di Salvo La Porta

Finì, com’era prevedibile, che Ignazio Palermitano non solo non si ittò, non si lanciò dal tetto del Municipio ma, quasi a volere aderire al pacato e risoluto invito del Sindaco, scese tranquillamente le scale, raggiunse amici e curiosi, passando dall’imprecazione al borbottio, ed andò a prendere insieme a quelli un boccone nella vicina osteria.
A tavola, davanti ad un’insalatiera ricolma di favi ‘ngriddi, bollite, nel “tocco” aveva cominciato a “’mpustimari”, ad imprecare contro un suo compare che, ricoprendo il delicato ruolo di “sutta”, si divertiva a lasciare “urmi”,senza bere neppure un goccio di vino, i convitati che lui, in qualità di “patruni”, invitava a bere.
Il gioco, ma sarebbe meglio dire il rito del tocco si celebrava, e si celebra ancora, di solito nelle osterie ed in alcuni bar dalle prime ore del pomeriggio, sino a sera inoltrata.
Il tocco classico è quello del vino, che scorre a fiumi lungo il gargarozzo dei partecipanti più fortunati.
Perché più fortunati? Perché si tratta di un gioco, affidato alla sorte ed alla capacità di intessere le opportune alleanze, al fine di potere trarre il massimo profitto dalla scelta delle persone, sulla quali riporre la fiducia.
La carta siciliana stabilisce chi dovrà condurre il gioco, l’ “uscita“, che nomina ‘ u patruni” appunto, che potrà infine invitare a bere chi vorrà lui, a suo piacimento, purché gradito al “ sutta”, ovvero a una specie di fiduciario, al quale spetta l’ultima parola.
Se il “sutta” decide che la persona invitata dal padrone non deve bere, questi non può obiettare nulla; può solo, se vuole e se ne è capace, bere lui stesso medesimo quella che ha blindato come “acqua di tiempira”, ovverosia una quantità di vino, su cui ha conservato il dominio.
Come succede in tutte le dinamiche di gruppo, è inevitabile che si formino tra i partecipanti le fazioni; per cui, c’è sempre qualcuno che riesce ad assumere un ruolo preponderante nelle attività e, se non è abbastanza equilibrato, ad approfittare della sua posizione a favore di se stesso medesimo o dei suoi amici ed a discapito di quanti gli sono antipatici, se non proprio in odio.
Nel rito del “tuoccu”, anche a causa delle molteplici e susseguenti libagioni, le alleanze tra le fazioni si allacciano e si sciolgono con la stessa facilità, con cui si allacciano e si sciolgono le alleanze tra i partiti politici e l’adesione dei cittadini elettori ad essi.
Sono, potremmo dire, elastiche; proprio così, elastiche come la pelle dei….., chiedo scusa, dei “santissimi”.
Ne deriva che, una volta uno e una volta un altro (vuoi per accreditarsi meglio con i nuovi alleati, vuoi nel tentativo di cementare meglio la solidarietà con quelli di prima) si lasci andare a piccoli, grandi dispetti, che nel tocco assumono il nome di “sgagniddi”.
A questi “sgagniddi” il povero Ignazio doveva fare fronte, guardandosi a destra e a manca, nel vano tentativo di volere fare accettare la propria padronale autorità.
Il sutta non acconsentiva a fare bere nessuno di quelli che aveva invitato lui e ne proponeva altri; a lui altro non rimaneva che bere a suo piacimento.
Aveva bevuto e beveva, infatti. “Na lancedda di vinu s’avia sculatu…”
Era, ormai, papiru papiru, alle soglie dell’ubriacatura, quando da lontano apparve il Sindaco; erano le cinque in punto.
“ O Gnaziu, daveru ti jttasti….ma dintra ‘na vutti di vinu” e giù a ridere.
Sarebbe stato un pomeriggio tutto sommato concluso bene; ma, purtroppo, c’era da risolvere la questione dei due sposini.
Qualcosa si sarebbe dovuto fare prima che lo scandalo scoppiasse; ma cosa?
“ Ne parlerò con l’Arciprete e con il dottor Mazza.
Loro sapranno come meglio consigliarmi.”
Assorto in questi pensieri, non si era accorto di parlare a voce alta; per cui, Pilaro che non lo sbintava,non lo lasciava un momento, si siggiu tutto il ragionamento e come il nibbio, che balza sulla candida colomba per divorarla, si prestò a spidugghiarla lui ‘sta marredda.
Salvo non disse nulla e come imbambolato, cominciò a dirigersi verso la farmacia.
Quando si dice il caso, sull’uscio trovò Mazza, che chiacchierava con Monsignor Silvestre.
Si fermò a salutare come se si trovasse a passare per caso e fu terzo “tra cotanto senno”, mentre il Professore, della presenza del quale non si era neppure avveduto, era diventato il quarto.
I due amici erano tanto accalorati nella conversazione, che si limitarono ad un distratto saluto verso i nuovi arrivati e continuarono a disquisire sul significato del matrimonio, sulla sua origine, sul matrimonio religioso, su quello laico….sull’annullamento del matrimonio, che competeva esclusivamente alla Sacra Rota, e sul divorzio, che meno male che quegli sciagurati dei massoni non erano ancora riusciti ad introdurre, fece l’Arciprete segnandosi frettolosamente, come se d’improvviso gli fosse apparso il diavolo.
Si capì subito chiaramente l’origine di quella discussione. Ancora più chiaramente, quando proprio il Farmacista richiamò un articolo del codice di diritto canonico, per cui il fine principale del matrimonio è la procreazione e l’educazione dei figli, “ se il matrimonio non è consumato, non si possono avere figli; logico, no?”
“ Ma quali figghi?”, fece Silvestre, “ la sposina ha più di cinquant’anni! Si putissiru fari cumpagnia…o santa fimmina”.
Sapevano tutto. “Nuddu ‘u sapi e Catania è china”, pensò il Sindaco.
Profittando di un attimo di silenzio Pilaro, allora, si fece timidamente avanti e, “ ‘u fattu è ca ‘u zitu non sona, il fatto è che lo sposino non fa il suo dovere; sapissi iu cuomu fari!”
Come, come fare? Fecero all’unisono gli altri, ai quali si era acceso il flebile barlume della speranza di risolvere la spinosa vicenda.
“ Presentatimillu. Stasira, stasira ci piensu iu, presentatemelo e stasera risolverò la faccenda.”
Pilaro aveva sempre una soluzione ad ogni problema suo o degli altri, la cui causa sposava come se fosse sua…sempre nella prospettiva del soddisfacimento di un suo pur minimo interesse.
Aveva individuato il modo migliore per risolvere anche quello dello zio Angelo.
Che senza indugio, quindi, glielo si presentasse; al resto avrebbe pensato lui.
“ ‘Na scossa elettrica ci voli pi’ chistu, una scossa elettrica ci vuole”, pensava e aveva già individuato chi quella scossa elettrica avrebbe potuto dargliela.
Nessuno meglio di Angelina avrebbe saputo risvegliargli i sensi, ammesso che quello li abbia mai esercitati quei sensi.
Ma Angelina…si. Lei avrebbe saputo come fare. Si determinò, quindi, di fare ricorso alla specialista in arti amorose, guardandosi, tuttavia, di mettere a parte gli altri dei suoi disegni, anche perché non gli sembrava opportuno che l’Arciprete sapesse.
Non è che Monsignor Silvestre si scrupuliassi, si scandalizzasse più di tanto, che profondo conoscitore era delle anime e della debolezza della carne; ma sempre l’Arciprete era.
Non restava che andare a cercare lo sposino. Con la scusa di avere dei medicinali da preparare il dottor Mazza si ritirò in farmacia e il Professore, il Monsignore e il Sindaco si avviarono alla ricerca dello zio Angelo.
Lo trovarono seduto con il braccio destro appoggiato alla spalliera della sedia, una mano in fronte ed un’altra che faceva oscillare la catenella d’argento dell’orologio da taschino, il cui movimento seguiva con lo sguardo assente.
Davanti il portoncino della sposina, che pareva un cani vastuniatu, lo scovarono.
Si fermarono, quindi, come se si trovassero a passare di lì per caso e si profondarono in mille convenevoli, che lasciavano il poveretto sempre più confuso e agitato.
Non erano ancora finiti i salamelecchi, che Pilaro fece segno ai due che lo lasciassero solo con il suo “cliente” che, ovviamente ignaro del motivo di quella cordialità, si era rasserenato dalle parole del Professore, che lo invitava a fare due passi.
Allo zio Angelo non parve vero di potersi allontanare per un po’ da quella casa, che era ormai diventata un inferno ed, entrata la seggiola dentro il portoncino, che si era premurato di accostare, si lasciò prendere a braccetto da quel nuovo amico ed insieme a lui cominciò a scendere a pinnina, verso la discesa, come se dovessero andare alla Matrice.
La passeggiata si rivelò molto piacevole e Pilaro sapeva riuscire tanto simpatico e amabile, che sembrava che i due fossero stati amici da sempre. Vecchi amici. Ma che dico amici?
Du’ frati parevinu, due fratelli sembravano!
Cosicché cominciarono a parlare dei loro fatti; anche di quelli più intimi, sino a che lo zio Angelo non cadde nella rete, che il ritrovato fratello gli aveva teso e non vuotò il sacco del suo dramma, sbottonandosi per filo e per segno.
“ Nun ti prioccupari”,lo rassicurò il Professore, “qualcosa si farà” e così dicendo gli strinse forte il braccio, mentre cominciava a condurlo verso quella casa, della cui esistenza aveva sentito solo parlare, ma della quale non era mai stato tanto ardito da varcare la porta d’ingresso.
La casa sorgeva nei pressi della “Porta Crucifissu”.

Era una dimora modesta al piano terra ed aveva l’uscio sempre socchiuso; anche se i numerosi visitatori, che si avvicendavano, bussavano alla porta tre convenzionali delicati colpetti con le nocche delle mani.
Anche Pilaro bussò e diede contemporaneamente voce; cosicché apparve in un battibaleno Alfonso (una specie di cerimoniere, maestro di casa tuttofare ed ottimo cuoco, specialista nella preparazione del baccalà alla ghiotta), che svolazzando informò che Angelina era per il momento impegnata, ma che lui era a disposizione “ si c’è bisuognu…ci sugnu iu…”.
Pilaro ignorò la cortese disponibilità e, “ no, grazii, Alfonsu, ma cu’ Angilina amu a parrari”.
La donna apparve, mezza discinta, dopo un quarto d’ora circa e si appartò subito con il Professore, che subito le spiegò a chiare lettere il problema dello zio Angelo, che era rimasto lì come un convitato di pietra; sino a quando non si vide prendere a braccio da quella che, facendogli attraversare un’ampia camera, in cui alcuni galantuomini si intrattenevano sui principali punti dell’arte, nella quale Ovidio è più di ogni altro esperto, lo introdusse in un’alcova di piacere.
Nel frattempo, anche Pilaro si accomodò ed iniziò subito a disquisire con gli altri ospiti della casa, ben sapendo che quelli non si sarebbero interessati a questioni di politica o di religione.
Tra gli altri, sempre gradito ospite don Gaetano, attempato, ma sempre focoso artigiano calzolaio, specialista nella confezione di scarpe per donna su misura, che aveva un’apprezzata bottega“e’ Pipituna”.
Non aveva ancora Angelina cominciato ad iniziare la sua terapia d’urto con lo zio, che parve succedesse il terremoto.
Si spalancò la porticina e, uno alla volta, carabinieri e poliziotti irruppero dentro, come se avessero sventato non si sa quale delitto.
Presi alla sprovvista, i visitatori avevano cercato di fuggire e lo stesso zio Angelo era uscito rosso in faccia ed in mutande, per scappare.
Solo Pilaro e don Gaetano rimasero immobili al loro
posto.
Del primo, le forze dell’ordine sembrarono non accorgersi; mentre di don Gaetano si accorsero…eccome se si accorsero!
“Don Gaetano, anche lei qua? Alla sua età…non me lo sarei mai aspettato”, aveva provato a redarguirlo il Commissario di Pubblica Sicurezza; ma lui, fermo immobile e quasi sdegnato come un condottiero senza macchia e senza paura, “ma chi sta diciennu? Signor Commissario, ma mi canusci cu sugnu? Io sono qua solo per prenderle la misura dei piedi e confezionarle un paio di scarpe…”
“ Ah, si?” fece stupito il Poliziotto, “ si”, ribatté don Gaetano, “ nun la putia fari veniri ‘o negoziu, mi avrebbe disonorato l’esercizio…iu scarparu sugnu!”

 

Leonforte, 7 maggio 2022