di Salvo La Porta

L’incontro con le suore fu, come al solito, molto cordiale e si prolungò per un bel po’ e si sarebbe ancora prolungato se Tano Monsù non fosse venuto ad avvertire che sotto, davanti il portone del Municipio, si era radunata una folla di curiosi, che assistevano alla protesta di Ignazio Palermitano, che lamentava di non essere stato ancora assunto ( “m’attocca, mi tocca” era suo diritto, asseriva lui) come netturbino, operatore ecologico diremmo oggi, presso il Comune di Leonforte.

“ Un pazzu, un pazzu furiusu pari e dici ca si nun ci fai sta delibera d’assunzioni…..cosi di pazzi farà”.

Effettivamente, Ignazio le cose da pazzi aveva cominciato a farle ed era arrivato a minacciare, funzionari, impiegati, amministratori e cittadini semplici curiosi, che si erano fermati a guardare, delle ritorsioni più pericolose e agghiaccianti.

“ Chi talii, ammuccalapuni, arridi ah…certu tu a panzaredda ci l’hai china….a’ testa ci scippu a stu Sinnicu, a stu’ fascistazzu, si nun mi duna ‘ u miu…che c’è da guardare, scimunito, ridi, ridi…tu hai la pancia piena…la testa gli faccio saltare a questo fascistone di Sindaco, se non mi da quello che mi è dovuto”, aveva detto a Tano, che era corso a vedere cosa stesse succedendo.

Accompagnava queste minacce con gli occhi di fuoco e con un’efficace mimica, che voleva imitare l’immagine del boia, che prende una povera testa grondante di sangue appena rotolata nella cesta ed, afferratala per i capelli, la mostra con crudele ferocia al popolo.

La gente, tra il divertito e il preoccupato, continuava a guardare e a stuzzicarlo, perché come si sa si prova sempre un certo subdolo piacere nel sentire parlare male di qualcuno, a cui non di rado si ha il coraggio di spifferare in faccia il proprio misero risentimento, spesso frutto della disonorevole invidia.

Il povero Tano era rimasto inorridito e sconvolto, quasi impietrito dinanzi alla veemenza di quelle minacce da “Orlando Furioso”, ma anche lui, sotto sotto, se non compiaciuto non proprio dispiaciuto era delle forsennate grida di Ignazio.

Non è che lui ce l’avesse con il Sindaco; come avrebbe potuto? Salvo si fidava di lui e non gli aveva mai fatto mancare la sua simpatia e la sua benevolenza, valorizzandone la figura di autista con una divisa ed un berretto, che pareva un Generale di Corpo d’Armata; un Generale…un Ammiraglio pareva!

Tuttavia, qualcosa da rimproverargli a ben guardare anche a lui rodeva dentro. Quando si andava in missione comunale a Catania o a Palermo…ebbene si! Rientravano in paese sempre tardi e… a stomaco vuoto. Mai che si andasse al ristorante. Al massimo con un panino imbottito ci si doveva “addubbare”, accontentare, per di più sbocconcellato in macchina e innaffiato con acqua di fonte, “ca’ pi offriri acqua ad iddu hanu a chiamari, che aveva veramente un cuore d’oro e i suoi bicchieri d’acqua erano colmi quanto la sua generosità”.

“ Quant’è pilliru, quanto è avaro, pari ca’ i dinari fussiru i so’ , cuomu si ci mittissi di sacchetta so’, come se i soldi fossero i suoi e li uscisse di tasca sua”, confidava guardingo agli altri collaboratori, per paura che qualcuno potesse riferire questo suo cruccio.

Il Sindaco ascoltò attentamente il resoconto dei fatti, che Tano in maniera dettagliata riferiva e senza scomporsi,

“ lassamilu sfuari, lasciamolo sfogare” disse come tra sé e sé, ma in modo che i presenti l’udissero.

Quindi, rivolto a Pilaro, “oh, Professore, caro Professore, quanto mi dispiace avere dovuto farla aspettare tanto.. mi dispiace, mi dispiace davvero; si accomodi”, fece con l’affettazione manieristica, di cui solo lui era capace.

Pilaro abbozzò un sorriso e, dopo avere speso poche parole di circostanza sui problemi e sui pericoli, che incombono sui Sindaci, aveva cominciato ad esporre le ragioni degli agricoltori contro le vessazioni del Consorzio di Bonifica, tirando fuori i fogli delle firme di protesta.

“Conosco bene la faccenda”, tagliò corto Lammiru, “ e sono felice che la buona risoluzione del contenzioso sia stata presa tanto a cuore anche da lei, che può vantare tante innumerevoli amicizie in “alto loco”….vorrei parlarne con maggiore calma e in maniera più approfondita un’altra volta, perché adesso.. le dispiace?”

Pilaro, per la prima volta, non riuscì a capire bene cosa il primo cittadino volesse intendere e, “ certamente, certamente…sempre a sua disposizione”, si affrettò a rispondere.

“ Grazie, lo so. So sempre di potere contare sulla sua preziosa collaborazione”, fece il Sindaco. “Ora, purtroppo, ho da affrontare un’altra delicata questione, che investe due nostri concittadini. Lei…non vorrei abusare della sua bontà…potrebbe aspettarmi nella stanzetta accanto?”

Pilaro non poté fare a meno di annuire e di seguire il suo ospite che con cortese cordialità lo invitava a seguirlo.

Un quadro a grandezza naturale dominava la parete della piccola camera; era il bisnonno del Sindaco, Nino Lammiru, raffigurato mentre seduto al deschetto del calzolaio intagliava le tomaie e con ai piedi le due stampelle, alle quali era solito appoggiarsi.

Sotto il quadro, un lungo tavolo di noce, traboccante di faldoni e di carte del Comune. “ Me’ nannu Ninu, mio nonno Nino”, fece Salvo con un sospiro profondo come per presentarlo al Professore che, sempre più confuso e incuriosito, chinò il capo in una specie di riguardoso saluto, accompagnato da un arruffato segno di croce.

“ Oggi, cu tuttu stu traficu, con tutto questo trambusto non ho potuto neppure dirgli le orazioni…le dispiace , mentre aspetta, dirgliele lei? Grazie”

Così dicendo, tirò fuori una corona del rosario e la porse allo esterrefatto Pilaro, che attonito la portò alla bocca come per baciarla e rassicurare il Sindaco che avrebbe di cuore ottemperato alla sua richiesta, non potendo fare a meno di pensare, “ma guarda tu…guarda tu, chi diavuluni di Sinnicu”.

Aveva, praticamente, trovato pane per i suoi denti; “ cuor lieto a cattivo gioco”, doveva fare. Altro non poteva.

Ma che cosa mai avrebbe avuto di importante da sistemare il Sindaco, tanto da relegare praticamente quel poveretto a recitare preghiere al nonno nella stanzetta accanto?

Bisognava a tutti i costi evitare uno scandalo. Carmela Altomonte, attempata signorina di una facoltosa famiglia, non se la fidava più di continuare a trascinare una vita di dolorosa e rassegnata verginità ed aveva finito per accettare la richiesta di matrimonio, che alcuni parenti dello zio Angelo Nipali, anche lui facoltoso ed attempato, le avevano a più riprese presentato per suo conto.

Dopo un breve periodo di fidanzamento (che cosa si doveva mai aspettare, ca’ ci quagghiava a miennula?) si decise di celebrare le nozze.

Carmelina aveva indossato un vestito bianco, che voleva ribadire alle malelingue la sua assoluta verginità e che le era costato un occhio della testa, per la stoffa e i veli, che aveva acquistato dalla sua amica Santina Innico, a Puntinara e per farlo confezionare; che a Catania se l’era fatto cucire.

Lo zio Angelo non era da meno. Indossava un abito scuro sul quale spiccava una camicia bianca ed un silochino nero, che sembrava un attore del cinema muto.

Le scarpe, entrambi se le erano fatte fare su misura dai parenti del Sindaco; di coppale quelle di Angelo, bianche e alla francesina quelle di Carmelina.

Di prima mattina, il coieffeur Carmelo Vaccaro si era recato a casa della sposa, per pettinarla come si conviene, e Jachino Vanadia aveva già fatto barba e capelli allo sposo.

Alle dieci e mezzo in punto di una giornata assolata, parenti e amici e lo zio Angelo si ritrovarono dinanzi al sagrato della Chiesa della Nunziata, la cui ripida scalinata era stata addobbata di veli e fiori bianchi, in attesa della sposa che, accompagnata da uno dei fratelli, si presentò con circa un’ora di ritardo.

La cerimonia fu semplice, austera…ma veramente bella; a tratti commovente, a causa del bel canto della signorina Peppina Passarello che, orba di un occhio, cantava dolcemente come quegli usignoli, che la crudeltà degli uomini rende ciechi.

Il ricevimento nuziale era stato preparato nell’ampio salone della casa della sposa e, come usava in quei tempi, erano stati approntati sulle candide tovaglie enormi vassoi di dolci fatti in casa, bicchieri per le bibite e bicchierini per i liquori e i rosoli.

Fu turbato, però, da un fatto increscioso, che avrebbe potuto avere gravi ripercussioni sulla salute dei presenti.

Ugo Pontorno Tollerino, che non aveva neppure dieci anni e di chiesa non ne mangiava proprio, aveva pensato di festeggiare a modo suo gli sposi ed aveva acquistato nel negozietto della Pitunna, che sorgeva lì vicino, alcuni mortaretti che aveva conservato nelle tasche dei pantaloni corti.

Essendo un diavoletto, aveva fatto in modo di entrare nella sala del ricevimento e si era riempito le tasche di dolci, dimentico dei mortaretti.

Quando gli sposini arrivarono, gli invitati si fecero loro incontro tra applausi e grida di “bacio, bacio”.

Nello stesso momento in cui lo zio Angelo stava per depositare un timido bacio sulle labbra della sposa, quasi per triste presagio, in virtù della calura i mortaretti a contatto con i dolci erano cominciati ad esplodere, facendo saltellare per il dolore il povero Ugo, che suo malgrado vide spostata su di sé l’attenzione di tutti.

Partirono, finalmente, tra i soliti lazzi e frizzi i due piccioncini. Prima tappa, Roma; a casa di una nipote di Angelo.

La notte, Carmelina era già pronta per essere deflorata; ma le andò male, perché Angelo le fece osservare che, essendo lei vergine, non sarebbe stato conveniente rischiare di sporcare le lenzuola degli ospiti.

Avrebbero avuto tempo. Ma il tempo, purtroppo, non arrivò mai, poiché lo sposo non aveva intenzione di assolvere all’obbligo coniugale. Anzi, era completamente disinteressato e si era praticamente rivelato “sordo all’intenzion dell’arte”.

Dallo stretto di Messina lo avrebbe gettato la moglie rimasta illibata, “ l’avissu ittatu a mari dintra u strittu di Missina”, aveva confidato ad un’amica.

Ora, questa faccenda avrebbe dovuto risolverla il Sindaco.

Ma come?

Gliene erano capitate gatte a pelare al Sindaco…ma come quella!

Assicurò, tuttavia, che qualcosa avrebbe fatto e rimandò i contendenti rasserenati, ciascuno a casa sua.

Si ricordò che aveva lasciato Pilaro ad aspettare e corse subito a liberarlo dalle incombenze che gli aveva dato (ma figuratevi il tenore delle preghiere di quello).

Alle due del pomeriggio, a braccetto del Professore e in amabile conversazione aveva cominciato a scendere le scale del Municipio, quando cominciò a sentire le urla di Ignazio che, avvertito del suo arrivo, era salito sul tetto ed aveva cominciato a minacciare, “ mi iettu, mi iettu, mi staiu ittannu, mi butto giù, mi sto gettando”.

Ma il Sindaco, come se il fatto non fosse suo, prendeva la via di casa, mentre Ignazio continuava a minacciare.

Si fermò, quindi, di scatto, strinse il braccio del suo accompagnatore ed alzati gli occhi verso il tetto, rivolto all’aspirante operatore ecologico, gridò “ Gnaziu, o Gnaziu, si t’ha ghittari, iettiti ora; si no si nni parra e cincu, pirchì mi nni vaiu a mangiari, Ignazio se devi buttarti giù fallo adesso, perché sto andando a mangiare e non torno prima delle cinque! O’ Gnaziu…”