorante nuvola fumogena, alimentata dagli sternuti provocati dalle agricole narici solleticate dal tabacco da naso e dai rumorosi colpi di tosse che, spesse volte, volevano mascherare altri incauti e ancor più maleodoranti rumori, provenienti da quella parte del corpo, che la decenza consiglia di non mentovare.
Qualcuno avrebbe dovuto presiederla quell’assemblea; ma chi? Il Sindaco non c’era. L’ Arciprete non era opportuno che la presiedesse, poiché in fin dei conti sarebbe toccato a lui evitare che si potesse trascendere e che i soliti facinorosi potessero trarre facile spunto per creare disordini non facilmente controllabili.
Chi avrebbe dovuto presiedere? Monsignor Lo Sicco, spaesato e quasi impaurito da tutta quella folla imprevista e vociante, cercava la persona più adatta alla bisogna.
Niente. Nessuno gli si presentava capace di riportare alla ragione tutta quella gente, che di ragioni non ne voleva per nulla sentire.
Si era appena rassegnato ad assumere egli stesso medesimo quella gravosa responsabilità, che ebbe l’illuminazione di chiedere aiuto alla “ Virgo boni consilii”, la Vergine del buon Consiglio; si Lei, Lei soltanto poteva toglierlo da quell’enorme imbarazzo, in cui, diciamolo pure, in maniera poco avveduta, per non dir sprovveduta, era andato a ficcarsi.
Si andò, quindi, a rifugiare nell’angolo che riteneva il più riservato della sala, procedette ad un frettoloso e disordinato segno di croce e sottovoce e tremando, “ sub Tuum praesidum confugimus, sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio….nostras deprecationes ne despicias, non disprezzare le nostre preghiere..”, cominciò a balbettare.
Non aveva ancora finito di pregare, che le sue
“deprecationes” furono accolte e gli si parò davanti in tutta la sua disinvolta e disinteressata disponibilità Pilaro.
“ Monsignore, n’amu a dicidiri, dobbiamo deciderci… qualcuno dovrà presiedere, vossa s’assetta, si sieda dietro il tavolino e cominciamo.”
Ma Monsignore sembrava come impietrito; per cui, l’ineffabile professore andò ad impugnare un campanaccio riposto sul davanzale di una finestra e, scampanando vigorosamente, invitò i signori presenti a prendere posto.
Quelli, tuttavia, impegnati com’erano nel gridare le loro proteste, parvero non sentire il “cortese invito” ed incuranti della presenza dell’alto prelato si lasciarono andare ad ogni genere d’imprecazione, giungendo persino alla bestemmia, lì in quel luogo che, per essere di proprietà della Chiesa, era sacro.
Pilaro non si lasciò scomporre più di tanto e, ora pregando, ora strattonando, ora imprecando e costringendo alla calma i più riottosi, riuscì a ristabilire una specie di ordine ed un artificioso silenzio, interrotto da considerazioni malevole espresse tra i denti al vicino, colpi di tosse e “sgracchi”, il rumore degli sputi, espettorati da quelli più catarrosi e depositati sul già sudicio pavimento.
In men che non si dica, l’ordine fu ristabilito e il pregevole Professore, scuotendo solennemente il “suo” campanone, assunse il piglio di Cesare Merzagora e dichiarò aperti i lavori dell’assemblea, concedendo la parola a chi ne faceva richiesta con un solenne “ ne ha facoltà”, seguito da un immancabile consiglio alla brevità e ad un vibrato richiamo all’uso di un linguaggio consono al luogo ed alla presenza di un così autorevole esponente del Clero.
Come per incanto, gli interventi si susseguirono in maniera ordinata, gli oratori furono composti e le loro argomentazioni sensate; sicuramente le bollette erano troppo esose, forse frutto di un errore di valutazione e…in ogni modo andavano riesaminate, se non abolite.
Tra i presenti, due avevano chiesto incessantemente di parlare, ma il Presidente Pilaro, non si sa per quale motivo, non aveva inteso concedere loro la parola.
Finalmente, decise di concederla al primo, che non aveva smesso un momento di alzare il dito, “ ha chiesto di parlare il signor Leontini… ne ha facoltà; mi raccomando intervento breve”, raccomandò.
Il povero Leontini, però, che da più di un’ora aveva chiesto di parlare, quando fu il suo momento, a stento poté alzarsi dalla sedia e non riuscì neppure ad articolare un pur minimo suono, restando immobile e confuso ai rinnovati inviti del Presidente, “ prego signor Leontini …signor Leontini”.
Esausto per la lunga attesa, aveva completamente dimenticato cosa avrebbe dovuto e voluto dire ed aveva perso la parola, rimanendo dritto, immobile, quasi una statua di marmo nel bel mezzo della sala e incapace persino di sedersi; tanto che altri si sentirono in dovere di prenderlo di peso, per accomodarlo sulla sedia.
Meglio andò, invece, al cavaliere Scupitta, che stava per fare la stessa egregia figura del primo, se all’ultimo momento non avesse fatto ricorso ad un espediente, che gli procurò la simpatia di un oratore, che si era esibito poco prima.
“ Sono d’accordo con il signor Carricchio Carlo”, sentenziò Scupitta, schiarendosi la voce e concludendo il suo mai iniziato intervento.
Essendosi esaurite le richieste di intervenire , si decise di procedere alla sottoscrizione di una memoria da presentare al Sindaco, per protestare energicamente contro i vertici del Consorzio, a difesa degli agricoltori.
L’Arciprete e Pilaro si sarebbero recati personalmente in Municipio, per consegnare al Primo Cittadino le firme a corredo della protesta.
Dopo qualche giorno, era il mercoledì della Settimana Santa, i due si recarono al Municipio, per essere ricevuti dal Sindaco Salvo Lammiru, rientrato in fretta e furia non si era capito bene da dove, per avere l’esatta “contezza” dell’entità di quel problema, che aveva messo in subbuglio la comunità leonfortese.
Avvenne, però, che non avevano ancora salito i primi
gradini del Palazzo che Faustino, il sacrestano della Matrice, stanco morto e con il fiatone in gola, venne ad implorare l’immediata presenza di Monsignore, perché venisse a dirimere un’infuocata disputa tra i Fratelli della Mercé e quelli del Sacramento circa l’allestimento del “sepolcro” dell’indomani.
I contendenti, in barba al dettato evangelico della pace pasquale, erano arrivati alle parole grosse e se non si fosse intervenuto con celerità e severità, si sarebbero “aggaddati”, avrebbero fatto come i due famosi galli nello stesso pollaio.
A Silvestre non rimase che scappare là, dove era più necessaria l’immediatezza della sua presenza ed affidare a Pilaro la custodia e la consegna delle firme di protesta dei cittadini agricoltori, dei quali ormai il Professore era diventato unico e plenipotenziario difensore.
Giunto nella sala d’aspetto del Gabinetto, avrebbe voluto essere “ sine ulla interposita mora, senza indugio” ricevuto, stante l’importanza e la delicatezza della missione, della quale si sentiva ambasciatore e patrono.
Dovette, però, aspettare. Il Sindaco aveva dato disposizione che monaci, preti, emigranti e suore saltassero la fila d’attesa ed avessero immediato accesso nel suo gabinetto.
La porta dello studio spalancata gli diede la possibilità, tuttavia, di sbirciare e, tendendo bene l’orecchio, assistere ad una scena, che speriamo di riprodurvi in tutta la sua originalità.
Accanto alla scrivania prendeva posto il Conte Primo Castiglione, cugino del Sindaco e sempre elegantemente vestito dei migliori abiti confezionati o dal padre zio Angelino o da Agostino Catalfo Capretto.
Faceva quasi parte dell’arredamento il Conte e, quando non si doveva discutere di argomenti delicati, assumeva il ruolo di una specie di gran cerimoniere negli incontri tra Salvo Lammiru ed i suoi concittadini.
Quel giorno, indossava un vestito di cardato di lana di stile inglese (il suo stile), che gli aveva confezionato su misura Agostino Catalfo Capretto. Sembrava che glielo avesse cucito addosso quel vestito, tanto gli stava bene.
Scarpe lucidissime, sempre di stile inglese, e calzoni che lasciavano intravedere dalla gamba accavallata il calzino lungo (rigorosamente lungo) di filo di Scozia.
La sigaretta “ stuyvesant”, tra l’indice e il medio della mano destra, che teneva sempre spenta, perché il Sindaco vecchio fumatore pentito non sopportava più il fumo; accoglieva i visitatori con la degnazione di un gesto, che non andava mai al di là di una leggera flessione del capo verso destra e l’abbozzo del mezzo sorriso, che lasciava sfiorare aristocraticamente attraverso la discreta sollevazione del labbro sinistro.
L’ingresso delle tre suore figlie di Maria, venute a porgere a nome delle consorelle e della Famiglia Salesiana gli auguri pasquali al Sindaco, lo aveva consigliato ad un mezzo inchino, costringendolo a sollevare appena il nobile deretano dalla poltroncina di pelle.
Tanto più che al loro apparire, Salvo era scattato in piedi e si era precipitato per andare ad ossequiarle e farle accomodare, “ che piacere, che gioia che mi date sorelle…io sarei dovuto venire a trovarvi…”, si affannava a scusarsi con le religiose.
“ Ma no, no, Signor Sindaco, sappiamo quanto lei sia impegnato…scusi, piuttosto, lei il nostro ritardo…ma siamo state impegnate con gli esercizi”, ribatteva la Superiora, facendo riferimento com’è facile immaginare agli esercizi spirituali in preparazione della Pasqua.
“ Bellissimo, veramente bello, anche mio cugino il Conte ha fatto gli esercizi” , incalzò Lammiru per mettere un po’ in simpatica difficoltà quell’elegantone.
Per le tre suore fu una gioia sentire della devozione del nobile Castiglione e con il più serafico dei sorrisi, quasi in contemporanea, “anche lei..anche lei conte ha fatto gli esercizi?”
Il Conte apparve confuso, quasi costernato, e non sapendo di quale esercizi si trattasse, non volendo fare torto al cugino Sindaco, pensò agli unici esercizi che conoscesse, quelli di grammatica.
Passò, quindi, la stuyvesant da una mano all’altra e, chiudendo le altre dita della destra, fece oscillare debolmente il pollice ed il mignolo e sospirò, “metà!”